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Informazione Corretta Rassegna Stampa
14.01.2010 1931 il professore deve giurare - seconda parte
Le storie raccontate da Luciano Tas

Testata: Informazione Corretta
Data: 14 gennaio 2010
Pagina: 1
Autore: Luciano Tas
Titolo: «1931 il professore deve giurare - seconda parte»

1931 il professore deve giurare - seconda parte


Luciano Tas

Come nasce il giuramento
Torniamo al nostro tema. Si è visto come l'attacco del regime alle università cominci con la riforma Gentile, definita da Mussolini "la più fascista delle riforme”. Il governo delle università e il reclutamento dei professori  con questa riforma è sottoposto all'arbitrio del ministro della Pubblica Istruzione (successivamente Educazione Nazionale).
Con la riforma il Consiglio superiore della Pubblica Istruzione non è più elettivo, ma è nominato dal ministro stesso che può determinare anche la composi¬zione delle commissioni giudicatrici dei concorsi. Gli stessi Rettori e i Presidi di Facoltà, in precedenza eletti dai professori di ruolo, sono nominati direttamente dal ministro.
Luigi Einaudi, eminente studioso, appassionato difen¬sore di un ceto accademico "aristocratico, sottratto ai partiti politici, indipendente dalla burocrazia", denuncia la riforma Gentile come misura che può "trarre alla rovina l'insegnamento universitario".
Il giuramento imposto nelle università nasce da questo clima, ma al fascismo non riuscirà l'opera di unificare l'anima di tutta la società e neppure quella di dare indirizzo omogeneo a tutti gli istituti culturali. Alla Treccani collaboreranno (paradossalmente proprio per l’intervento di Gentile) fior di antifascisti e lo stesso avverrà nella scuola di Volpe.
Quanto alle università, una successione di indirizzi contrastanti cor¬reggeranno l'iniziale impronta gentiliana, mentre Rettori e Presidi di facoltà assicureranno quel tanto di tolleranza possibile nelle circostanze.
Ma ecco ora le vicende dei sei professori ebrei che rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo.

Vito Volterra
Il 18 novembre 1931, quando giunge il momento di prestare il giu¬ramento di fedeltà al fascismo, Vito Volterra, cui il regime non osa togliere il seggio senatoriale, scrive al Rettore dell'Università di Roma: "Sono note le mie idee politiche per quanto esse risultino esclusivamente dalla mia condotta nell'ambito parlamentare, la quale è tuttavia insindacabile in forza dell'art. 51 dello Statuto fondamentale del Regno. La S.V. compren¬derà quindi come io non possa in coscienza aderire all'invito da lei rivoltomi con lettera 18 corrente relativa al giuramento dei pro¬fes¬sori".
In questo 1931 Vito Volterra ha 71 anni. Avrebbe potuto semplice¬mente chiedere il collocamento a riposo senza compromettersi e senza ripudiare le sue idee. Ma non sarebbe stato nel carattere dello scienziato.
Il 19 dicembre, Volterra riceve da Torino la lettera del suo amico Luigi Errera, che la notizia del rifiuto l'aveva avuta dall'estero: "Ne avevo già sentore - scrive Luigi Errera - ma solo oggi dal Temps ho avuto conferma che Ella ha rifiutato di giurare. Non può credere quanto io sia soddisfatto di quest'atto, che del re¬sto non fa che confermare la stima che ebbi sempre del suo carat¬tere. La Università, con suo di¬sdoro, perderà probabilmente un il¬lustre insegnante, ma per for¬tuna resta il Maestro, di fama mon¬diale, e resta un esempio, che speriamo non sia perduto per l'avvenire. Ella avrà visto che tra i professori che rifiutarono di giu¬rare ve n'è uno di Pavia. E' mio fra¬tello (si tratta di Giorgio Errera), ed è per me una grande sod¬disfa¬zione che egli chiuda così una car¬riera.....".
