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La Repubblica Rassegna Stampa
25.10.2021 Afghanistan: terrore talebano
Commenti di Emanuela Audisio, Alberto Cairo

Testata: La Repubblica
Data: 25 ottobre 2021
Pagina: 13
Autore: Emanuela Audisio - Alberto Cairo
Titolo: «La maestra, la regista e la sindaca il grido delle afghane in fuga: 'Non riconoscete i talebani' - Rabbia e dolore, i bimbi perduti per ignoranza»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 25/10/2021, a pag. 13, con il titolo "La maestra, la regista e la sindaca il grido delle afghane in fuga: 'Non riconoscete i talebani' ", la cronaca di Emanuela Audisio; con il titolo "Rabbia e dolore, i bimbi perduti per ignoranza", il commento di Alberto Cairo.

Ecco gli articoli:

Emanuela Audisio: "La maestra, la regista e la sindaca il grido delle afghane in fuga: 'Non riconoscete i talebani' "

Afghaanse overheid heeft geen verhaal tegen pijlsnelle terreinwinst taliban  | De Tijd

Quello che erano, quello che sono, che vogliono ancora essere. Per tutti le donne afghane sono una categoria, una foto di gruppo: quelle che fuggono e sfuggono. Impaurite, stremate, costrette. Non hanno un volto, un curriculum, una voce individuale. Ci voleva un documentario così, Noi donne afghane , per restituire identità, forza, coraggio, a chi si prende la responsabilità di riparare (un po’) il mondo. O almeno di provarci. E così le donne afghane diventano persone con un nome, una professione, una storia, un agire. Sono fotografe, registe, attiviste, imprenditrici, insegnanti. Dicono tutte la stessa cosa, ma ognuna con la propria firma: «Non voglio stare in gabbia, né che qualcuno decida il mio modo di vestire o per le mie libertà». Zarifa Ghafari, 27 anni, è stata la più giovane sindaca mai eletta, nel municipio di Maidan Shahr dove nel 2018 era l’unica donna fra 138 candidati. Hanno provato a ucciderla sei volte, è sempre sfuggita agli attentati, ma suo padre colonnello ha pagato per lei. «Gli hanno sparato da dietro, tre colpi alla nuca. Dopo aver provato a lanciare granate contro la mia auto. I talebani non mi permettevano di raggiungere il mio ufficio, non volevano riconoscere il mio ruolo, anzi volevano che ci rinunciassi, alla fine dopo nove mesi ho vinto io. Ma hanno ucciso papà e non potevo rischiare anche la vita di mia madre, così ho lasciato il Paese per un senso di responsabilità verso la mia famiglia ». Sahraa Karimi è una regista, prima donna direttore dell’Afghan Film Organization e unica donna a concorrere per il posto. Ha diretto documentari e un film, Hava, Maryam, Ayesha , presentato a Venezia nel 2019. Sahraa, nata in Afghanistan, cresciuta in Iran, ha studiato all’Accademia di cinema di Bratislava e nel 2012 è ritornata nel suo Paese dove ha vissuto fino alla riconquista dei talebani. «Le afghane, specialmente la giovane generazione, stavano facendo molto bene, ma ora i talebani ci rendono invisibili. La nostra professione per loro non è accettabile. Il nostro nome era nella lista nera, nella killing list . Quando sono partita è stato per mio fratello e le sue figlie. È stata la decisione più difficile della mia vita. Non mi piacevano molte cose a Kabul, ma amavo stare lì, ho pianto quando l’aereo stava decollando e la mia città diventava così piccola, perché non sapevo se sarei ritornata. Vi prego, non date riconoscimento ai talebani, loro lo cercano per continuare a comportarsi in modo miserevole». Il documentario, in anteprima domani al cinema Anteo di Milano, è prodotto da 3D Produzioni in collaborazione con la rete solidale “Le donne per le donne” e l’associazione “Chiamale Storie”. Didi Gnocchi ha scritto il soggetto, sceneggiatura e regia sono di Sabina Fedeli e Anna Migotto. Ma le protagoniste sono loro, le afghane. Roya Heydari, 28 anni, fotografa, cresciuta in esilio in Iran, era tornata per raccontare quello che dell’Afghanistan non si racconta mai, la sua bellezza. L’arte come possibilità di cambiamento. Ora è rifugiata in Francia. «In molti distretti, lontani da Kabul, ci sono donne con molti figli, ho lavorato con loro, portando le mie macchine fotografiche e coinvolgendole nei miei progetti. I talebani non sono cambiati e mai cambieranno. Parigi è bella, il Louvre è magnifico, ma io mi sento estranea». Mahbouba Seraj, 73 anni, direttrice dell’Afghan Women Network, nominata da Time tra le persone più influenti del 2001, ha lasciato l’America nel 2003 per tornare in patria. «L’ho fatto per alcune immagini che avevo visto in tv: una donna giustiziata con un proiettile alla nuca, la statua di Buddha fatta a pezzi a Bamiyan. Le ragazze non vanno a scuola, l’economia è al collasso, è un disastro umanitario» Pashtana Zalmai Khan Durrani, 23 anni, attivista e insegnante premiata dal Malala Fund, lotta per dare un’istruzione nelle zone rurali. Nata nella provincia di Kandahar, ha vissuto la sua infanzia da rifugiata in Pakistan, ma è tornata nel suo Paese e ha sviluppato una piattaforma online che aiuta bambine e adolescenti ad avere un’istruzione. «Molte scuole vengono bruciate, non esistono materiali didattici né insegnanti. Così nel 2018 ho co-fondato “Learn” nella nostra casa con un tavolo, un tablet e l’aiuto dei miei. Abbiamo più di 7mila iscritti. Non posso chiedere a un padre di mandare le figlie a scuola se è stata data alle fiamme. Ma posso fornire un’alternativa più sicura: sua figlia può restare a casa e ricevere un’istruzione». Pashtana oggi vive nascosta per sfuggire ai talebani. Molti visi rigate da lacrime, ma anche molto fare per avere un’alternativa, appunto. Aiutarsi a disegnarsi una vita e non lasciare che te la cancellino.

