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La Repubblica Rassegna Stampa
28.04.2022 L’anima d’Israele lungo il confine russo-ucraino
Analisi di Maurizio Molinari

Testata: La Repubblica
Data: 28 aprile 2022
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «L’anima d’Israele lungo il confine russo-ucraino»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 28/04/2022, a pag. 1-12, con il titolo "L’anima d’Israele lungo il confine russo-ucraino", l'editoriale del direttore Maurizio Molinari.

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Maurizio Molinari

Il visitatore che sbarca all’aeroporto di Tel Aviv ha l’immediata impressione che Israele viva in una bolla molto lontana dalla guerra in Ucraina, ma in realtà è vero l’esatto opposto: si tratta di un conflitto che entra nelle sue viscere, rivela le sue paure e mette a dura prova la ragione stessa per cui, 74 anni fa, venne creato. L’impressione della lontananza viene dal fatto che in un Paese abituato da sempre a discutere senza interruzione di guerra e terrorismo, il conflitto in Ucraina si affaccia raramente nelle conversazioni nei caffè di Netanya e Tel Aviv. Non tutti giorni è fra le prime notizie del notiziario radio delle 8 del mattino su Reshet Beth — il più ascoltato — e capita anche che non arrivi sulle prime pagine dei giornali più venduti. È una coltre di silenzio rafforzata dal martellare dei temi a cui gli israeliani sono più abituati — dagli scontri con i palestinesi a Gerusalemme, ai razzi di Hamas da Gaza fino alla sorte del negoziato nucleare Usa-Iran — e nei quali continuano ad immergersi conoscendone a memoria dettagli, scenari, retroscena e personaggi. L’unico momento nel quale Israele discute a voce alta del conflitto che lacera l’Europa è quando il premier Naftali Bennett fa la spola con Kiev e Mosca, incontra Zelensky e Putin, lavora ad una mediazione che assegna allo Stato ebraico il ruolo di una “neutralità” tanto insolita quanto rivoluzionaria per una nazione che ha combattuto sulla propria esistenza alcuni dei conflitti più feroci della Guerra Fredda, sempre schierata con l’Occidente contro dittatori, regimi e terroristi arabi sostenuti, armati e finanziati dall’Urss. Ma proprio questa “neutralità” è la cima dell’iceberg, ovvero l’enorme somma di valori, ricordi, interessi ed emozioni che dimostra il legame unico di Israele con entrambi i Paesi in guerra. Il primo e fondamentale motivo è che almeno il 15 per cento degli oltre 9 milioni di israeliani è originario dall’ex Urss, in gran parte si tratta di russi ed ucraini, e ciò fa dello Stato ebraico «l’unica nazione russofona fuori dai confini della disciolta Unione Sovietica» come Vladimir Putin ama ripetere in pubblico. L’unica non-ex-sovietica dove, a Netanya, è stata eretta una statua al Soldato Russo protagonista della Grande Guerra Patriottica contro il nazifascismo. Ciò significa che ogni israeliano conosce, lavora, studia con almeno un russo o un ucraino, se non lo è lui stesso. Per non parlare delle origini del movimento sionista nel “Pale of Settlement” — che includeva l’Ucraina — spazzato dai pogrom della Russia zarista o le sue infinite interazioni — patti, convergenze occasionali e lacerazioni dolorose — con i gruppi rivoluzionari che generarono bolscevichi e menscevichi. Non c’è terra più legata alle origini di Israele della Russia, Ucraina compresa. Se nel 1903 il poeta Haim Bialik scrive nella regione ucraina della Volhyna il poema sul feroce pogrom nella moldava Kishineff, Shalom Aleichem ambienta in Ucraina il racconto su Anatevka da cui nascerà Il violinista sul tetto , il premio Nobel Yosef Agnon nasce a Buchach, Rabbi Nachman crea a Breslov il suo movimento di hassidim e il grande rabbino Israel bel Eliezer — il Baal Shem Tov — vive e studia a Podolia è perché nel triangolo fra Leopoli, Kharkiv e Odessa c’è uno spazio immanente di storia, vita e fede ebraiche che è sopravvissuto fino ad oggi.