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Vito Volterra nasce il 3 maggio del 1860 da una famiglia ebrea liberale e anticlericale ad Ancona, una città dello Stato pontificio, dove il regime è fondamentalista cattolico e istituzionalmente antisemita. Nel DNA di Vito Volterra c'è proba¬bilmente il ricordo di uno dei pochi roghi di ebrei avvenuti in Italia, quello nella città marchigiana del 1556, un anno ap¬pena dopo la bolla di papa Paolo IV, "De nimis absurdum", che chiu¬deva sugli ebrei le mura dei ghetti. 
Nel suo carattere, oltre che nel suo ricordo genetico, vi è forse anche l'orgoglio della prima reazione ebraica ai roghi pontifici (su quello di Ancona erano finiti ven¬ticinque ebrei): il boicottaggio da parte del Sultano turco del porto di Ancona a vantaggio di quello di Pesaro era stato infatti il frutto delle pressioni di quegli ebrei che, scacciati poco più di mezzo secolo prima dalla Spagna, avevano tro¬vato ospitale accoglienza nell'impero ottomano.
Anticlericale, laico e libero pensatore (rivendica la sua apparte¬nenza all'ebraismo solo quando Mussolini emanerà le leggi an¬tie¬braiche nel 1938) e ribelle, Vito Volterra, or¬fano di padre a soli due anni, dovrà scalare a forza di braccia tutta l'aspra catena degli studi, fino a diventare il grande matema¬tico co¬no¬sciuto in tutto il mondo.
La sua intensa attività scientifica e organizzativa  gli lascia poco spazio per la politica ed è quindi solo in virtù dei suoi meriti di scienziato che nel 1905 viene nominato Senatore del Regno.
Allo scoppio della prima guerra mondiale Volterra è un appassio¬nato interventista. Nel 1915, alla vigilia dell'ingresso dell'Italia in guerra a fianco dei francesi e degli inglesi, scrive alla "Académie des Sciences" di Parigi, della quale è membro, dicendosi felice che il destino avesse unito l'Italia alla Francia. E' certo della vittoria, una vittoria, scrive, "della libertà e della cultura).
A 55 anni, il 25 maggio 1915 si arruola volontario e risponde alla ri¬chiesta del ministro della Guerra assicurandogli di mettere a sua disposizione le competenze scientifiche di cui dispone.
Scrive  che "Alla domanda rivoltagli nella nota dalla E.V. il sottoscritto ha l'onore di rispondere che accetta di essere inscritto nella lista delle persone di competenza tecnica di cui è parola nell'art. 4 del R.D. 29 aprile 1915 n. 561. Nel tempo stesso il sottoscritto ha l'onore di rinnovare l'istanza già fatta fino dallo scorso aprile insieme con altri membri dell'Associazione Elettrotecnica Italiana affinché il R. Esercito voglia accogliere il mio vivissimo desiderio di servirsi nella guerra dell'opera sua in servizii tecnici o di laboratorii o in altri servizii di qualsiasi forma e natura in cui possa riescire utile".
La sua domanda di arruolamento è accolta. L'esercito lo destina, con il grado di tenente, al corpo dei pionieri. Deve cercare di sta¬bilire come e quanto possono essere utilizzati i dirigibili in guerra. Ma lo mandano anche sul fronte francese per aiutare a risolvere altri problemi, sempre connessi al suo sapere, nel caso specifico le sue conoscenze sulla balistica.
Volterra finirà la guerra mondiale (naturalmente la prima, ma an¬cora le guerre mondiali non erano numerate) con il grado di capi¬tano. Promozione ottenuta per meriti tecnico-militari.

Vito Volterra è stato un fervido interventista, ma prenderà le distanze dal fascismo fin dal suo primo ap¬pa¬rire, contrariamente a quelli che per un pe¬riodo magari breve concedono a Mussolini una certa apertura di credito. Per Volterra invece Benito Mussolini resta quello che Margherita Sarfatti, prima di diventare l’amante ebrea del futuro dittatore, aveva laconicamente definito in un momento di lungimi¬rante sincerità, "un teppista".
Così, due anni dopo la conquista del potere da parte di Mussolini, Volterra firma nel 1924 il manifesto dell'Unione nazionale delle forze liberali e democratiche di Giovanni Amendola.
