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Italia Oggi Rassegna Stampa
19.05.2022 'Controluce. Letteratura e totalitarismi', di Gustav Herling
Recensione di Diego Gabutti

Testata: Italia Oggi
Data: 19 maggio 2022
Pagina: 10
Autore: Diego Gabutti
Titolo: «'Controluce. Letteratura e totalitarismi', di Gustav Herling»
Riprendiamo da ITALIA OGGI di oggi, 19/05/2022, la recensione a "Controluce. Letteratura e totalitarismi" di Gustav Herling di Diego Gabutti.

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Gustav Herling, intervistato da Titti Marrone, Controluce. Letteratura e totalitarismi, Marotta & Cafiero 2022, pp. 225, 14,00 euro.

Polacco in esilio, napoletano d’elezione, sposato nel 1956 con Lidia Croce, la figlia più giovane di Benedetto Croce, Gustav Herling pubblicò Un mondo a parte, una delle prime testimonianze dall’inferno del Gulag sovietico, nel 1951-1952. Uscì in Inghilterra, con prefazione di Bertrand Russell. Doveva uscire anche in Francia: «Camus, che lavorava da Gallimard, ne era entusiasta e avrebbe voluto pubblicarlo. Ma la sua idea fu bocciata, cosa che lui mi comunicò in una lettera: “Non ce l’ho fatta, l’editore non vuole”. Non dimentichiamo che, in quegli stessi anni, c’era la sua polemica con Sartre sui campi di concentramento sovietici. Camus riteneva che se ne dovesse parlare, Sartre rispondeva che non si potevano scoraggiare gli operai della banlieue francese». Un mondo a parte, in Italia uscì da Laterza. Era il 1956. Già casa editrice di stretta osservanza crociana, all’epoca la casa editrice barese era passata all’obbedienza comunista, e così la distribuzione del libro fu boicottata. Secondo Herling, che ne parlò con la giornalista Titti Marrone nelle interviste (apparse sul Mattino di Napoli nei primi novanta) ora raccolte in questo Controluce, l’edizione Laterza non fu nemmeno distribuita. Quando il libro fu ripreso da Rizzoli, qualche anno dopo, Paese sera (giornale pagato direttamente dal KGB, come avrebbe rivelato il Dossier Mitrokhin) chiese l’espulsione di Herling dall’Italia: aveva calunniato l’Unione Sovietica «inventandosi» – su commissione della Casa Bianca – l’esistenza del Gulag. Un paio d’anni fa Mondadori ha meritoriamente dedicato un Meridiano a Herling, scomparso nel 2000 a Napoli, la città in cui aveva detto di «voler morire».

