Benjamin Kerstein
È sempre difficile sapere esattamente cosa pensare quando ci si trova davanti a un disastro totale, soprattutto quando è il risultato delle migliori intenzioni. E’ il caso di coloro che sostennero la guerra in Iraq del 2003 e degli artefici del recente miserevole ritiro dall’Afghanistan. Per gli israeliani, un caso di questo tipo si presenta in questi giorni, in occasione del 30esimo anniversario degli Accordi di Oslo. Tre decenni dopo l’accordo tra Israele e Olp firmato in pompa magna sul prato della Casa Bianca, e due decenni dopo che i palestinesi lo demolirono con una guerra terroristica fatta di stragi di civili, nessuno sa bene cosa fare con gli Accordi di Oslo. Su una cosa, tuttavia, c’è un accordo quasi universale: si trattò di un errore disastroso. Più o meno tutti i commenti che ho letto nelle ultime settimane vanno in questa direzione. Impossibile respingere il verdetto dei critici. È chiaro da tempo che il capo dell’Olp Yasser Arafat non ha mai avuto la minima intenzione di onorare la sua solenne promessa di rinunciare al terrorismo. Era un razzista autentico e convinto, che riteneva fosse suo dovere e destino annientare lo stato ebraico. Era un bugiardo ingegnoso, abile nel manipolare gli altri, soprattutto gli ingenui occidentali, inducendoli a credere il contrario. Eppure, non ha mai deviato per un solo istante dal suo obiettivo finale. Quando gli apparve chiaro che non poteva mettere in ginocchio Israele con mezzi diplomatici e politici, si lanciò in un’orrenda campagna di crimini di guerra che in pochi anni fece strage di più di mille israeliani. Il frutto degli inganni di Arafat sopravvive ancora oggi, giacché l’entità creata dagli Accordi e consegnata nelle mani di Arafat – l’Autorità Palestinese – rimane come una spina nel fianco di Israele, sostenuta solo perché le alternative sono verosimilmente assai peggiori. Impossibile non concludere che, nella mal riposta speranza di porre fine al conflitto con i palestinesi attraverso rischiose concessioni, Israele ha finito col compromettere seriamente la propria sicurezza e si è condannato a trent’anni di guerre grandi e piccole. Una certa misura di pace è arrivata, ma solo con vari stati arabi e musulmani alla periferia di Israele, che hanno normalizzato le relazioni non a causa di visioni messianiche di un “nuovo Medio Oriente”, ma di considerazioni pragmatiche economiche, politiche e di sicurezza. Gli idealisti sono caduti con Oslo, i realisti hanno trionfato con gli Accordi di Abramo. Tuttavia dobbiamo trattare con equità gli architetti di Oslo. Non erano traditori della patria o ebrei che odiano se stessi (come amano sostenere gli estremisti dell’opposta sponda ndr). Erano israeliani che detestavano l’occupazione in Giudea e Samaria e i compromessi morali che essa comporta. La prima intifada (1988-93) li aveva convinti che stavano governando dispoticamente su un altro popolo che ha lo stesso diritto degli ebrei all’indipendenza e all’autodeterminazione. Credevano sinceramente che il futuro di Israele e la stabilità dell’intera regione dipendessero dalla pace con i palestinesi, cosa che sarebbe stata impossibile senza l’Olp. In altre parole, erano convinti di fare la cosa giusta. In senso morale, forse lo era. In senso pratico e strategico, tuttavia, non stavano facendo solo un errore, ma un errore disastroso. Non sapevano, o preferirono non sapere, che l’ideologia dell’Olp non ammette l’esistenza di uno stato ebraico in alcuna forma ed entro alcun confine, che Arafat era un assassino di massa che aveva sempre usato la violenza più barbara (anche contro altri palestinesi ndr) per ottenere ciò che voleva, e che l’idea di affidare a un gruppo terroristico il controllo su aree vitali per la sicurezza di Israele era, a dir poco, improbabile che finisse bene. Ma gli israeliani artefici di Oslo hanno pagato per il loro errore. Personalmente Arafat non è mai diventato uno shahid (“martire”), ma si è rivelato un terrorista suicida sul piano diplomatico e ha trascinato con sé gli architetti israeliani di Oslo. Con la carriera e la reputazione a brandelli, ognuno di loro si è ritirato dalla vita pubblica e oggi il loro principale vettore, il partito laburista, è moribondo. Ciononostante la logica alla base di Oslo rimane in qualche modo robusta perché, detta in parole povere, nessuno ha idee migliori. È possibile vedere tutto quello che c’era di sbagliato in Oslo, ma è impossibile vedere un’alternativa. Né tutte le critiche che ho letto in questo periodo ne propongono una. L’unica cosa che ho sentito che assomiglia vagamente a un’alternativa è “gestire il problema”. Il che solleva, tuttavia, la questione di cosa dovremmo fare quando il problema diventa ingestibile. A quel punto le indicazioni diventano improvvisamente vaghe, e forse alcune è meglio non enunciarle. In ogni caso, non sono particolarmente realistiche. I critici di Oslo avevano e hanno ragione. La storia almeno questo lo ha chiaramente dimostrato. Ma è anche chiaro che limitarsi a biasimare Oslo non basta, perché non ci porta da nessuna parte. In realtà non conosciamo una via d’uscita da Oslo, e questo è il vero dilemma con cui oggi dobbiamo fare i conti. (Da: jns.org, 12.9.23)