Why Israel is having trouble picking sides in Russia's war on Ukraine -  Jewish Telegraphic Agency
Una manifestazione per l'Ucraina in Israele


A dispetto degli orrendi massacri con cui i nazisti, affiancati dai volontari ucraini, eliminarono durante la Seconda Guerra Mondiale la quasi totalità degli oltre 2,5 milioni di ebrei che vi vivevano nel 1941, quando l’“Operazione Barbarossa” — l’invasione tedesca dell’Urss — ebbe inizio. Pogrom zaristi, massacri cosacchi, eccidi nazisti ed antisemitismo sovietico fanno della terra ucraina uno degli angoli d’Europa dove negli ultimi secoli sono stati assassinati più ebrei. La melodia Dona, Dona , che quasi ogni bambino israeliano conosce, racconta di un angelo che dopo aver volteggiato in cielo sceglie a caso un capretto — per evocare il sacrificio — annunciandogli che «andrà al macello» perché «questa volta tocca a te». Ovvero, il peggio è in agguato per ognuno di noi. Ma ciò non toglie che è proprio in Ucraina, come in Russia, che l’ebraismo contemporaneo ha le sue radici. Lo confermano le origini famigliari di un numero impressionante di leader politici, ufficiali e imprenditori israeliani, la popolarità dell’ex dissidente Natan Sharansky, nato a Donetsk, ed i pellegrinaggi dei seguaci di Nachman di Breslav — centinaia di migliaia — che hanno continuato ad arrivare a Kiev fino quasi all’inizio del conflitto. Per non parlare delle dozzine di rabbini Lubavitch che, dalla fine dell’Urss, erano tornati in Ucraina con le loro famiglie per far risorgere l’ebraismo nella terra di Babyn Yar, l’orrenda strage compiuta da nazisti e polizia ucraina nel settembre 1941, quando in 48 ore vennero sterminati e gettati nelle fosse comuni 33771 ebrei di ogni età. Il confine fra Russia e Ucraina passa dentro l’identità di milioni di ebrei divenuti israeliani e quando il conflitto è iniziato, la lacerazione ha dilagato. Se la maggioranza della popolazione — il 67 per cento secondo i sondaggi — è schierata senza esitazioni con il Paese aggredito ed il municipio di Tel Aviv si è illuminato con i colori giallo-blu dell’Ucraina, la scelta del governo Bennett è stata di incarnare l’interesse primo, e fondamentale, dello Stato: salvare, proteggere gli ebrei in pericolo. Non solo gli almeno duecentomila cittadini ucraini ma anche gli oltre seicentomila che ancora vivono in Russia. Nessun Paese al mondo è altrettanto esposto nei Paesi protagonisti del conflitto iniziato il 24 febbraio scorso. A suggerire che il cuore del Paese batte per l’Ucraina è la scelta dei proprietari del “Bar Putin” sulla centralissima Rechov Yafo di Gerusalemme che hanno velocemente modificato l’insegna in “Bar Zelensky”. Ma è la “neutralità” formale che consente a Israele di accogliere ebrei ucraini in fuga dalla guerra ed ebrei russi in fuga dalla repressione di Putin come anche quegli oligarchi ebrei, da anni residenti in Gran Bretagna, a cui il governo di Londra nell’arco di pochi giorni ha applicato ferree sanzioni e tolto tutto, inclusa la possibilità per i figli di andare a scuola. Il risultato è una aliyà — immigrazione verso Israele — con numeri ancora imprecisi ma assai significativi. Secondo l’Agenzia ebraica siamo già a 8800 immigrati ucraini, 5800 russi e 400 bielorussi ma sono stimati in “decine di migliaia” quelli che hanno iniziato il processo di immigrazione, passando dai campi di accoglienza creati nei Paesi che confinano con la zona di guerra. A gestirli sono volontari madrelingua russi, uomini e donne immigrati loro stessi dall’Urss anni fa, che ora si trovano ad aiutare chi allora scelse di rimanere. Vestono magliette blu, portano le insegne con la stella di David: vanno e vengono in continuazione dall’aeroporto “Ben Gurion” protagonisti di un ponte aereo che fa venire le lacrime agli occhi a quei sopravvissuti della Shoà che, guardandoli, si chiedono «come sarebbe stata diversa la Storia se anche allora avessimo avuto un luogo dove andare».

