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Corriere della Sera Rassegna Stampa
06.12.2021 Zemmour l'estremista lancia il suo partito
Cronaca di Stefano Montefiori

Testata: Corriere della Sera
Data: 06 dicembre 2021
Pagina: 15
Autore: Stefano Montefiori
Titolo: «Botte e Riconquista: lo show di Zemmour»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 06/12/2021, a pag.15, con il titolo "Botte e Riconquista: lo show di Zemmour", la cronaca di Stefano Montefiori.

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Stefano Montefiori


Eric Zemmour

Non è stato un comizio come gli altri, perché Eric Zemmour non è un candidato come gli altri. Questa è la sua forza e ciò che molti giudicano inquietante. Si sono viste sedie volare, pugni in faccia, sangue, inseguimenti con le cinghie in pugno, invocazioni al nuovo «re di Francia», e lo stesso Zemmour all'arrivo viene agguantato al collo da un aggressore e nel trambusto rimane lievemente ferito al polso, mentre per raggiungere il palco attraversa tutta la sala tra spintoni, un servizio d'ordine quasi sopraffatto, musica epica e la folla che urla gioiosa e furibonda «Zed! Zed! Zed!» come la «Z» (zeta in francese si dice zed) di Zemmour. Ovvero l'uomo che promette di restituire ai francesi «il più bel Paese del mondo», che sarebbe stato rubato loro dagli immigrati, «dalle élite che hanno tradito, dal giornalisti, dalla sinistra ipocrita e politicamente corretta e dalla destra che ha smesso trent'anni fa di fare il suo lavoro». Fuori dal comune anche il luogo: il gigantesco Parc des Expositions di Villepinte, alla periferia di Parigi, scelto perché capace di contenere 15 mila persone, giudicato più controllabile dalla polizia che già temeva incidenti, e infine simbolicamente situato nella Seine-Saint-Denis, il dipartimento dove l'immigrazione musulmana è più alta e dove Zemmour ha lanciato ieri la sua Riconquista. «Reconquête!» è il nome del nuovo partito. Per Zemmour appassionato di Storia è un richiamo evidente alla Reconquista che nel Medioevo permise ai regni cristiani della penisola iberica di riprendersi i territori occupati dall'Islam, con la conquista finale di Granada nel 1492. 11 comizio di Villepinte ieri era il primo appuntamento della campagna elettorale, quello in cui Zemmour era atteso alla trasformazione definitiva da polemista televisivo e scrittore di pamphlet di enorme successo a candidato credibile alla presidenza della Repubblica. Ma chi pensava o sperava in una normalizzazione è stato deluso. Scenografia di enorme effetto, affidata a Olivier Ubéda (già vicino a Sarkozy) che cura la comunicazione di Zemmour, ieri apparso in pubblico con inediti occhialini, che nelle intenzioni dovevano forse essere rassicuranti. Sei schermi giganti, tre a ogni lato del palco, perché tutti possano vedere il leader carismatico; tricolore francese ovunque, più qualche bandiera con il giglio dei monarchici di estrema destra dell'Action française. L'attesa del capo è interminabile: scorrono i video delle riunioni in tutta la Francia, quelle che in teoria erano solo presentazioni del libro La Francia non ha detto l'ultima parola. Per esempio in Corsica, dove Zemmour aveva reso omaggio al popolo corso e all'adorato Napoleone, teorizzando che la Francia non ha bisogno di altra diversità perché ce l'ha già al suo interno, tra bretoni e occitani, normanni e corsi, pronti a fondersi — come lui, ebreo berbero d'Algeria felice di assimilarsi — in un'unica nazione. Tra i tanti oratori che si succedono davanti al pulpito per scaldare la platea c'è l'alto funzionario e saggista un tempo vicino ai Le Pen, Paul-Marie Coûteaux, che lancia l'invocazione di uno Zemmour che sarà «più di un presidente, sarà il re di Francia, è una questione d'amore che toccherà il cuore di ogni francese». Questa faccenda dell'amore è un po' sospetta, perché anche il curatissimo merchandising gioca sul tema, con un'autoironia divertente e un po' sinistra: si vendono magliette con la scritta «Fate Zemmour non fate la guerra», e il logo della campagna sui cappellini prevede un ramoscello d'ulivo stilizzato, simbolo di pace e riferimento a Zemmour che in berbero significa «ulivo». Solo che quando gli attivisti di Sos Racisme infiltrati in platea — indubbia provocazione — aprono i cappotti mostrando le magliette «no al razzismo», vengono subito menati da militanti zemmouriani. Gli incidenti si ripetono ma il leader porta a termine il discorso. Giura di non essere «né fascista, né misogino, né razzista», accuse che lo fanno ridere. «Gli avversari vogliono la mia morte politica, i giornalisti la mia morte sociale e i jihadisti quella fisica», protesta, e questo non fa che esaltare lui e il pubblico. On est chez nous!, ripetono, «Questa è casa nostra». I sostenitori di Zemmour, come già quelli di Trump, sono certi che sia arrivato il momento di «riprendersi il Paese».

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