Un anno più tardi la firma di Volterra appare in calce al "contromanifesto" che Benedetto Croce ha stilato in polemica con il manifesto degli intellettuali fascisti, che nel '25 sono già legione.
E sempre nel 1925, quando al Senato viene messa ai voti la legge che proibirà tutte le organizzazioni segrete e in modo specifico la massoneria, che è il vero oggetto della legge, Volterra insieme a Croce si astiene. In aula motiva la sua decisione. Dice in sostanza di essere stato sem¬pre contrario alle organizzazioni segrete come la massoneria, con i suoi riti un po' ridicoli. "Ma la mia contrarietà - aggiunge - l'ho manifestata qu¬ando si poteva essere o non essere massoni, quando cioè c'era piena libertà. Oggi che le condizioni di li¬bertà in Italia sono piuttosto dubbie e siamo testimoni di un attacco sistematico al sistema li¬berale, non posso votare questa legge anti¬massonica".
Con questi precedenti, non fa meraviglia che Volterra abbia pensato di dimettersi nel 1926 dalla presidenza della prestigiosa Accademia dei Lincei, perché, si legge nella minuta della lettera poi non spe¬dita, "sento che in questo momento la mia persona alla direzione dell'Accademia può non (riuscire)utile e questa opinione mi è stata pure manifestata da alcuni soci".
In effetti - e Volterra lo conferma in una lettera successiva - "alcuni soci avevano insistito presso di me perché presentassi le dimis¬sioni". Chi insiste in senso contrario andrà a far parte del mi¬nuscolo gruppo di oppositori del regime, quelli che per questa posi¬zione pagheranno un altissimo prezzo. Accademici dei Lincei come Carlo Somigliana, Luigi Errera, Guido Castelnuovo, Tullio Levi-Civita (che pure finirà per prestare il giuramento di fedeltà al regime nel 1931), Francesco Ruffini...
Il 5 maggio 1926 il matematico manifesta a Vittorio Scialoja, che gli succederà poi alla presidenza dell'Accademia, la sua intenzione di non riproporre la sua candida¬tura allo scadere del suo triennio. "Illustre e caro collega - gli scrive Volterra - è giunto al termine il triennio della mia Presidenza all'Accademia dei Lincei. Sono profondamente riconoscente ai Colleghi che, con la loro benevolenza, vollero affidarmi l'alto Ufficio, ma come dissi a lei ed a quanti ne ho parlato, e come desidero sia noto, io non ac¬cetterei in nessuna eventualità una riconferma, rite¬nendo ormai compiuto il mio mandato......".
Con queste premesse c'è da immaginare con quanto poco calore Volterra avesse accolto, poche settimane prima di lasciare l'Accademia dei Lincei, la proposta avanzata da due docenti uni¬versitari di Milano, Gaudenzio Fantoli e Giuseppe Zuccante, di con¬ferire a Mussolini, quale "salvatore e rinnovatore della patria" la qualifica di "membro onorario dell'Accademia". Meglio lasciargli soltanto quella di "caporale d'onore della Milizia".
Il 12 maggio del 1928 il senatore a vita Volterra vota assieme ad altri 45 membri del Senato, tra i quali Croce, Einaudi, Ruffini, Wollenborg, contro la legge che prevede una riforma elettorale pre¬parata su misura per favorire il fascismo.
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Dopo il suo rifiuto di giurare, a Vito Volterra viene ufficialmente revocato l'incarico universitario. Il collega francese Paul Labérenne gli scrive il 21 gennaio 1932: "E' con grande stupore e profonda pena che ho appreso della revoca. Avevo sentito dire che il governo fascista aveva l'intenzione d'imporre un giuramento ai membri dell'Università, ma non avrei mai creduto che un potere che si dice (in italiano nel testo) giungerebbe a trattare così uno dei più illustri scienziati di cui possa essere orgoglioso il paese che afferma di rappresentare. Lasciatemi dire ad ogni modo quanto io capisca e ammiri il suo ge¬sto di rifiuto!.....".
