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La Repubblica Rassegna Stampa
29.09.2021 L’ultima lezione di Angela Merkel
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: La Repubblica
Data: 29 settembre 2021
Pagina: 1
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «L’ultima lezione di Merkel»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 29/09/2021, a pag. 1, con il titolo "L’ultima lezione di Merkel", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.

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Bernard-Henri Lévy

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Angela Merkel

Ecco delle elezioni veramente straordinarie. Un tasso di partecipazione, in parte dovuto al voto per corrispondenza, che attesta la vitalità della democrazia. Un'estrema sinistra in grave difficoltà, al di sotto del 5 per cento necessario per avere deputati nel Bundestag. Un'estrema destra ancora troppo forte, ma molto meno che nel mio Paese e contenuta dal cordone sanitario che i due partiti centrali, senza tanto clamore, le hanno disegnato intorno.

La vittoria, tra i Verdi, dell’ala realista su quella più radicale, degli ecologisti di governo, che hanno avuto responsabilità nei Länder, sull’equivalente delle Sandrine Rousseau preoccupate, e così anche in Germania, meno di riparare il pianeta che di affermare un’ideologia globale, radicale, arrogante. I due grandi partiti moderati che, anche se i socialdemocratici vincono sul filo di lana, sono quasi alla pari e, costretti a trattare con i liberali e gli ecologisti, sembrano impediti, come per una qualche saggezza immanente del popolo sovrano, di cedere a quel peccato dei tempi difficili che i greci chiamavano hubris.

Una campagna esigente, rigorosa, essa stessa moderata, insomma, in cui gli elettori si sono appassionati a dibattiti di alto livello sul debito, sul « whatever it takes » o sulla transizione digitale, e in cui gli aspiranti alla Cancelleria hanno cercato di rispettarsi a vicenda, di esprimersi con un linguaggio castigato e di rivolgersi, per quanto possibile, alla comprensione degli elettori — non abbiamo forse visto un candidato fare appello al greco antico per preoccuparsi di una possibile stasis, di un blocco, del sistema politico? Una battaglia senza quartiere in cui, ovviamente, non si è rinunciato a nessun argomento per mettere in difficoltà l’altro e nella quale il campione della Cdu ha pagato care, come sempre nella società dello spettacolo, le sue gaffe e i suoi errori — ma in cui, contrariamente a quanto avviene in Francia, la parola “Islam” non è stata mai pronunciata e la parola “immigrazione” è stata pronunciata appena: perché era un tabù? Perché, come dicono gli Eric Zemmour e altri saltimbanchi parigini, le “vere domande” non potevano essere poste? Eh, no! Se si è parlato così poco di immigrazione e di Islam è perché Angela Merkel ha preferito il suo Paese al suo partito e la Storia al suo potere! È perché ha avuto il coraggio di pronunciare queste parole semplici e quasi bibliche: « Wir schaffen das » («possiamo farcela») e, visto che la maggior parte dei 2 milioni di rifugiati siriani e afghani accolti nel 2017 ha finito per trovare un lavoro e integrarsi, ce l’ha fatta davvero! È perché c’è stato, a Berlino, un puro momento di grandezza, di moralità kantiana e di verità, il cui spirito si è diffuso, attraverso una contaminazione virtuosa, al resto della classe politica! Perché queste elezioni pacifiche sono la vittoria di una ragazza della Ddr che ogni giorno, andando al lavoro, passa davanti al muro della vergogna ancora in piedi e abita, con suo marito, vicino al memoriale della Shoah. È l’ultima parola di un’eroina di Herta Müller, impigliata nelle ragnatele della Stasi prima che dalla crisalide si schiuda una Lady di Ferro, erede dei Dietrich Bonhoeffer e di altri Martin Niemöller.

È l’ultima metamorfosi di quella piccolina, la ragazza, das Mädchen, che tutti avevano sottovalutato e che, con la sua aria ingenua di fanciulla sperduta in mezzo ai draghi e ai baroni della Germania riunificata, con le sue maniere da Sigfrido nell’affrontare i Wotan dei partiti in lotta per il riconoscimento e il potere, con il suo candore da principessa Myskin combinato con l’efficienza di un Machiavelli, il sangue freddo di un Bruto e la finezza strategica di un Cassio, ha abbattuto il gigante Kohl inebriato dalla sua stessa autorità; ha squalificato il deplorevole Gerhard Schröder che, prima di andare a vendersi a Putin, aveva fatto l’errore di guardarla dall’alto in basso; e infine, ha ridotto a proporzioni che noi francesi possiamo e dobbiamo invidiare ai tedeschi i funesti estremismi. È l’apoteosi della figlia di un pastore brandeburghese che trent’anni fa era considerata adatta solo a dirigere vaghi movimenti giovanili o a farsi interprete delle lamentele dei pescatori di aringhe del Baltico, e che finisce in bellezza i sedici anni del suo lungo regno; che lascia il palcoscenico solo per entrare, vivente, nella Storia di questo secolo; e che, poiché la formazione di una nuova coalizione richiede tempo, si offre, sottovoce, il lusso di una stagione supplementare di governo — cosa anch’essa straordinaria in questi tempi di dégagisme generalizzato! Questo “richiamo” è anche la prova che il populismo anti-élite non è necessariamente il destino della politica moderna! Ed è un’altra buona notizia... Alcuni troveranno questa Germania merkeliana e ora post-merkeliana troppo pesante e troppo saggia. E non avranno torto nel notare che l’anima dell’Europa non può essere ridotta a questo spirito di serietà su uno sfondo di prosperità. Ma oggi non è questa l’urgenza. È, piuttosto, nel vento cattivo che sta soffiando sul continente. Oh, non il buon Sturm und Drang! Non una tempesta di arte, spirito e intelligenza! No. Una tempesta di odio e violenza. Un uragano di radicalismi e stupidità. Forse la stessa tempesta che Celan aveva visto arrivare nella terribile battuta del Todesfuge: “La morte è un Maestro di Germania”. Solo che questa tempesta che passa sull’Europa e che era stata segnalata su Berlino alla fine non è scoppiata lì — e che è al contrario lì, in questa Germania che torce il collo ai suoi e ai nostri demoni, che ha incontrato i suoi primi parafulmini. È un fatto: il Paese della Scuola di Francoforte e del suo patriottismo costituzionale, il Paese di Kant e dell’imperativo categorico, il Paese di Hölderlin e dei suoi Viandanti che giungono al nazionale in un rapporto dialettico con lo straniero, il Paese di Nietzsche, che schernisce la pesantezza soddisfatta, sazia e ipocrita della Germania völkisch, stanno dando al mondo, e alla Francia in particolare, una bella lezione di democrazia. Grazie, Germania.
Traduzione di Luis E. Moriones

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