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Corriere della Sera Rassegna Stampa
27.06.2022 Shoah, il rapporto trascurato: un libro di Jonathan Freedland
Commento di Paolo Valentino

Testata: Corriere della Sera
Data: 27 giugno 2022
Pagina: 37
Autore: Paolo Valentino
Titolo: «Shoah, il rapporto trascurato»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 27/06/2022, a pag.37 con il titolo "Shoah, il rapporto trascurato", il commento di Paolo Valentino.

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La copertina

Non puoi credere a ciò che non riesci a immaginarti. Nell’estate del 1942 Walter Rosenberg, nato a Topol’cany, nella provincia rurale slovacca, venne deportato dai nazisti ad Auschwitz. Non aveva neppure 18 anni. A tradirlo era stato il suo spirito indipendente e ribelle, che lo aveva spinto a ignorare l’ordine di raccolta dato agli ebrei della Cecoslovacchia per essere «trasferiti» in Polonia. Lo avevano fermato al confine ungherese, mentre cercava di attraversarlo sognando di andare in Inghilterra. Non gli occorse molto tempo, per scoprire che Auschwitz-Birkenau era una fabbrica della morte su scala industriale, concepita da Himmler e dai suoi scherani per la realizzazione della «Soluzione Finale», lo sterminio di tutti gli ebrei d’Europa.

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Jonathan Freedland

Rosenberg, che avrebbe preso il nome di battaglia di Rudolf Vrba, quello che lo avrebbe consegnato alla storia, venne assegnato allo sgombero della rampa, il binario dove arrivavano i treni e sul quale avveniva la selezione. Donne, bambini e anziani venivano subito mandati alle «docce», come recitavano i cartelli, e finivano nelle camere a gas. Quando le grida, coperte dai motori accesi dei camion, cessavano, altri prigionieri entravano a tirar fuori i corpi per portarli a incenerire ai forni. Sui treni rimanevano i cadaveri di chi era morto in viaggio senz’acqua, cibo o gabinetti, sul binario valigie e povere cose che i deportati erano stati costretti a lasciare. Compito di Vrba e di altri come lui era di spazzare via tutto. Aveva una memoria formidabile, Rudolf Vrba. E per due lunghi anni registrò in testa ogni dettaglio di quello scempio, sommando perfino i numeri delle persone mandate all’annientamento. E poi le morti per inedia, malattia o sfinimento, i suicidi, le uccisioni a caso delle SS. Convinto che la macchina omicida andasse avanti solo grazie a una grande bugia, quella che rendeva ignari della loro sorte gli ebrei deportati nel lager in Polonia, egli si convinse che se la verità dei massacri fosse stata rivelata a chi era ancora in Europa e ai governi del mondo, allora gli ebrei avrebbero opposto resistenza e gli Alleati avrebbe agito per fermare l’Olocausto, salvando migliaia di vite. Nell’aprile 1944, insieme al compagno di prigionia Alfred Wetzler, Rudolf Vrba riuscì a fuggire da Auschwitz, nascondendosi per 80 ore in un buco del terreno nel campo di lavoro esterno e poi camminando per 11 giorni, inseguiti dai nazisti, prima di raggiungere la nativa Slovacchia. Furono i primi ebrei a compiere l’impresa, soltanto altri due ci sarebbero riusciti. La storia di Vrba e Wetzler è stata raccontata anche dal regista Peter Bebjak, nel film The Auschwitz Report, candidato all’Oscar nel 2020. Quello che però non è mai stato raccontato nel dettaglio è quanto successe dopo. Lo fa ora Jonathan Freedland, giornalista e scrittore inglese, in un libro appena uscito per l’editore John Murray. In The Escape Artist. The Man who Broke Out of Auschwitz to Warn the World, egli documenta il dramma dell’uomo che fuggì dall’inferno e non venne creduto, fu testimone del più grave crimine della storia umana, descrivendolo nei suoi più mostruosi dettagli, ma si scontrò con un muro di silenzio e diffidenza. Eppure, alla fine, il rapporto compilato da Vrba e Wetzler innescò una serie di iniziative internazionali che risparmiarono la vita di almeno 200 mila ebrei.

