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Moked Rassegna Stampa
29.08.2019 Grazia Di Veroli (1961-2019)
Un ricordo di David Meghnagi

Testata: Moked
Data: 29 agosto 2019
Pagina: 1
Autore: David Meghnagi
Titolo: «Grazia Di Veroli (1961-2019)»

Riprendiamo da MOKED del 29/08/2019, con il titolo "Grazia Di Veroli (1961-2019)" il commento di David Meghnagi.

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Grazia Di Veroli

Grazia Di Veroli ha conseguito il diploma di specializzazione al Master internazionale di II livello in didattica della Shoah di Roma Tre. Ha fatto parte del primo gruppo di iscritti, composto in larga parte da persone che avevano alle spalle un curriculum denso sull’argomento. Ricordo che fra i primi scritti, c’erano persone che avevano già pubblicato libri e articoli scientifici. Un gruppo unico, composto in larga parte da specialisti, che venivano da ogni parte d’Italia a Roma il venerdì per trattenersi sino a domenica pomeriggio. La sera del sabato le lezioni continuavano in una pizzeria del centro, o in casa di qualcuno. Conobbi Grazia Di Veroli alcuni anni prima che il Master fosse istituito, nel corso della discussione della sua tesi di laurea presso il Corso di Laurea in Scienze dell’educazione. Mi ero appena trasferito nella Facoltà di pedagogia. La tesi di Grazia aveva per oggetto la tragedia delle persecuzioni a Roma. Nel corso della discussione, un autorevole collega, con tono poco empatico, chiese a Grazia se nella ricostruzione della sua storia famigliare aveva contemplato il tema del perdono. Un’altra collega non trovò di meglio di chiedere, se avendo raccontato dei fatti che riguardavano la sua famiglia, la studentessa sentiva di essere stata obiettiva e universale. Grazia era a disagio e spaesata. Non meno lo erano i parenti di Grazia, seduti dietro. Presi la parola e dissi che trovavo imbarazzante il modo in cui i colleghi avevano aperto la discussione. Ne nacque una vivace discussione, non priva di criticità. Fu in quel momento che si palesò nella mia mente la necessità di istituire un Master in cui la tragedia della Shoah potesse essere studiata nei suoi vari aspetti. Se dei docenti di un corso di formazione per insegnanti potevano talora risultare così poco empatici, al punto che qualcuno potesse apparire quasi “infastidito” per il tentativo di una studentessa ebrea di fare oggetto di una sua ricerca la storia della sua famiglia nel periodo più buio della moderna storia italiana, non ci si poteva poi sorprendere più di tanto delle cadute di stile nella società e nei media. Il Master nacque alcuni anni dopo e contribuì nel giro di una quindicina di anni alla formazione di oltre un centinaio di studiosi, la maggioranza dei quali sono oggi incardinati nel sistema scolastico italiano (alcuni hanno iniziato la loro carriera accademica, vincendo il concorso per il dottorato di ricerca e diventando ricercatori). Grazia fu tra i primi a iscriversi al master, continuando in seguito il suo lavoro all’interno dell’Associazione nazionale ex deportati, di cui assunse in seguito la vice presidenza. Dopo che fu proclamata dottoressa in Scienze dell’educazione, uscii dall’aula in cui si discutevano le tesi, per congratularmi con la neo laureata e con i famigliari. Parlando con i parenti, mi accorsi che molti anni prima avevo conosciuto il padre. Erano i primi anni settanta e ricordo come fossi oggi, il volto segnato di un uomo che non si dava pace per la tragedia del 16 ottobre 1943 e per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Era il padre di Grazia. Veniva spesso a trovare mio padre a casa e si intratteneva a lungo con lui. Dalla stanza vicina sentivo spesso il suo pianto silenzioso e inconsolabile. Ricordo che mio padre prima di salutarlo gli poneva le mani sulla testa, e recitava la Meshulleshet: “Yevarekhekhà Hashem We-Yishmerekha…” ("Ti benedica il Signore e ti custodisca…”). Ricordo anche che se la visita avveniva di venerdì, mio padre aggiungeva che la sera era Shabbat. E poi aggiungeva “Shabbath Shalom”. In quella parole c’era un sottinteso. Secondo un Midrash, la moglie di Rabbì Meir, uno dei grandi maestri del Talmud, attese la fine del sabato per dare al marito la notizia più amara e questo fece sì che i figli morti tornassero in vita. Per non affogare nel dolore, per non collassare di fronte al lutto, può essere necessario, almeno un giorno alla settimana, trovare la forza di sorridere. Se non per se stessi, bisogna farlo per i figli, che ne hanno bisogno, come l’aria che respirano. Un collega che aveva vissuto una esperienza tragica, mi confessò una volta che doveva per forza ogni tanto sorridere perché aveva una figlia piccola e doveva proteggerla. Anni dopo Grazia mi disse che era contenta di avere potuto continuare i suoi studi con me. La ringraziai per le sue parole. Era commossa. Era come il rapporto fra i nostri genitori continuasse. Da allora abbiamo conservato dei buoni rapporti e spesso ci scrivevamo. I suoi nuovi impegni non le permettevano di partecipare ai nostri seminari, ma ci teneva a informarsi e a far sentire la sua vicinanza e amicizia. Non sapevo che era gravemente malata, e mi dispiace molto non averle potuto far sentire la vicinanza mia e dei colleghi del Master nelle sue ultime settimane di vita. Sia il suo ricordo di benedizione.

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