Volterra potrebbe andare all'estero a insegnare in una delle molte università che gli hanno offerto la cattedra, ma il suo amore per l'Italia è più forte della sua avversione per il regime. Non parte. E' sottoposto a stretta sorveglianza da parte dell'OVRA, la sua corrispondenza è controllata e quella in arrivo viene spesso intercettata e rispedita al mittente con il timbro "sconosciuto".
E finalmente nel 1934 viene imposto il giuramento anche all'Accademia dei Lincei, in attesa di sacrificare l'istituzione a be¬ne¬ficio della nuovissima Accademia d'Italia. E' l'ultimo atto della sca¬lata fascista alla cultura italiana, nei confronti della quale Mussolini non cesserà mai di soffrire del complesso d'inferiorità abbastanza tipico degli autodidatti, anche se dotati di brillante intelligenza come senza dubbio era il dittatore.
Volterra rifiuta ancora e si dimette anche dai Lincei. A questo punto interviene Agostino Gemelli, il frate francescano (peraltro antisemita) fondatore e poi rettore dell'Università Cattolica di Milano e presi¬dente dell'Accademia scientifica pontificia. Gemelli chiede ed ottiene dal papa Pio XI che Volterra sia nominato accademico pon¬tificio. Ciò che procura al matematico ebreo una doppia soddisfa¬zione.
La vicenda di Volterra non termina qui. Quando nel 1938 Mussolini emana - e il re controfirma - le leggi antiebraiche, si produce una situazione imbarazzante per i senatori a vita di nomina regia di "razza ebraica". Mussolini vorrebbe che venissero dichiarati deca¬duti, ma per una volta Vittorio Emanuele III resiste. Così Volterra resta senatore, anche se ormai la qualifica è puramente astratta.
Le leggi razziali antiebraiche erano state precedute da una martel¬lante campagna di stampa. Capofila di questa campagna "Il Tevere", dove Telesio Interlandi, che diversi mesi prima delle decisioni del Gran Consiglio pubblicava le liste dei professori e degli assistenti universitari ebrei, chiedendone la rimozione dalle cattedre e dalle Accademie.
Interlandi sarà accontentato e le università diventaranno, alla nazista, "pulite da ebrei".
Volterra si risparmia peggiori dolori e più gravi pericoli morendo ottantenne a Roma l'11 ottobre del 1940.
Un fonogramma della Questura di Roma al ministero dell'Interno delle ore 11.5O comunica che "stamane alle ore 4.30 nella sua abi¬tazione in Via in Lucina n.17 è deceduto il Senatore Volterra Vito fu Abramo di razza ebraica".
Le veline del Ministero della Cultura Popolare, il Minculpop, proibi¬scono ai giornali di occuparsi della figura dello scomparso e per¬sino la data del suo funerale è top secret. Chi ciò malgrado vi par¬tecipa, come fa ad esempio un folto gruppo di suoi ex allievi, è schedato dall'OVRA.
La sola commemorazione ufficiale cui la famiglia può assistere è fatta da Carlo Somigliana dell'Accademia Pontificia (dove Somigliana era entrato per l'intervento di Volterra). Ma altre commemorazioni avvengono in Argentina, dove sono rifugiati diversi docenti uni¬versitari italiani antifascisti ed ebrei.
Eppure in Italia qualcuno che parla è ancora rimasto in questo primo au¬tunno di guerra. A Torino il matematico Francesco Tricomi, appena venuto a conoscenza della morte di Volterra, si affretta a scrivere un discorso che pronuncerà il 20 novembre all'Accademia torinese delle Scienze. Il titolo del di¬scorso è: "Sul principio del ciclo chiuso di Volterra". Un modo tra¬sversale per ricordare il grande scienziato scomparso. Alla fine del suo intervento Tricomi aggiunge: "Nel mo¬mento in cui sono venuto a sapere della morte di Vito Volterra, mi sono tornate alla mente le parole del matematico Karl Weierstrass: ". Per il tempo, un atto di non comune coraggio.
Ma se in Italia è imposto il silenzio, all'estero e non solo dai fuoru¬sciti italiani, la figura di Volterra, scienziato e uomo, è ricordata con grande rilievo e rimpianto.