Come racconta Freedland, il protocollo di 32 pagine scritto dopo la fuga era così completo, terribile, pieno di dettagli e minuzie della vita dentro il lager, impietoso nella descrizione degli orrori da suscitare scetticismo misto a pregiudizio. Quando il testo raggiunse il Foreign Office a Londra, il diplomatico che lo lesse per primo annotò: «Per quanto bisogna tener conto di una certa esagerazione ebraica, queste dichiarazioni sono tremende». Un altro chiosò: «Perdiamo troppo tempo occupandoci di questi ebrei lamentosi». Perfino quando il documento arrivò sul tavolo di Churchill e questi scrisse una nota al suo ministro degli Esteri, Anthony Eden, invitandolo a chiedere all’aviazione di bombardare le linee di accesso al campo, il ministro responsabile della Raf, Archibald Sinclair, rispose che «distruggere i binari va oltre le possibilità della Royal Air Force». Non andò meglio a Washington, nonostante il rapporto di Vrba e Wetzler arrivasse fino a Roosevelt. Il testo passò da un Dipartimento all’altro senza che nessuno reagisse e proponesse di far qualcosa. E quanto finì nella redazione di «Yank», una rivista dell’esercito che aveva in programma un pezzo sui crimini nazisti, il suo contenuto venne ignorato perché considerato «troppo semita», mentre il periodico voleva un reportage «meno ebraico». Ma l’incredulità permeò perfino il Consiglio ebraico di Budapest, il cui presidente Samuel Stern si chiese addirittura se il rapporto non fosse frutto dell’immaginazione dei due giovani, temendo che la sua pubblicazione avrebbe scatenato il panico e avrebbe comunque esposto la comunità all’accusa di diffondere false informazioni. Stern decise di tenerlo segreto, mentre in meno di 60 giorni, tra la fine di maggio e i primi di luglio 1944, oltre 473 mila ebrei furono rastrellati nelle campagne ungheresi e ammassati su 147 treni diretti ad Auschwitz, dove vennero quasi tutti gassati. Nessuno credeva al racconto dell’indicibile. Neppure chi era già sui treni. Nel libro Freedland racconta anche la storia di Czeslaw Mordowicz, anche lui fuggito da Auschwitz e la cui testimonianza venne aggiunta al rapporto di Vrba. Mordowicz venne poi catturato nuovamente e rimandato al campo della morte. Dentro il vagone disse ai compagni di viaggio cosa li attendeva, invitandoli a saltar fuori insieme dal carro quando era in movimento. Ma quelli urlarono, batterono i pugni alle porte e chiamarono le SS, che picchiarono Mordowicz con il calcio dei fucili fino a paralizzarlo. Finì i suoi giorni a Birkenau. Eppure, qualcosa successe, grazie al protocollo di Vrba e Wetzler. Furono infatti le pressioni del nunzio apostolico a Budapest, monsignor Angelo Rotta, a convincere il reggente del regno fantoccio d’Ungheria, Miklos Horthy, a fermare la deportazione degli ultimi 200 mila ebrei ungheresi, salvando loro la vita. Rudolf Vrba è morto nel 2006, all’età di 81 anni, dopo una brillante carriera da biochimico. Come scrive Freedland, per la sua vicenda straordinaria «egli dovrebbe stare al fianco di Anne Frank, Oskar Schindler e Primo Levi, le cui storie ci hanno aiutato a capire l’Olocausto». La sua lezione, che trova grande eco oggi, è che possiamo avere tutte le informazioni che vogliamo su un orrore in corso, ma per agire bisogna prima di tutto crederci.

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