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Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 25/01/2022, a pag. 27, con il titolo "Scampate a Mengele", l'intervista di Tonia Mastrobuoni. Tonia Mastrobuoni
Cosa significa per un bambino essere rinchiuso in un campo di sterminio? Tatiana: «Lo abbiamo capito solo dopo. La morte era quotidiana, noi giocavamo accanto ai morti, anzi, con i morti, li vedevamo tutti i giorni e non ci spaventavano. La vita a Birkenau era la morte. E le guardiane delle baracche, le blockowe , ci spiegavano che saremmo usciti dal campo soltanto attraverso le ciminiere, che quello era il destino di noi ebrei. Bruciare nei forni».
Voi scampaste alla morte perché una “blockowa” vi avvertì di non farvi ingannare dai medici con le loro avvelenate promesse. Andra: «Sì. Ci aveva preso in simpatia, non sappiamo perché. E ci avvertì che i medici avrebbero fatto una cosa molto crudele. Avevano bisogno di dieci maschi e dieci femmine. Mandarono un ufficiale che ci mise tutti in fila, fuori dalla baracca. Poi urlò “chi vuole andare dalla mamma alzi la mano”. Noi eravamo state avvertite che chi avrebbe alzato la mano sarebbe stato portato via, che era conda nnato a morte. Rimanemmo immobili come statue. Ma nostro cugino Sergio, nonostante lo avessimo avvertito che era una trappola, alzò la mano. La voglia di rivedere la mamma fu più forte di qualsiasi paura. Lo portarono via. Lo vedemmo l’ultima volta salutarci insieme agli altri bambini mentre saliva sulla “rampa” e nei vagoni. Era sereno, contento, convinto di rivedere la mamma. Invece lo portarono ad Amburgo, dove andò incontro a una morte terribile».
Vostro cugino Sergio De Simone fu portato nel campo di Neuengamme dove gli iniettarono i bacilli tubercolari, gli asportarono i linfonodi e dove infine fu impiccato insieme agli altri bambini. Andra: «Sì. Per noi è anche un immenso dolore quel ricordo, un cruccio fisso. Sergio fu portato via con l’inganno. Il 20 aprile saremo ad Amburgo per ricordare lui e gli altri diciannove bambini di Bullenhuser Damm. In un quartiere nuovo della città anseatica hanno intitolato venti strade con i nomi dei bambini, e c’è anche il nostro amato cugino Sergio».
Voi avete cominciato a parlare tardi della vostra esperienza, e nel vostro libro “Noi, bambine ad Auschwitz” (Mondadori) citate spesso vostra madre, anche lei deportata a Birkenau. Tatiana: «Nostra madre scappava tutte le sere da noi e ogni volta ci chiedeva come ci chiamassimo e chi fossero i nostri genitori. Non dovevamo dimenticare». Perché? Andra: «Perché nel campo nessuno ci chiamava per nome. Ci chiamavano con il nostro numero tatuato sul braccio. Eravamo niente. Ricordo una bimba che fu poi adottata da una famiglia tedesca dopo la guerra. Aveva dimenticato come si chiamava. La ribattezzarono Miriam».
Tanti, come vostra madre, non riuscirono a parlare, dopo. Tatiana: «Mamma si confidò soltanto con una sua cara amica, Henny. Ma le fece giurare che non avrebbe mai raccontato niente. Aveva vissuto delle torture e delle atrocità talmente devastanti che non volle che lo sapessimo, neanche tantissimi anni dopo la guerra. Uno dei rari episodi che sappiamo è che un nazista le chiese una volta di appoggiarsi delle forbici sul petto. Poi le diede una spinta forte da dietro. Mamma cadde ma ebbe l’istinto di spostare le forbici all’ultimo istante. E poi c’è anche l’episodio del brillante. Che dice molto sulla vita nel lager».
Quale episodio? Andra: «Nostra zia Gisella riuscì a portare via dalla baracca cosiddetta “Kanada”, dove venivano smistati i beni con cui i prigionieri arrivavano al campo, un brillante. Non sappiamo come, perché i controlli erano rigidissimi. In ogni caso zia Gisella diede il brillante a mia madre, che lo mise in un sacchetto che nascondeva sotto al cuscino. Una mattina mamma si svegliò e il sacchetto era sparito. Pianse disperata. Non per il brillante, ma perché in quel sacchetto aveva nascosto anche un pezzetto di pane. E il pane, a Birkenau, era il più prezioso dei beni, valeva più di un milione di brillanti».
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