E più saranno ricordate negli anni le parole di Volterra: "Gli imperi passano ma i teoremi di Euclide hanno il dono dell'eterna gioventù".

Giorgio Errera
"Pregiatissimo professore - scrive tra l'altro il 19 dicembre del 1931 l'ingegnere torinese Luigi Errera a Vito Volterra, dopo che questi ha reso pubblica la sua decisione di non prestare giuramento di fedeltà al fascismo - Ella avrà visto che tra i professori che ri¬fiutarono di giurare ve n'è uno di Pavia. E' mio fratello, ed è per me una grande soddisfazione che egli chiuda così una carriera che, se non brillan¬tissima dal punto di vista scientifico, può ben conside¬rarsi esem¬plare per dignità e fedeltà al dovere......".
Se è giusto il giudizio mo¬rale che Luigi dà del fratello Giorgio, titolare di cattedra all'università di Pavia, quello per così dire professionale è ecces¬sivamente severo. Vedremo come, trent'anni dopo, altri useranno questo duplice giu¬dizio per negare a Giorgio persino un modesto riconoscimento pubblico.
E' possibile che "dal punto di vista scientifico", come scrive Luigi a Volterra, la carriera di Giorgio Errera non sia stata "brillantissima". Però il curriculum accademico di Giorgio Errera  non è disprezzabile. La sua carriera non sembra tanto opaca come la vede il fratello Luigi, dato che  è Pavia, dove sorge uno dei più prestigiosi atenei italiani, la sua ultima sede universitaria. Né tanto opaco pare il suo curriculum scientifico, visto ad esempio che le sue pubblicazioni ap¬parse tra il 1883 e il 1914 su argomenti di chimica organica sono considerate a tutt'oggi (certo riferite all'epoca) di grande impor¬tanza. E dopo il 1914 erano stati pubblicati due suoi ponderosi vo¬lumi di chimica or¬ganica e inorganica sui quali si sono affaticate ge¬nerazioni di stu¬denti. Sembra del resto sincero e vivo l'apprezzamento che su Errera manifestava il Preside della sua Facoltà di Scienze dell'università di Palermo dove, dopo quella di Messina, ha insegnato Giorgio Errera.
Quando nella seduta del Consiglio di Facoltà del 13 luglio 1909 il Preside propone il trasferimento di Errera da Messina a Palermo, lo fa con grande calore, illustrando l'originalità delle pubblicazioni del suo candidato, la sua profonda cultura e specifica sapienza, la sua capacità didattica, le sue ricerche che definisce (e non sarà il solo) "di alto valore scientifico".
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Il futuro cattedratico nasce a Venezia il 26 ottobre del 1860 (è dunque un coetaneo di Volterra) e viene iscritto alla comunità ebraica della città lagunare come Jacob Benedetto Giorgio Errera, figlio di Angiolo, banchiere, e di Irene Norsa. Giorgio è il primoge¬nito. Seguirà Luigi.
A parte l'anno di nascita, c'è un altro singolare elemento che unisce la storia di Volterra a quella di Errera: le macerie.
Vito Volterra quando ha appena due mesi rimane sotto le macerie della casa paterna di Ancona sottoposta all'assedio e al bombarda¬mento delle truppe italiane. (Nel 1861 Ancona verrà annessa all'Italia, che assicu¬rerà agli ebrei della città i diritti civili finora ne¬gati dallo Stato pontificio).
Ed ecco che molti anni più tardi, nel 1908, sarà Giorgio Errera a re¬stare sotto le macerie, questa volta per un tragico evento naturale, il terremoto di Messina, nel quale perderà la vita la moglie Maddalena.
Un anno più tardi, nel 1909, trasferito all'università di Palermo, Errera conosce Giovanni Gentile, che all'epoca ha 35 anni. Con lui i rapporti, pur complessi, da questo momento non si spezzeranno più.
Le disavventure siciliane di Giorgio Errera non finiscono con il ter¬remoto di Messina. La sera del 14 febbraio 1915, quando la nera ala della guerra già si è estesa in Europa e sta per avvolgere anche l'Italia, Errera viene aggredito e accoltellato. E' un'aggressione misteriosa e non del 14 febbraio 1915 si riuscirà mai a identificarne gli autori.