Unico neo (ma grosso e vistoso) del Meridiano: l’assenza della fondamentale prefazione in forma d’intervista che lui e Piero Sinatti avevano scritto per l’edizione Einaudi dei Racconti della Kolyma di Varlam Šalamon e che l’Einaudi si rifiutò di pubblicare per leso comunismo (trovate e tutta la storia, prefazione compresa, in Ricordare, raccontare. Conversazione su Šalamov di Herling e Sinatti, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 1999). In queste interviste Herling, attraverso le proprie esperienze di scrittore, di esule, d’internato nel Gulag, di «polacco napoletano», costruisce una sorta d’introduzione generale alla storia del Novecento. Ci sono le vicende dei poeti, la cui storia, come ogni storia personale, ha un lato oscuro, come quando Boris Pasternak, a Parigi nel 1936 per il Congresso degl’intellettuali per la pace, incontra Marina Cvetaeva, che molti ritengono la massima voce poetica del secolo. «Pasternak e Marina» – racconta Herling – «si conoscevano già, ma solo per lettera, e s’incontrarono in un caffè parigino. Marina gli chiese consiglio: “Devo tornare in Unione sovietica?” Capisco che lui si sia trovato in difficoltà, e abbia temuto di compromettersi, qualunque fosse la risposta. Però trovo molto triste quel che fece: si alzò dal tavolino, disse che aveva finito le sigarette e praticamente fuggì». Con buona pace degli sponsor di Paese sera, più o meno gli stessi che oggi foraggiano altri orribili fogli italiani, fu la pubblicazione di Arcipelago Gulag, nel 1974, a sdoganare Un mondo a parte e ogni altro racconto del Gulag leninista-staliniano. Non che l’Italia, a rivelazione avvenuta, si sia rivelata così ricettiva, a differenza della Francia, «dove la pubblicazione di Arcipelago Gulag», ricorda Herling, «ha determinato una svolta di dimensioni incredibili. Quando sarà scritta la storia del ceto intellettuale di questo paese, un capitolo a parte dovrebbe essere dedicato a questo libro, che i francesi, diversamente dagli italiani, hanno letto davvero. Prima che uscisse, l’intellettualità francese era al novanta per cento vicina al comunismo, mentre è incalcolabile il numero di persone che se ne è allontanato dopo aver letto Arcipelago Gulag». Oggi come allora – ieri il PCUS, oggi Vladimir Putin – in Italia si è più sensibili alle ragioni dei tiranni che a quelle delle loro vittime. Scrive infatti Herling: «Negli anni cinquanta feci amicizia col saggista Elémire Zolla, che visitavo spesso quando mi recavo a Roma. Un giorno mi fece vedere un’antologia di scritti che andava preparando: raccoglieva brani di scrittori italiani durante il fascismo, e non si può neanche immaginare quali basse adulazioni, quale somma di captatio benevolentiae contenesse. Vi comparivano moltissimi autori italiani, se non tutti. Non voglio fare nomi, ma un esempio: è difficile leggere con calma un reportage sulla guerra civile spagnola d’uno scrittore che si dichiarava fascista, per poi prontamente passare nel campo opposto, e concludeva con: “Ora vado a pranzo, e mangerò con più appetito perché ho assistito alla fucilazione di sei repubblicani”». E Italo Calvino su Orwell: «Un anno fa, tra i libri pubblicati come strenne, è uscito un ponderoso volume di lettere di Italo Calvino. Tra le tante, una ha suscitato in me una grande meraviglia: si tratta di una lettera dello scrittore a Geno Pampaloni, in cui quest’ultimo viene rimproverato da Calvino perché prende sul serio un autore come George Orwell. Il giudizio dell’autore del Barone rampante è implacabile: considera Orwell né più né meno che uno scrittore di propaganda».

È l’eterna Italia (Sciascia avrebbe detto «l’eterno fascismo italiano») in cui la libertà non fa problema e chi pronuncia la parola «male» si guadagna il sorrisetto degli stolti. Herling, del male, aveva invece fatto compiuta esperienza, e sapeva riconoscerne ovunque le tracce, anche nelle opinioni banalizzanti dei militanti dei partiti totalitari. «Ci sono autori», disse a Titti Marrone, «che nei campi di concentramento vedono l’espressione massima e assoluta del male, come Tadeusz Borowski, mentre altri, tra cui Primo Levi, si sforzano di trovare anche lì un barlume di umanità. La mia posizione si avvicina di più a quella di Levi. Ma per quanto riguarda la configurazione assunta dal male nei gulag e nei lager, mi sembra che Hannah Arendt ne colga benissimo il connotato principale fin dal titolo del suo libro La banalità del male. Ecco, la quotidianità, la dimensione non eccezionale ma quasi di routine che viene assunta dal male è l’aspetto orrendo di quelle esperienze. Tanto più orrendo quanto più è passibile di ripetizione, di riproduzione». Di questo male Gustav Herling fiutava l’odore anche dove la sua manifestazione era soltanto una possibilità, solo un’ombra nel divenire. Era caduto da pochi anni il comunismo e già c’erano forze che premevano per il ritorno delle superstizioni che lo avevano generato. Herling le identificò con esattezza, e con parole profetiche, da sottoscrivere una per una nei giorni della guerra putiniana, dichiarata del dispotismo asiatico alle democrazie occidentali da parte. «Vorrei sottoporre umilmente una questione all’attenzione sia del Papa [Giovanni Paolo II] sia di Solženicyn [all’epoca tornato un Russia dopo l’esilio americano]: la loro visione incessantemente apocalittica dell’Occidente potrebbe creare all’est un’impressione falsa e pericolosa. Potrebbe avallare in quei paesi l’illusione di poter superare spiritualmente il tanto agognato Occidente, contribuendo così alla nascita di un’accentuata megalomania nazionale. E l’ultima cosa a cui possono aspirare oggi i paesi dell’est, dopo i decenni disastrosi della loro storia, è di porsi con spirito missionario nei confronti del mondo occidentale».
Informazione Corretta
Diego Gabutti

italiaoggi@class.it

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