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israele.net Rassegna Stampa
19.02.2022 Ricordando la verità di Rabin
Analisi di Mitchell Bard

Testata: israele.net
Data: 19 febbraio 2022
Pagina: 1
Autore: Mitchell Bard
Titolo: «Ricordando la verità di Rabin»
Ricordando la verità di Rabin
Analisi di Mitchell Bard

(da Israele.net)

Sono i palestinesi che hanno ucciso il processo di Oslo e le speranze di  pace - Israele.net - Israele.net
Mitchell Bard

E se 20 anni fa, Rabin... | Attualità -
Yitzhak Rabin

Yitzhak Rabin è stato uno dei più grandi leader d’Israele. La sinistra lo ha idolatrato come un pacifista. La destra, dopo Oslo, lo ha demonizzato come un traditore. Nessuna delle due sembra prestare molta attenzione alle parole dello stesso Rabin, che contraddicono entrambe le convinzioni. Il vero lascito di Rabin mi è tornato alla memoria lo scorso 28 gennaio, 46esimo anniversario della data in cui divenne il primo premier israeliano a parlare in una sessione congiunta del Congresso americano. Il discorso coincideva con le celebrazioni negli Stati Uniti del Bicentenario della Rivoluzione americana. Rabin fece notare che sulla celebre Campana della Libertà di Filadelfia è incisa la frase “Proclamate la libertà in tutto il paese a tutti i suoi abitanti”, che è tratta da Levitico (25:10), e ricordò ai membri del Congresso che la Dichiarazione d’Indipendenza di Israele riecheggia quella americana, con l’aggiunta del “principio che il popolo ebraico deve preservare la propria integrità e ripristinare la propria esistenza nazionale nella propria terra, nonostante gli olocausti della storia”.

“La guerra del 1776 e la guerra del 1948 furono entrambe battaglie di liberazione – osservò Rabin – Ciò che le trasformò in rivoluzioni fu la visione umana che le ha animate: la visione non solo di conquistare la libertà, ma anche di costruire nuove società nella libertà. Nel nostro caso, fu la rivolta di un’antica nazione per porre fine, una volta per tutte, alla condizione di senza casa e senza difese, alla mercé degli olocausti. Fu l’affermazione del nostro diritto all’autodeterminazione, del diritto di tornare a Sion, di riscattarla dalla desolazione di venti secoli, di raccogliere i nostri figli e figlie dispersi e oppressi e costruire una società nuova ispirata ai valori dell’antico”. Rabin procedette quindi a spiegare il conflitto con i vicini di Israele in un modo chiaro e inequivocabile, che contraddice tante diffuse fantasie.

“Se mi venisse chiesto di esprimere in poche parole qual è il cuore e il nocciolo del conflitto arabo-israeliano, direi questo: è il rifiuto dei paesi arabi di venire a patti con il diritto all’esistenza di uno piccolo stato ebraico, vitale e sovrano, nella terra natale del nostro popolo. Per stato ebraico intendo una società democratica e indipendente, laica nell’uguaglianza di tutti i suoi cittadini davanti alla legge, ebrei e non ebrei, e fondata su valori storici ebraici”. Parlava nel 1976, prima che Egitto e Giordania firmassero trattati con Israele. Le sue parole sono valide ancora oggi, come lo erano allora, riguardo ai palestinesi. “Sto dicendo – continuò Rabin – che la questione del territorio, la questione dei confini, la questione delle mappe non erano e non sono i veri ostacoli alla pace. Ventinove anni fa, nel 1947, abbiamo accettato un territorio spartito e ridotto su cui ricostruire la nostra statualità ebraica. Non è stato a causa della sua forma o dimensione che i capi arabi respinsero il piano di spartizione delle Nazioni Unite. Entrarono in guerra contro di noi perché rifiutavano il nostro stesso diritto alla libertà come popolo indipendente”. Rabin ricordò al suo uditorio che “una sconfitta avrebbe significato l’olocausto nazionale e l’eclissi del popolo ebraico dalla storia”. Circa la questione dei profughi, disse: “Proprio come ogni guerra genera la sua inevitabile, tragica messe di profughi, così la guerra araba contro Israele ha generato due problemi di profughi di dimensioni quasi uguali: uno arabo e uno ebraico dai paesi arabi”. Ma la vittoria di Israele nella guerra d’Indipendenza non ha portato alla pace perché gli arabi “continuarono a rifiutarsi di accettare uno stato ebraico indipendente”. Rabin ricordò la vittoria di Israele nella guerra di Suez del 1956: “Alla fine, abbiamo deciso di sgomberare la penisola del Sinai. Il ritiro di Israele da tutto il territorio conquistato in quella guerra portò forse alla pace? Non portò nemmeno all’inizio di un negoziato”.

