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La Repubblica Rassegna Stampa
14.06.2021 Israele, il governo e il Paese
Cronaca di Sharon Nizza, analisi di Vincenzo Nigro, Enrico Franceschini

Testata: La Repubblica
Data: 14 giugno 2021
Pagina: 14
Autore: Sharon Nizza - Vincenzo Nigro - Enrico Franceschini
Titolo: «Israele, l’ora di Bennett. Dopo dodici anni Netanyahu è fuori - Il tradimento dell’ex delfino, così il manager soldato Naftali ha spodestato l’eterno Bibi - Cosa resta di Netanyahu»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 14/06/2021, a pag. 14, l'articolo di Sharon Nizza dal titolo "Israele, l’ora di Bennett. Dopo dodici anni Netanyahu è fuori"; l'articolo di Vincenzo Nigro con il titolo "Il tradimento dell’ex delfino, così il manager soldato Naftali ha spodestato l’eterno Bibi"; a pag. 22, con il titolo "Cosa resta di Netanyahu", il commento di Enrico Franceschini.

Ecco gli articoli:

Approvato dalla Knesset il 35esimo governo israeliano - Israele.net -  Israele.net
La Knesset, il Parlamento israeliano

Sharon Nizza: "Israele, l’ora di Bennett. Dopo dodici anni Netanyahu è fuori"

Israele ha un nuovo governo. E per la prima volta in 12 anni consecutivi, a guidarlo non sarà Benjamin Netanyahu, che ieri al termine del voto di fiducia, ha preso posto tra i banchi dell’opposizione. Il “patto dei fratelli”, il connubio tra Naftali Bennett e Yair Lapid iniziato proprio sotto il governo Netanyahu del 2013, si è cementato negli anni fino a portare alla svolta epocale. Ma è stata una strada tortuosa fino all’ultimo quella che ha accompagnato la formazione del 36mo governo israeliano: in extremis, un parlamentare di Ra’am, Said al-Harumi, si è astenuto, facendo così nascere un governo con 60 consensi su 120 seggi della Knesset, sufficiente per giurare, ma non per passare, per esempio, la legge di bilancio, la prima sfida della nuova alleanza. Parte quindi già zoppicante la fragile coalizione che riunisce 8 formazioni politiche che abbracciano quasi l’intero arco costituzionale: dalla destra nazionalista di Yamina di Bennett, che subentra a Netanyahu come premier, passando per il centro laico di Yair Lapid - che sostituirà Bennett alla presidenza del consiglio nell’agosto 2023 - per finire con la sinistra progressista del Meretz, che torna al governo dopo 20 anni, e con la vera novità di questa svolta: il partito islamico Ra’am di Mansour Abbas, la prima volta dal 1977 che un partito arabo sostiene attivamente una maggioranza, e la prima volta in assoluto che appoggia un premier di destra, che per giunta ha servito come leader del Consiglio Yesha, espressione del movimento degli insediamenti. Mentre chiedeva la fiducia alla Knesset, Bennett è stato interrotto ripetutamente dalle opposizioni che lo accusano di aver frodato gli elettori di destra per formare una “coalizione di sinistra” e di non essere legittimato, con soli 6 seggi, a guidare il Paese. Un circo di urla e sceneggiate, tanto che Lapid ha rinunciato al suo intervento da “premier alternato”. Netanyahu, nel suo ultimo discorso da premier, ha ripercorso le tappe con cui ha portato Israele a essere «una potenza mondiale, una delle venti economie migliori al mondo». «Vi chiedo solo una cosa: non rovinate il Paese che vi consegniamo, così non dovremo metterci troppo a rimetterlo in sesto appena torneremo». Netanyahu non intende mollare, ma ora dovrà dedicarsi anche a mantenere la sua base all’interno del Likud. Gli altri grandi assenti nella svolta storica sono i partiti ultraortodossi, che il nuovo governo punta a coinvolgere in un futuro non troppo lontano per garantirsi maggiore spazio di manovra. Sono innumerevoli le sfide del “governo del cambiamento”, ma a piazza Rabin a Tel Aviv si pensa all’oggi: i manifestanti che per un anno hanno chiesto le dimissioni di Netanyahu festeggiano e brindano. Si apre un nuovo capitolo per Israele, domani è un altro giorno.

