Riduci       Ingrandisci
Clicca qui per stampare

Informazione Corretta Rassegna Stampa
15.07.2021 Napoli, intitolata via al terrorista Arafat
Commento di Pierpaolo Punturello

Testata: Informazione Corretta
Data: 15 luglio 2021
Pagina: 1
Autore: Pierpaolo Punturello
Titolo: «Napoli, intitolata via al terrorista Arafat»
Riprendiamo da Facebook il commento di Pierpaolo Punturello a proposito della via intitolata al terrorista Yasser Arafat a Napoli per volontà del sindaco De Magistris, che ha fatto dell'ostilità a Israele una bandiera.

Napoli, una strada intitolata ad Arafat, la protesta della Comunità ebraica  - Politica - quotidiano.net

Non possiamo comprendere fino in fondo la questione della nuova strada intitolata ad Arafat da parte del Comune di Napoli, se non ci confrontiamo apertamente con la realtà sociale, politica e culturale dei giocatori di questa triste partita o degli attori di questa orrenda tragicommedia. Partiamo dalla scenografia di questo teatrino. La scenografia ci mostra una classe sociale, una certa piccola e media borghesia napoletana, che è rappresentata da alcuni attori interessanti come l’Assessore Clemente ed il direttore di scena, il sindaco De Magristris. Il mondo culturale è quello di una classe sociale, nata e cresciuta in alcuni contesti borghesi della città partenopea, caratterizzati da una costante sensazione di “vorreimanonposso”. Un “vorreimanonposso” che inizia la sua propria esistenza nelle strade di alcuni quartieri che non sono borghesi, non sono nobili e lottano ferocemente per non essere identificati come popolari. Come se essere parte del popolo sia una macchia sociale dalla quale ripulirsi. Chi è napoletano o ha conosciuto le pieghe sociali della città, sa che alcune strade del quartiere Arenella o Rione Alto o Fuorigrotta o Soccavo entrano in maniera precisa in questa griglia di definizione: non sono strade di alta e sicura media borghesia come potrebbe essere via Alessandro Scarlatti al Vomero o via Luca Giordano e non sono strade di nobile popolanità come quelle del centro storico, da Port’Alba alla Stazione Centrale. Si tratta di strade dalla incertezza sociale, non di sicura borghesia, ma già non più popolari, perse in quella eterna lotta sociale tra chi non vuole più essere un orgoglioso pariah del popolo napoletano e compie ogni sforzo per essere un parvenu, un nuovo borghese, sospeso in un limbo economico, culturale e sociale: non più persona del popolo, non ancora persona di una borghesia colta ed intellettualmente attiva. La cultura, tuttavia, non può essere acquisita se non con un processo implichi un’autocritica ed una consapevolezza sociale che al momento non è presente, in compenso è possibile acquisire un posto pubblico di finta cultura che sia fonte di applausi ed è in questo posto “al sole” che entra la strada intitolata ad Arafat. Quale migliore occasione, se non quella della bandiera della difesa palestinese, per poter uscire dall’eterna frustrazione culturale del “vorreimanonposso”? Quale migliore occasione se non l’utilizzo della moda “palestinese” per travestirsi con i panni dell’intellettuale illuminato che gestisce la “cosa pubblica” per volere popolare? Solo comprendendo questa antica e costante tensione frustrata di una certa classe sociale (ahimè anche politica) napoletana, potremo comprendere perché a Napoli esiste una via intitolata ad Arafat. Arafat, con tutta la stereotipata cultura della difesa del debole che rappresenta, è il nuovo lasciapassare culturale che rende vergini, socialmente, intere generazioni di piccoli, piccoli borghesi che hanno scelto la via del travestimento sociale e culturale per potersi presentare al mondo, quando avrebbero potuto scegliere lo sforzo culturale e sociale di un impegno molto più profondo e molto più significativo per la crescita della città: lo sforzo di non seguire l’onda della moda, lo sforzo di porsi domande come cittadini e come gestori della cosa pubblica per rendere se stessi e la città un punto di riferimento giusto e culturalmente equilibrato per il mondo Mediterraneo. Ma per poter essere giusti e crescere culturalmente bisogna compiere l’immane sforzo di passare dal “vorreimanonposso” al “possoquindivoglio”. Uno sforzo che impone a chi lo compie l’abbandono di stereotipi, frustrazioni sociali, immagini ripetute di una realtà che, dal dopo guerra ad oggi, condizionano molte classi sociali napoletane. In definitiva si tratterebbe di iniziare un processo che, parafrasando Hannah Arendt, dovrebbe trasformare i parvenu in pariah, dovrebbe trasformare i frustrati in orgogliosi, i faziosi in intellettuali, i tifosi in sportivi. Un processo che potrebbe trasformare la provincialità internazionale di una classe politica in gestori consapevoli di una città che potrebbe avere un grande valore internazionale, una grande presenza culturale nel mondo e tristemente si accontenta di essere l’ennesimo esempio della bandiera della ovvietà internazionale.

Scrittori tra le Scritture. Intervista a Rav Pierpaolo Pinhas Punturello.
Pierpaolo Punturello


takinut3@gmail.com

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui