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Riprendiamo da BET Magazine di gennaio 2025, a pagina 14, l'analisi di Ugo Volli intitolata "Fratelli maggiori o fratelli-coltelli? La Chiesa, gli ebrei (e Israele) un insopportabile doppio standard".
Le manifestazioni di odio anti-israeliano che si sono succedute nella stampa e nelle città di mezzo mondo, durante l’ultimo anno, hanno fatto emergere un fondo antisemita che si credeva fosse stato definitivamente superato dal ricordo della Shoah. Questo ritorno di un atteggiamento pregiudiziale contro Israele e gli ebrei ha toccato in alcuni momenti anche i vertici della Chiesa, con cui pure negli ultimi decenni il mondo ebraico ha intrecciato un dialogo che sembrava capace di cancellare i vecchi pregiudizi. Un rapporto in quattro fasi La polemica cristiana contro gli ebrei non si placò nei secoli successivi e determinò conseguenze giuridiche a partire dal IV secolo, quando l’impero romano si cristianizzò. Le stragi però avvennero e divennero sempre più frequenti nella terza fase, a partire dalle crociate, insieme alle espulsioni, alla reclusione nei ghetti, alle distruzioni di intere comunità, ai roghi di libri e spesso di esseri umani, alle accuse grottesche di usare il sangue umano per la confezione del pane azzimo, di avvelenare i pozzi, di spargere le epidemie. Alcuni di questi crimini atroci non furono approvati dai vertici della Chiesa e dai sovrani cristiani, tanto erano inumani e pretestuosi. Ma il fondamento di questa incessante persecuzione era religioso ed essa fu sempre incoraggiata dalla predicazione di frati, vescovi, preti e da un’incessante opera di propaganda nelle Chiese, nelle opere d’arte, negli scritti. L’odio per gli ebrei fu diffuso anche dalle più grandi personalità religiose cattoliche e poi, dopo il Cinquecento, anche dai riformati, a partire da Martin Lutero. La scia di sangue delle persecuzioni dell’antisemitismo religioso si spense progressivamente con la perdita del potere clericale, a partire dalla Rivoluzione francese. Ma l’impronta dell’odio per gli ebrei non sparì dalla cultura cristiana, anzi si approfondì con la quarta fase iniziata nell’Ottocento. La Chiesa ora rimproverava in particolare agli ebrei l’affermazione della modernità, del liberalismo, della libertà politica e religiosa, della massoneria, in seguito del socialismo e del “bolscevismo”, che percepiva come suoi nemici mortali. Due casi: Mortara e Dreyfus Nascevano nel frattempo, da una matrice clericale, numerosi movimenti esplicitamente antisemiti, per esempio in Francia l’Action française e in Austria il Partito Cristiano Sociale di Karl Luger, che divenne sindaco di Vienna e fu preso come modello per il suo antisemitismo non solo dai nazisti, ma anche dal padre fondatore della Democrazia Cristiana italiana Alcide De Gasperi, come racconta un libro recente dello storico milanese Augusto Sartorelli, (L’antisemitismo di Alcide De Gasperi tra Austria e Italia, edizioni Clinamen, 2024). Questo è lo sfondo su cui va letto l’atteggiamento della Chiesa rispetto alla Shoah: un profondo e diffuso sospetto, venato di disprezzo, per gli ebrei, per le loro “colpe” teologiche (il “deicidio”) ma anche perché protagonisti della modernità che la Chiesa combatteva. La Chiesa non rifiutava un “antisemitismo moderato” (per “la difesa dell’interesse dei popoli” e della “religione”) ma era contraria al razzismo antisemita, che faceva dell’appartenenza al popolo ebraico una colpa genetica incancellabile. Pensava che il battesimo potesse lavare questa appartenenza e quindi si impegnò a difendere soprattutto quelli che chiamava “cattolici non ariani” (una definizione eufemistica di per sé razzista), cercando di sottrarli alla persecuzione nazista, peraltro spesso senza riuscirci. Il libro di Nina Valbosquet racconta molte di queste storie, per esempio quella dei 3000 visti concessi dal Brasile “per omaggio al papa” a ebrei convertiti, che poterono essere utilizzati solo in parte, per le resistenze burocratiche in Brasile e nei paesi di passaggio e per la decisione nazista di bloccare ogni uscita dalla Germania e dai paesi occupati a partire dall’ottobre del 1941. Quanto agli altri ebrei, rimasti tali, vi furono degli interventi cattolici di soccorso economico e in certi casi di rifugio, ma essi vennero prevalentemente dalla periferia dell’istituzione ecclesiastica, da singoli vescovi, conventi di frati e di suore, religiosi di buona volontà. Il