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La Repubblica Rassegna Stampa
21.09.2014 L'ortodossia in Israele vista da Etgar Keret, laico e ateo
Con un dizionarietto di Fabio Scuto

Testata: La Repubblica
Data: 21 settembre 2014
Pagina: 38
Autore: Etgar Keret-Fabio Scuto
Titolo: «Mia sorella, l'ultraortodossa-Mea Shearim, istruzioni per l'uso»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 21/09/2014, a pag.38-39, l'articolo di Etgar Keret, scrittore, regista e sceneggiatore israeliano, sul suo coinvolgimento famigliare con l'ortodossia, dal titolo "Mia sorella, l'ultraortodossa-Mea Shearim, istruzioni per l'uso"
Segue un dizionarietto di Fabio Scuto sui termini più comuni che contraddistinguono il mondo degli haredim, dal titolo "Mea Shearim, istruzioni per l'uso".


Etgar Keret           Haredim

Diciannove anni fa,in una saletta per matrimoni di Bnei Brak, morì la mia sorella maggiore; e ora vive nel quartiere più ortodosso di Gerusalemme. Ho passato uno degli ultimi weekend a casa sua. Era il primo Shabbat che trascorrevo là. Vado spesso a trovarla verso la metà della settimana, ma quel mese, con tutto il lavoro che avevo e i viaggi all'estero, o ci andavo sabato o niente. «Sta' attento», disse mia moglie mentre uscivo. «Non sei più tanto in forma, sai. Vedi di non farti convincere a diventare religioso o chissà cosa». Le risposi che non doveva preoccuparsi di nulla. Quando si tratta di religione, io non ho proprio nessun Dio. Quando sono sicuro di me non ho bisogno di nessuno, e quando mi sento di merda e dentro mi si apre questo grosso buco vuoto, so solo che non c'è mai stato un dio capace di riempirlo, e non ci sarà mai. Così, anche se cento rabbini evangelizzatori pregassero per la mia anima perduta, non servirebbe a niente. Io non ho alcun Dio, ma mia sorella si, e le voglio bene, così cerco di mostrarGli un po' di rispetto. Il periodo in cui mia sorella stava scoprendo la religione fu il più deprimente nella storia della musica pop israeliana. Era appena finita la guerra del Libano, e nessuno era dell'umore giusto per i motivetti allegri. Ma poi, anche tutte quelle ballate dedicate a soldati belli e giovani che erano morti nel fiore degli anni cominciavano a darci sui nervi. La gente voleva canzoni malinconiche, ma non quelle che facevano un cancan su una guerra brutta e pusillanime che tutti stavano cercando di dimenticare. Che è il motivo per cui improvvisamente nacque un nuovo genere: il lamento funebre per un amico che è diventato religioso. Queste canzoni descrivevano sempre un amico intimo o una ragazza sexy che erano stati la ragione di vita della o del cantante, quando tutt'a un tratto era successa qualcosa di terribile ed erano diventati ortodossi. L'amico si faceva crescere la barba e pregava in continuazione, la bella ragazza era coperta da capo a piedi e non voleva avere più niente a che fare col cantante immusonito. I giovani ascoltavano queste canzoni e scuotevano cupamente la testa. La guerra del Libano aveva portato via così tanti dei loro amici che l'ultima cosa che volevano, tutti, era vederegli altri sparire per sempre in qualche scuola talmudica nel quartiere più degradato di Gerusalemme. Non era solo il mondo della musica che stava scoprendo gli ebrei rinati. Erano roba grossa per tutti i media. Ogni talk show aveva un posto fissoo per un'ex celebrità diventata religiosa che si sentiva in dovere di raccontare a tutti come non avesse proprio alcun rimpianto per la propria dissolutezza, o per l'ex amico di un noto rinato che rivelava quanto l'amico fosse cambiato da quando era diventato religioso e come non potevi più nemmeno rivolgergli la parola. Anch' io. Dal giorno in cui mia sorella fece il grande passo nella direzione della Divina Provvidenza, io diventai una specie di celebrità locale. Vicini che non mi avevano mai neanche rivolto la parola si fermavano, solo per stringermi energicamente la mano porgermi le loro condoglianze. Hipster adolescenti tutti vestiti di nere venivano a darmi affettuosamente un cinque prima di entrare nel taxi che li avrebbe portati in qualche discoteca di Tel Aviv. E poi abbassavano il vetro del finestrino per urlarmi il loro dispiacere per la vicenda di mia sorella. Se i rabbini avessero preso una ragazza brutta, si sarebbero anche rassegnati; ma portarsi via una bella donna come lei: che spreco! Intanto, la mia compianta sorella studiava in un seminario femminile di Gerusalemme. Era venuta a trovarci quasi ogni settimana, e sembrava felice. Se c'era una settimana in cui non poteva venire, andavamo noi a trovarla. Allora io avevo quindici anni, e sentivo terribilmente la sua mancanza. Non l'avevo vista molto spesso nemmeno quando faceva il servizio militare, prima di diventare religiosa, come istruttore di artiglieria nel sud del paese, ma allora, per qualche motivo, mi era mancata di meno. Ogni volta che ci incontravamo la studiavo attentamente, cercando di capire in che modo era cambiata. Avevano forse sostituito la luce che aveva negli occhi, il sorriso? Parlavamo tra noi come sempre. Lei continuava a raccontarmi le storie buffeche aveva inventato apposta per me, e mi aiutava a fare i compiti di matematica. Ma mio cugino Gili, che apparteneva alla sezione giovanile del Movimento Contro la