E c'è anche un altro mistero. Il giorno 18 il Rettore dell'università di Palermo informa del fatto il ministero della Pubblica Istruzione, avanzando con grande prudenza l'ipotesi dell'aggressione maturata nella stessa Università. "Non si esclude - scrive infatti - che le ragioni del fatto debbano ricercarsi nell'esercizio del suo ufficio di insegnante e di direttore di un isti¬tuto universitario". Fatalmente però "le indagini dell'autorità com¬petente non hanno ancora trovato alcun elemento per una accusa sicura".
Comunque sia, è comprensibile il desiderio di Errera, che deve ri¬correre a lunghe cure per ristabilirsi completamente dalle gravi ferite al volto, di lasciare l'isola. Gli viene assegnata la cattedra di chimica generale a Pavia. Considerato che dal 1920 al 1925 Errera è chia¬mato a dirigere la scuola di farmaceutica e negli stessi anni di¬venta anche membro corrispondente dell'Accademia dei Lincei, si deve ammet¬tere che il giudizio del fratello Luigi su una presunta modestia dei traguardi raggiunti dal fra¬tello è eccessivamente se¬vero. Tanto più severo alla luce di quanto accade nel 1923, quando Gentile, in questo mo¬mento ministro della Pubblica Istruzione, gli fa pervenire la no¬mina a rettore di quella stessa università di Pavia in cui era stato chiamato come professore.
E' una designazione inattesa. Lo dimostra una richiesta del professor Errera che la "R. Università di Pavia" il 31 luglio 1923 tra¬smette al "R. Ministero dell'Istruzione". Si tratta della "istanza del Chiar. Prof. Giorgio Errera, ordinario, diretta ad ottenere l'autorizzazione a risiedere a Milano", nonché la "domanda del pro¬fessore medesimo diretta ad ottenere l'abbonamento ferroviario sul tratto Milano-Pavia, in classe seconda, dal 16 ottobre 1923 al 15 luglio 1924....". Per inciso, da notare quel "classe seconda" e la limi¬tazione dell'abbonamento al puro periodo delimitato dalla durata dell'anno accademico.
Il 29 ottobre dello stesso 1923, poco dopo la nomina di Gentile, Errera manda un laconico telegramma al ministro decli¬nando l'incarico per il quale, scrive, "non sono adatto".
Un rifiuto che non è da tutti. Per formularlo ci vuole una buona dose di coraggio. Coraggio ancora maggiore ci vuole per firmare due anni dopo, nel 1925, il manifesto di Croce. E infine, nel 1931, per as¬so¬ciarsi al microscopico gruppo dei docenti che rifiutano il giura¬mento di fedeltà al fascismo.
Errera spiega al rettore che lui il giuramento di fedeltà al re, alla patria, alle istituzioni e quant'altro, lo ha già prestato e precisa¬mente il 14 febbraio del 1927, come dimostra il "Processo verbale di prestazione di giuramento" che reca tale data. Quel "Processo verbale" certifica che "avanti di me Prof. Cav. Ottorino Rossi, Rettore della R. Università di Pavia" e alla presenza di due testimoni, rispet¬tivamente il "Direttore di Segreteria" e il "Primo segretario", il pro¬fessor Giorgio Errera "ha prestato giuramento nei seguenti termini: ". Fin qui il testo prestampato del giuramento. Ma con la macchina da scrivere è stato aggiunto: "Giuro che non appartengo né apparterrò ad asso¬ciazioni o partiti la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio".
Per Errera il rifiuto di giurare avviene solo verbalmente e infatti non ne rimane traccia scritta, salvo che, implicitamente, nella let¬tera di sospensione del ministro della Pubblica Istruzione Balbino Giuliano allo stesso Errera, sospensione motivata appunto dal ri¬fiuto dell'ormai anziano docente.