Vincenzo Nigro: "Il tradimento dell’ex delfino, così il manager soldato Naftali ha spodestato l’eterno Bibi"

Ufficiale delle forze speciali, creatore di una start up milionaria, capo di un consiglio in Cisgiordania, deputato e ministro con Netanyahu. E poi inventore e creatore di nuovi partiti della destra, capace adesso di portare i voti dei 6 deputati del suo partitino in dote a un’alleanza con partiti centristi, socialisti e arabi. Una dote talmente preziosa da garantirgli per 2 anni il posto di premier in un governo che ha come vero regista il leader moderato Yair Lapid. Chi è Naftali Bennett, l’uomo che da ieri ha interrotto il regno dei 12 anni di Bibi Netanyahu, il premier di cui era stato anche capo di gabinetto? Tutti i ruoli, le vite precedenti di Bennett parlano di un uomo che proviene da una storia politica, religiosa, professionale decisamente diversa da quella degli 11 uomini e della donna che lo hanno preceduto nell’incarico. Un uomo che impersonifica anche il più classico dei percorsi in politica, quello della crescita e dell’abbandono (qualcuno dice tradimento) del leader che lo ha portato in politica e dal quale lui da anni ha preferito affrancarsi. Tutti gli analisti israeliani trovano superficiale definire Bennett soltanto con uno dei caratteri che gli sono rimasti addosso dalle molte vite che ha vissuto. Nell’esercito per 6 anni, ha combattuto anche in Libano con “Sayeret Matkal”, le teste di cuoio in cui hanno servito i migliori leader politici di Israele. Nel 1996 durante la guerra di Libano, era in territorio nemico, a caccia di lanciatori di missili di Hezbollah, quando lui e la sua unità finirono sotto il tiro di mortai libanesi. Chiese l’intervento dell’artiglieria israeliana, e prima che potesse essere messo in salvo i cannoni colpirono una sede dell’Onu in cui erano rifugiati decine di civili. Fu “il massacro di Qana”, in cui rimasero uccisi 102 civili libanesi. Dopo 6 anni nelle Idf, Bennett tornò a studiare. La sua famiglia di ebrei americani immigrati in Israele dopo il 1967 lo aveva fatto crescere in scuole religiose, ed era stato lui stesso poco alla volta a chiedere ai genitori di rispettare le regole religiose che gli venivano offerte a scuola. I 3 anni di studio alla Hebrew University (legge e business) lo portarono a diventare amministratore delegato di una piccola società con 4 soci, “Cyota”, specializzata nella produzione di software per la sicurezza delle transazioni bancarie. Anche questa non era la sua destinazione finale: dopo pochi mesi di attività, nel 2005 Bennett e i soci vendono Cyota a una società americana per 144 milioni di dollari. Lui si ritrova milionario a 33 anni, e apre un nuovo capitolo nella sua vita. Quello della politica: dal 2006 inizia a lavorare con Netanyahu fino ad essere capo del suo staff. Lo lascerà nel 2008, per entrare in una nuova dimensione: diventa coordinatore degli insediamenti dello Yesha Council, il principale movimento ebraico in Cisgiordania. L’esperienza è molto formativa, e non lo allontana dalla politica. Al contrario, dal 2013 rientra in politica, uno dopo l’altro frequenterà, fonderà o risveglierà 5 partiti della destra, fino ad essere ministro della Difesa, dell’Economia e della Pubblica Istruzione nei vari governi in cui il premier è uno soltanto, il suo mentore Bibi Netanyahu. Passa ancora per un leader degli insediamenti, ma Bennett non esprime fino in fondo quella ideologia: non vive neppure più con la moglie e i 4 figli nei Territori, ma in un sobborgo della super-laica Tel Aviv. Ha di sicuro un merito: aver offerto a Israele la possibilità di cambiare gioco dopo i 12 anni di Netanyahu. Avrà delle sfide poderose davanti: limitare lo scontro con gli altri partiti della maggioranza, che hanno idee sicuramente diverse dalle sue. Evitare che Bibi riesca a farlo cadere prima del dovuto, sottraendogli qualcuno dei 60 deputati su 120 che lo sostengono. Ma soprattutto avrà il compito di dimostrare che una nuova generazione di israeliani può guidare Israele dopo quegli 11 uomini e quel monumento di donna (Golda Meir) che hanno creato e governato il Paese degli ebrei negli ultimi anni.