Jerusalem's 'Putin Pub' Changes Name Amid Ukraine War - I24NEWS
Il "Putin Pub" di Gerusalemme senza più l'insegna

Come dice Sharansky: «Quando c’era l’Urss essere ebreo era una dannazione, significava non poter studiare o emigrare, oggi invece essere ebreo significa avere qualcuno che viene a soccorrerti sul confine della guerra». Per gli israeliani è la prova della necessità dell’esistenza dello Stato, della sua vocazione originaria, la dimostrazione che ad oltre cento anni dal primo Congresso sionista di Basilea e dalla pubblicazione del testo Lo Stato ebraico di Teodoro Herzl, il bisogno di avere uno Stato-rifugio, capace di proteggere gli ebrei, non potrebbe essere più attuale. Ma non è tutto perché la “neutralità” che consente a Israele di avere canali aperti tanto con Kiev che con Mosca ha anche un’altra genesi che sa di realpolitik: la presenza militare russa in Siria. «Da quando i russi sono arrivati nel settembre 2015 abbiamo con loro un accordo strategico de facto — spiega una fonte diplomatica israeliana — che ci consente con l’aviazione di operare contro obiettivi iraniani e filo-iraniani ». Il timore israeliano è duplice: una rottura con la Russia capace di far evaporare l’intesa sulla Siria o il ritiro dei russi consentirebbe di trarne vantaggio all’Iran, nemico giurato numero 1 di Gerusalemme. Ecco perché il premier Bennett misura i termini sull’Ucraina, lasciando al ministro degli Esteri Yair Lapid declamare davanti alle tv le posizioni più anti-russe sui «crimini di guerra commessi». In un equilibrio difficile che vede Israele votare all’Onu contro la Russia — sull’invasione e sull’espulsione dal Consiglio Diritti Umani — ed anche sedersi a Ramstein al tavolo della “Global Nato” ma senza partecipare alle sanzioni economiche. Come spiega Elliott Abrams, veterano del Dipartimento di Stato oggi al “Council on Foreign Relations” di New York, «Israele è lo Stato occidentale con migliori relazioni con il Cremlino». Ecco perché Victoria Nuland, sottosegretario di Stato Usa, ammonisce Israele «a non diventare il paradiso dei soldi sporchi che finanziano le guerre di Putin» mentre il Cremlino si scaglia contro Lapid accusandolo di «parlare di Ucraina solo per far dimenticare il dramma dei palestinesi». «La verità è che siamo alleati stretti degli Stati Uniti — spiega un’alta fonte diplomatica a Gerusalemme — ma non possiamo dimenticare di avere al Nord un confine diretto con l’esercito russo». È una situazione senza precedenti nella vita dello Stato ebraico che spiega l’importanza di un saggio pubblicato nel 2000 da Vittorio Dan Segre — storico e scrittore italiano, divenuto in Israele collaboratore di Shimon Peres e quindi ambasciatore in più Paesi africani — sul tema “neutralità e coesistenza in Medio Oriente” dove spiegava che la vocazione naturale del progetto sionista era «non appartenere a schieramenti» perché «gli ebrei sul Sinai ricevettero i Dieci Comandamenti per custodirli e trasmetterli all’umanità intera». Senza eccezioni.

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