Ci deve essere stato un estremo tentativo non tanto ormai di far cambiare parere al settantunenne Errera, quanto di insabbiarne la decisione facendola passare per una richiesta di pensionamento. Infatti poco prima della fine dell'anno il ministro Giuliano chiede ancora telegraficamente al rettore dell'università di Pavia, il clinico Ottorino Rossi, di fargli sapere che cosa ha deciso di fare Errera. E' l'11 dicembre. Bisogna che il professore comunichi la sua intenzione prima delle vacanze invernali.
Quello che perviene a Ottorino Rossi è il telegramma-tipo che Balbino Giuliano manda ai rettori di quelle università dove si anni¬dano i più anziani dei dodici riottosi, quelli che se si decidessero a chiedere il collocamento a riposo per anzianità risparmierebbero qualche fastidio al regime. "Prego Vossignoria - si legge nel mes¬saggio ministeriale - far conoscere con telegramma urgente entro domani dodici corrente quali siano determinazioni professor Giorgio Errera circa presentazione do¬manda collocamento riposo per an¬zianità".
E il 1° gennaio 1932, senza attendere la risposta (che non arriva), il ministro colloca a riposo Giorgio Errera. Un riposo amaro, dopo 40 anni di servizio.
Anche per lui però il modulo che annuncia il collocamento a riposo vuol fare ipocritamente intendere che tale decisione sia presa per venire incontro al desiderio del docente, quasi (non fosse per l'età) una di quelle baby-pensioni che avrebbero reso allegri gli anni Settanta e Ottanta. E anche qui il modulo è corretto a mano. Alle pa¬role "è collocato a riposo" viene aggiunto "a sua domanda" e "per raggiunti limiti di età" è corretto in "per avanzata età ed anzianità di servizio", là dove una vaga "avanzata età" sostituisce il più pre¬ciso ma imbarazzante "limiti di età". E' il 28 dicembre 1931.
Questo collocamento a riposo su richiesta dell'interessato è però brutalmente smentito dalla comunicazione del ministro a Giorgio Errera. "La S.V. per essersi rifiutata di prestare il giuramento pre¬scritto dall'art. (...) si è posta in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo e perciò sarà proposta per la dispensa del servizio, ai sensi degli articoli (....)".
E' lo stesso rettore Rossi, nel discorso di apertura dell'anno accade¬mico 1932/33, a comunicare il ritiro di Errera, senza aggiungere  nemmeno una parola di ringraziamento per l'opera svolta in tanti anni in quell'ateneo.
Alla fine del 1933 Giorgio Errera muore in una clinica di Torino. Ha 73 anni.
A ricordarlo nel 1934 con parole di affettuoso elogio  all'università di Pavia è il professor Gaetano Charrier, ma bisognerà arrivare alla fine della seconda guerra mondiale perché un altro rettore della stessa università, lo storico dell'antichità Plinio Fraccaro, ricordi Errera e il suo rifiuto, il rifiuto di un "maestro e uomo, morto in soli¬tudine".

Il vizio rende omaggio alla virtù
E’ curioso ricordare che nel 1961, a trent'anni giusti dal rifiuto di Giorgio Errera, un altro storico dell'antichità, Gianfranco Tibiletti, proporrà al senato accademico dell'università di Pavia di apporre all'interno dell'Alma Mater una targa in ricordo del corag¬gioso do¬cente e del suo gesto compiuto quasi in assoluta solitudine e ormai già dimenticato dai più. Ebbene, il senato accademico boc¬cerà la proposta.
La motivazione addotta è quasi un giallo. Nel verbale dell'assemblea del 12 maggio 1962, si legge che il Senato accade¬mico presieduto dal rettore Luigi De Caro, al punto 6 dell'ordine del giorno ("varie, eventuali") discute la proposta del collega Tibiletti e così decide:
"Il Senato Accademico prende quindi in esame il testo dell'epigrafe di una lapide che si vorrebbe apporre per ricordare il Prof. Giorgio Errera già titolare di Chimica nella nostra Università. Al riguardo il Senato Accademico deve rilevare che il testo sottopostogli, nella sua attuale formulazione, accenna ad uno soltanto degli aspetti che deli¬neano la figura di Giorgio Errera, quello del suo carattere ada¬man¬tino che lo indusse a rifiutarsi di prestar giuramento di fedeltà al fascismo, e non può non rilevare che limitarne l'esaltazione a questo solo aspetto sarebbe menomarne il ricordo in quanto il Prof. Errera è stato anche e soprattutto un valente chimico di alta e meritata fama. Per questo motivi decide di rinviare lo schema alla Facoltà perché ne integri opportunamente il testo".