“Fino al 1967 – sottolineò Rabin – Israele non deteneva un solo centimetro della penisola del Sinai, della Cisgiordania, della striscia di Gaza o delle alture del Golan. Israele non deteneva un solo ettaro di quello che oggi è considerato territorio conteso. Eppure non avevamo la pace. Anno dopo anno, Israele continuava a chiedere, a invocare una pace negoziata con i governi arabi. La loro risposta era un ostinato rifiuto e ancora guerra”. Il motivo, insistette Rabin, non aveva nulla a che fare con una disputa su rivendicazioni territoriali. “Il motivo era, e rimane, il fatto in sé che sul territorio esiste un libero stato ebraico”. Ed è in questo contesto che il conflitto va analizzato. La questione palestinese, disse, “non è l’ostacolo alla pace, come alcuni sostengono. Certo, deve essere risolta nel contesto di una pace finale. Ma affermare che questa è la chiave per la pace, la formula per la pace o la svolta verso la pace significa interpretare male le realtà”. Chi porta la colpa della condizione apolide dei palestinesi? Rabin lo spiegò in modo chiaro e netto: “Non è stato Israele a impedire la creazione di uno stato palestinese, come aveva proposto nel 1947 il piano di spartizione. Ciò che la impedì fu la dichiarazione di guerra araba contro quel piano, perché prevedeva anche la creazione di uno stato ebraico”.

 E qui sottolineò un punto cruciale, che i sostenitori della versione palestinese preferiscono sempre ignorare: “Per diciannove anni, nessun governo arabo ritenne che fosse il caso di istituire uno stato palestinese anche se Cisgiordania e striscia di Gaza erano sotto controllo arabo. Né lo chiedevano i palestinesi. Nel gennaio 1964 venne creata da capi di stato arabi l’Olp, l’organizzazione che si autodefinisce “per la Liberazione della Palestina”. Ma anche allora l’obiettivo non era quello di cerare uno stato in quei territori, allora controllati da Giordania ed Egitto. Sappiamo qual è l’obiettivo. È scritto a chiare lettere nella Carta Nazionale Palestinese, la loro costituzione vincolante. Ogni paragrafo sprizza il veleno che invoca la distruzione di Israele”. A quel tempo Israele vedeva ancora la soluzione della questione palestinese “nel contesto geografico e politico di una pace con la Giordania”.

Alla fine, Israele ha dovuto trattare separatamente con i palestinesi dopo che re Hussein di Giordania decise che non voleva aggiungere altri palestinesi a quelli che sono già maggioranza nel suo regno: avevano già tentato di rovesciarlo una volta, pochi anni prima (re Hussein rinunciò formalmente a tutte le rivendicazioni giordane sulla Cisgiordania il 31 luglio 1988 ndr). “Israele – continuò Rabin, prefigurando la sua successiva posizione nei negoziati di Oslo – è pronto a rinunciare a molto e ad accettare compromessi sul territorio. Non so quando finalmente arriverà la pace. Ma di questo sono certo: sarà la nostra forza che determinerà in gran parte le risorse per la pace nella regione. La debolezza non è una ricetta per i negoziati. Solo vedendo che Israele non è debole, anche i nostri vicini riconosceranno la assennatezza del compromesso reciproco, della riconciliazione e della pace”. Rabin tenne quel discorso negli anni in cui Israele accettava di ritirarsi (di nuovo) dal Sinai in applicazione dei primi accordi provvisori con l’Egitto. E ammetteva che Israele stava facendo “concessioni concrete in cambio di concessioni molto meno tangibili” perché “è necessario correre rischi misurati non solo in caso di guerra, ma anche in nome della pace”. “La pace, non la guerra, è la nostra tradizione – concluse Rabin – Noi non vediamo gloria nelle battaglie. Sono stato un soldato: non per scelta, ma per necessità. Conosco gli orrori della guerra, le sofferenze, lo spreco. Siamo un popolo antico e non c’è sacrificio troppo grande per difendere la libertà che abbiamo conquistato e la nuova società che abbiamo creato”.

 (Da: jns.org)

http://www.israele.net/scrivi-alla-redazione.htm

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