Coercizione Religiosa e la sapeva lunga sui rabbini e tutto, mi diceva che era solo questione di tempo. Non avevano ancora finito di lavarle il cervello, ma appena l'avessero fatto lei si sarebbe messa a parlare yiddish, e loro le avrebbero rasato la testa, e lei si sarebbe sposata con un tipo sudato, flaccido e repellente che le avrebbe proibito di vedermi. Poteva volerci ancora un anno o due, meglio che mi preparassi, perché una volta maritata forse avrebbe continuato a respirare, ma dal nostro punto di vista sarebbe stata come se fosse morta. Diciannove anni fa, in una saletta per matrimoni di Bnei Brak, la mia sorella maggiore mori, e ora vive nel quartiere più ortodosso di Gerusalemme. Ha un marito, studente di una yeshiva, proprio come aveva promesso Gili. Non è né sudato né flaccido né repellente, e in realtà sembra contento ogni volta che mio fratello o io li andiamo a trovare. Gili allora, circa vent'anni fa, mi garantì che mia sorella avrebbe avuto orde di figli, e che ogni volta che io li avessi sentiti parlare yiddish come se vivessero in un desolato shtel dell'Europa orientale mi sarebbe venuta voglia di piangere. Anche su questo argomento aveva ragione solo a metà, perché mia sorella ha veramente un mucchio di bambini, l'uno più carino dell'altro, ma quando parlano yiddish mi vien solo da sorridere. Mentre entro nella casa di mia sorella, meno di un'ora prima di Shabbat, i bambini mi salutano all'unisono col loro «come mi chiamo?», una tradizione che ha avuto inizio dopo che una volta li confusi tra loro. Considerando che mia sorella ha undici figli, e che ognuno di essi ha un doppio nome, come hanno di solito gli hassidim il mio errore era sicuramente perdonabile. Il fatto che tutti i ragazzi sono vestiti nello stesso modo e dotati di coppie identiche di riccioli laterali costituisce una notevole attenuante. Ma tutti loro, da Shlomo-Nachman in giù, vogliono ancora essere sicuri che il loro strano zio abbia le idee abbastanza chiare, e dia il regalo giusto al nipote giusto. Mia madre sospetta che non sia ancora finita; perciò, tra un anno o due, a Dio piacendo, ci sarà un altro doppio nome da imparare a memoria. Dopo che ebbi fatto l'appello con pieno successo, mi venne offerto un bicchiere di cola strettamente kosher mentre mia sorella, che non mi vedeva da molto, voleva sapere cos'avevo combinato. È molto contenta quando le dico che me la passo bene, ma poiché il mondo in cui vivo io è per lei un mondo frivolo, non ha un vero interesse per i particolari. Il fatto che mia sorella non leggerà mai uno dei miei racconti mi dispiace ma il fatto che io non osservo lo Shabbat e non mangio kosher a lei dispiace ancora di più. Un giorno ho scritto un libro per bambini e l'ho dedicato ai miei nipoti. Nel contratto, la casa editrice accettava che l'illustratore preparasse una copia speciale, dove tutti gli uomini avrebbero avuto uno yarmulke (il copricapo)  e riccioli laterali mentre  le sottane e le maniche delle donne sarebbero state abbastanza lunghe per essere considerate modeste. Ma alla fine anche questa versione fu respinta dal rabbino di mia sorella. Il libro raccontava la storia di un padre che scappa con un circo. Deve averla considerata troppo audace, e io ho dovuto riportare la versione "kosher" del libro a Tel Aviv. Fino a circa dieci anni fa, quando finalmente mi sposai, la parte più dura del nostro rapporto fu che la mia ragazza non poteva accompagnarmi nei giorni in cui andavo a trovare mia sorella. Per essere proprio sincero, dovrei dire che nei nove anni che abbiamo passato insieme ci siamo sposati dozzine di volte con cerimonie di ogni genere inventate da noi: con un bacio sul naso in un ristorante di pesce a Giaffa, scambiandoci abbracci in un fatiscente albergo di Varsavia, facendo il bagno nudi sulla spiaggia di Haifa e persino dividendoci un uovo Kinder sul treno Amsterdam-Berlino. Solo che, disgraziatamente, nessuna di queste cerimonie è riconosciuta dai rabbini o dallo Stato. Sicché, quando andavo a trovare mia sorella e famiglia, la mia ragazza doveva sempre aspettarmi in un caffè o in un parco. M'imbarazzava, ma lei capi la situazione e l'accettò. Diciannove anni fa, in una saletta per matrimoni di Bnei Brak, la mia sorella maggiore mori, e ora vive nel quartiere più ortodosso di Gerusalemme. Allora c'era una ragazza cheamavo da morire, ma che non mi amava. Ricordo che due settimane dopo le nozze andai a trovare mia sorella a Gerusalemme. Volevo che pregasse perché quella ragazza e io potessimo stare insieme. A tal punto era arrivata la mia disperazione. Mia sorella restò in silenzio per un minuto e poi mi spiegò che non poteva farlo. Perché, se lei avesse pregato e poi quella ragazza e io ci fossimo messi insieme e la nostra vita insieme fosse diventata un inferno, lei si sarebbe sentita terribilmente in colpa. «pregherò, invece, che tu possa incontrare una persona con cui essere felice», disse, e mi rivolse un sorriso che cercava di essere consolante. «Pregherò per te ogni giorno. Lo prometto». Capivo che avrebbe voluto abbracciarmi e mi dispiaceva che non le fosse consentito, o forse me lo stavo solo immaginando. Dieci anni dopo incontrai mia moglie, e stare con lei mi rese davvero felice. Chi ha detto che le preghiere non vengono esaudite?