Enrico Franceschini: "Cosa resta di Netanyahu"

Benjamin Netanyahu ha molti detrattori, in patria e all’estero. Eppure l’eredità che lascia a Israele, cedendo il comando con la palma di premier più longevo nella storia dello Stato ebraico, è duplice. Da un lato è stato l’artefice della modernizzazione economica e il garante della sicurezza nazionale, culminata negli accordi di Abramo che hanno allargato la pace con gli arabi agli Emirati, al Bahrein, al Marocco. Dall’altro in quindici anni di governo non ha risolto la questione palestinese, fonte di ricorrenti conflitti, come testimonia il recente scambio di razzi e missili con Gaza, e dilemma che divora entrambi i popoli da sette decenni. A farlo cadere, in modo simile a Silvio Berlusconi, ha contribuito una lunga serie di scandali e procedimenti giudiziari che potrebbero vederlo condannato per frode e corruzione. Non è escluso che possa prendersi la rivincita, perché l’eterogenea coalizione che lo sostituisce mette insieme destra, centro e sinistra, ebrei religiosi e arabi musulmani, per raggiungere una maggioranza di un solo seggio: e sarà lui a guidare l’opposizione alla testa del partito di maggioranza relativa. Ma se a fargli mantenere il potere non è servito nemmeno vincere la sfida al Covid, facendo uscire Israele dalla pandemia prima di ogni altra nazione, probabilmente per gli israeliani è tempo di avere un nuovo leader: il suo ex-capo di gabinetto Naftali Bennett, il moderato laico Yair Lapid designato a dargli il cambio fra due anni o in futuro qualcun altro. Nei suoi 71 anni Bibi, come lo chiamano i suoi seguaci, ha dimostrato grandi capacità e terribili difetti. Fra le capacità, è stato un ex-commando di Sayeret Matkal, le forze speciali israeliane, con cui fu ferito in battaglia (e nelle quali suo fratello Yonatan perse la vita durante il raid per liberare gli ostaggi a Entebbe); un brillante studente al Mit e ad Harvard negli Stati Uniti; vice-ambasciatore a Washington e ambasciatore all’Onu, diventando ospite fisso dei talk show televisivi Usa in virtù di un perfetto accento americano; ministro degli Esteri, della Difesa e delle Finanze, il portafoglio da cui lanciò le privatizzazioni e le riforme che hanno fatto di Israele una potenza high-tech. Tra i difetti va ricordato che diventò primo ministro per la prima volta nel 1996, dopo l’assassinio del suo predecessore Yitzhak Rabin da parte di un estremista ebraico contrario al processo di pace: quel Rabin che gli oppositori interni disegnavano con la kefiah palestinese in testa o come ufficiale nazista, ai comizi in cui Netanyahu lo descriveva come un traditore. Vizio che non ha perso, se il capo dello Shin Beth, l’antiterrorismo israeliano, gli ha fatto visita nei giorni scorsi esortandolo a calmare la retorica contro Bennett, nel timore che anche quest’ultimo finisse nel mirino di un fanatico. Ciononostante, Netanyahu non ha mai rifiutato del tutto l’idea della pace con i palestinesi: ritirò le truppe da Hebron, la città della tomba di Abramo; strinse (come Rabin) la mano ad Arafat, negoziando gli accordi di Wye nel 1998; ha accettato l’idea di uno stato palestinese, sia pure demilitarizzato e senza Gerusalemme est. Paradossalmente, un suo errore colossale, l’operazione fallita per uccidere il capo di Hamas in Giordania, gli permetteva finora di non fare concessioni: per rimediare Netanyahu fu costretto a rilasciare lo sceicco Yassin, leader spirituale di Hamas, il cui ritorno a Gaza ha messo la striscia in mano a un gruppo riconosciuto come organizzazione terrorista da Washington e dalla Ue, dividendo il fronte palestinese.

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