Alberto Cairo: "Rabbia e dolore, i bimbi perduti per ignoranza"

Diario da Kabul di Alberto Cairo. Gioia e dolore per ogni volo che decolla  - la Repubblica
Alberto Cairo

Oggi ho ricevuto la lista mensile dei nuovi pazienti assistiti dal nostro centro di riabilitazione, divisi per patologie. Ancora una volta il numero più alto è quello dei bambini con paralisi cerebrale. Ricordare Anisà è automatico. Non aveva vent’anni quando la conobbi. Persa una gamba per un incidente stradale, i suoi l’avevano maritata a un pover’uomo. Poiché in casa il cibo mancava, faceva la lavandaia in giro. Un giorno, più in difficoltà che mai, ci chiese aiuto, un lavoro fisso. Essendo il personale al completo, potemmo solo assumerla a giornata per sostituire le addette alle pulizie assenti e nei festivi. I giorni lavorativi non erano molti, una decina al mese, ma accettò subito, dimostrandosi capace e attiva. Una mattina le fisioterapiste mi avvertirono che stava male, ma non voleva andare a casa né dal medico. La ragione era chiara: essendo pagata solo quando lavorava, non poteva permettersi assenze, né rischiare che il medico le imponesse giorni di riposo. Era una semplice influenza, giurava, tutta la famiglia ne soffriva. Le dicemmo di stare a casa tre giorni, sarebbe stata pagata ugualmente. Questo alle dieci e mezza. Alle tredici mi informarono che aveva partorito. Sia lei che il bimbo stavano bene, ma ancora oggi rabbrividisco al pensiero del pericolo corso. Le Anisà in Afghanistan sono molte, non tutte fortunate alla stessa maniera. Per necessità e ignoranza devono correre rischi tremendi. Il risultato è che, a causa di parti senza adeguata assistenza, tante donne muoiono, tanti bambini soffrono di danni cerebrali. Un terzo dei nostri nuovi pazienti, circa 15mila l’anno, ne è affetto. Noi possiamo solo intervenire “dopo”, cercando di riparare il possibile con fisioterapia specializzata. Occorrerebbero interventi “a monte”: programmi di pianificazione familiare, informazione capillare (anche ai mariti), cliniche per madri e infanzia, ospedali maternità efficienti. Da anni mandiamo rapporti al Ministero della Sanità. Inutile. Troppi gli ostacoli, religiosi, economici, culturali: occorre fare tanti figli per la fede, dimostrarsi virili, assicurarsi una vecchiaia assistita. Come fare capire il rischio che corrono spose troppo giovani, quello causato da matrimoni tra consanguinei (la norma qui), da gravidanze non seguite e lavori pesanti svolti fino all’ultimo mese? Già scarse prima, con la crisi in cui il Paese è piombato, le speranze di miglioramento sono ancora meno. La vicenda di Anisà contribuì ad aprirmi gli occhi su una realtà a me sconosciuta. Quando riprese il lavoro le facemmo festa, ma anche una ramanzina severissima. Poi la confermammo a tempo pieno.

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