Fabio Scuto: "Mea Shearim, istruzioni per l'uso"


                                         una via del quartiere Mea Shearim

HASSIDIM. Gli ebrei ultraortodossi vivono nella più totale osservanza degli scritti religiosi seguendo gli stili di vita dei loro antenati dell'Europa orientale. Se le frange più estremiste non riconoscono lo Stato d'Israele, la comunità nel suo complesso oggi rappresenta un terzo della popolazione israeliana. Percentuale destinata a crescere. Gli hassidim vivono volontariamente in un ghetto perché il loro desiderio è la separazione sociale dagli altri ebrei per non esporsi a stili di vita non adeguati.
MEA SHEARIM. È il nome del quartiere di Gerusalemme in cui abitano esclusivamente hassidim. In queste settimane tutte le notti fino alle prime luci dell'alba le sinagoghe del quartiere aprono le porte ai fedeli per le tradizionali preghiere che si protrarranno fino allo Yom Kippur, il sacro Giorno dell'Espiazione che segna l'inzio dell'anno ebraico che, secondo il nostro calendario, quest'anno cade il 4 ottobre. Entrare a Mea Shearim è come passare in un altro mondo viaggiando indietro nel tempo, dentro un romanzo russo abitato dai personaggi di Tolstoj e Dostoevskij.
PRIVILEGI.Gli hassidim possono rinviare il servizio militare e ottengono sussidi per famigliee scuole. E altissima, dunque, la percentuale di 'mantenuti' che dedica tutto il tempo allo studio delle scritture e all'osservanza delle leggi sacre. Un'usanza solo israeliana: gli hassidim di tutto il mondo lavorano ( passeggiare a Brooklyn per credere ). La popolazione laica israeliana da sempre mal tollera questi privilegi che costano alla comunità un miliardo di dollari l'anno in termini di forza lavoro sottratta all'economia.
CAPPELLI. Insieme alla barba e alle treccine, il cappello nero a falde larghe è il segno ( maschile ) più caratteristico della comunità. Sembrano tutti uguali, in realtà ce ne sono almeno cento modelli: oltre alle varie consistenze del feltro, ci sono dieci tipi di tesa, quattro di finiture della bordatura, otto tipi di fascia e sei misure di altezza della testa.
SESSO.La segregazione sessuale all'interno della comunità è molto rigida tanto che in alcuni quartieri le compagnie pubbliche dei trasporti hanno dovuto istituire bus con ingressi separati: gli uomini salgono e siedono davanti e le donne dietro. Per i 'timorati' anche smartphone e pc, •turbando" i più giovani, possono essere altrettanto pericolosi.
SHABBAT. La neve caduta su Gerusalemme nell'inverno del 2012 divise i rabbini. Essendo nevicato all'alba di venerdì, il sabato i bambini potevano giocare con le palle di neve fatte il venerdì prima del tramonto? Alla fine concordarono: sì, ma solo astenendosi poi dallo scrollare giacche, cappotti e cappelli. Del resto per il vero timorato• anche premere il pulsante dell'ascensore di sabato è considerato un lavoro: ragion per cui in tutti gli alberghi e in numerosi condomini d'Israele ci sono gli ascensori 'per lo shabbat: dal tramonto del venerdì sera a quello del sabato si fermano automaticamente ad ogni piano.

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