Vaticano accettò alcune proposte di donazione di fondi, soprattutto di provenienza americana, da distribuire ai perseguitati “senza discriminazione di appartenenza religiosa”, ma badò bene a non farsi coinvolgere troppo in queste iniziative e soprattutto di rispettare le norme stabilite dagli Stati antisemiti. Nei luoghi in cui aveva molta influenza, come la Slovacchia governata da un prete, Monsignor Tiso, o la Croazia degli ustascia su cui l’arcivescovo Viktor Stepinac aveva grande autorità, o anche l’Italia fascista, i documenti ora consultabili mostrano che il Vaticano non condannò la legislazione antiebraica o le deportazioni, ma chiese per via diplomatica che esse fossero applicate con clemenza; la sola opposizione esplicita, ma pur sempre assai prudente, riguardò lì come altrove i domini che la Chiesa considerava di sua esclusiva competenza, come i matrimoni misti e la loro prole o gli ebrei convertiti. Sul piano delle prese di posizioni ufficiali e pubbliche, Pio XII mantenne il silenzio, evitando ogni intervento anche indiretto, salvo che in due occasioni: un discorso riservato al collegio cardinalizio del giugno del 1942 e il messaggio natalizio del 1942, in cui il papa, dopo una ventina di pagine di testo dedicato ai più vari problemi e avendo appena nominato caduti in guerra, loro vedove e orfani, popolazioni esiliate, vittime dei bombardamenti e altri danni bellici, faceva un accenno piuttosto vago: “Questo voto [di “non darsi riposo, finché … divenga legione la schiera di coloro, che … anelano al servizio della persona e della sua comunanza nobilitata in Dio”] l’umanità lo deve alle centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento”. Il Vaticano, invitato a farlo, rifiutò categoricamente di sottoscrivere la dichiarazione interalleata del 17 dicembre 1942 di denuncia dello sterminio ebraico operato dai nazisti, formulata dai governi delle Nazioni Unite. Anche quando la persecuzione degli ebrei raggiunse le soglie del Vaticano, con il rastrellamento di Roma del 16 ottobre del 1943, non vi fu una presa di posizione pubblica del Papa, che è per ufficio anche il vescovo di Roma, ma solo cauti contatti verbali con l’ambasciatore tedesco, soprattutto allo scopo di ottenere il rilascio dei “cattolici non ariani”. Il papa continuò a non parlare contro i nazisti anche dopo la liberazione di Roma. In quel momento, quando sotto la spinta degli alleati il governo Badoglio stava decidendo di abolire le leggi razziste, il gesuita Pietro Tacchi Venturi, che era stato l’intermediario preferito del Vaticano col fascismo, fu mandato al ministero degli Interni allo scopo di difendere “una legge la quale, secondo i princìpi e la tradizione della Chiesa Cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate (quelle sui convertiti e sui matrimoni misti, ndr), ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma”. L’ultimo atto di questa storia fu la difficile disputa per recuperare i bambini ebrei rifugiati senza genitori in istituzioni cattoliche, che il Vaticano non voleva riconsegnare alle famiglie – salvo esservi obbligato dalla magistratura. Com’è noto, ci volle il Concilio Vaticano II, la dichiarazione Nostra Aetate (approvata nel 1965, vent’anni dopo la caduta del nazismo) perché apparisse superato l’antigiudaismo cristiano. La prima visita di un papa in sinagoga che compì Giovanni Paolo II nel 1986 e il riconoscimento di Israele da parte della Santa Sede nel 1993 (ultima degli Stati europei) diedero l’impressione che l’“odio antico” fosse stato finalmente superato. Sembrava potersi aprire allora una fase straordinaria di dialogo e di amicizia. Oggi queste realizzazioni non appaiono annullate, ma certamente congelate, bloccate da una volontà anti-israeliana che si esprime in molti gesti, dall’evocazione nell’ultimo libro del Papa di un possibile “genocidio” che potrebbe essere stato commesso da Israele a Gaza, alla presentazione solenne in Vaticano di un presepe in cui Gesù bambino appare avvolto in una kefiah, accreditando la falsità storica della propaganda palestinese. È difficile dire oggi se si tratti solo di una mossa politica o del riemergere di una tendenza quasi bimillenaria al rifiuto cristiano per gli ebrei. Ma certamente essa obbliga a ripensare a quel che la Chiesa ha fatto (e non ha fatto) durante la Shoah e a collocare quella fase, e l’attuale, nei tempi lunghi di un’inimicizia millenaria.
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