Ma da quel lontano maggio 1962 più nulla è accaduto. La non me¬glio identificata Facoltà non ha ancora provveduto a integrare "opportunamente il testo". Non v'è chi non veda tutta l'ipocrisia di questa deliberazione del Senato accademico di Pavia. Sarebbe come rifiutare una targa a chi si fosse gettato in mare per salvare qual¬cuno in procinto di annegare se nella targa non venissero ricordati anche i meriti professionali o artistici o scientifici del salvatore.
La verità probabilmente è che un qualsiasi concreto ricordo del ge¬sto di rifiuto compiuto in quell'anno, pure ormai lontano, da dodici sugli oltre milleduecento docenti universitari, poteva costituire mo¬tivo d'imbarazzo. Anche una sola lapide che avesse rievocato il ri¬fiuto dei dodici av¬rebbe sottolineato che oltre milleduecento profes¬sori si adattarono invece a giurare, più o meno di buon grado, più o meno in buona fede, più o meno attri¬buendo al gesto stesso una qualche impor¬tanza. La lapide avrebbe messo i dodici su un certo piano morale e i milleduecento e passa su un piano diverso, specu¬lare e forse come tale nemmeno del tutto meritato.
Insomma, se i primi fossero stati collocati in paradiso, ai secondi non sarebbero forse toccate altre porte che quelle dell'inferno? E' stato questo il ragionamento del senato acca¬demico di Pavia il 12 maggio 1962? Chissà.


Fabio Luzzato
La politica Fabio Luzzatto la deve avere avuta certa¬mente nel san¬gue. Così come il senso della democrazia e della giustizia. E "per li rami" deve essergli scesa nelle vene anche una certa propensione romantica per le battaglie senza speranza. Il padre, Graziadio Luzzatto, nato a Gorizia da antica famiglia veneziana, aveva parteci¬pato alla rivoluzione ungherese del 1848 contro il dominio au¬striaco. Graziadio Luzzatto era accorso volontario sotto le bandiere di Lajos Kossuth, che aveva conosciuto personalmente, per essere con lui nella rivolta che do¬veva  abbattere (per breve tempo) la servitù della gleba e proclamare la repubblica. Una repubblica che avrebbe riconosciuto le libertà fondamentali, prima di essere schiacciata nel 1849 dalle soverchianti truppe austriache appog¬giate da quelle russe. La storia a volte si ripete e poco più di un secolo dopo altre truppe russe avrebbero soffocato un'altra rivolta popolare unghe¬rese.
La passione politica di Graziadio Luzzatto lo conduce a militare nel partito del mazziniano Giuseppe Zanardelli che nello stesso 1848 aveva organizzato l'insurrezione bresciana con gli stessi obiettivi di Kossuth:  libe¬razione dal giogo austriaco e aper¬tura democratica ad un XIX secolo rimasto troppo a lungo inchiodato nei ceppi di Metternich.
E' a Udine che il 1° giugno 1870 nasce Fabio Luzzatto.
La carriera di Fabio, dopo la laurea in giurisprudenza, si svolge tutta nell'ambito dello studio e dell'insegnamento. Dal padre ere¬dita il pensiero politico e soprattutto la schiena diritta. Ed eredita anche una certa spavalderia romantica che lo spingerà nel 1915 ad essere prima un convinto interventista e poi, quando ha già 45 anni, ad ar¬ruolarsi. Come per il padre anche per Fabio l'obiettivo è duplice, così come lo è per molti altri interventisti. Liberare il suolo italiano dalla dominazione austriaca e affacciare l'Italia alla democrazia piena, alla giustizia, alla libertà, insomma, al mondo moderno.
Fabio Luzzatto parte dunque in guerra che incomincerà da tenente nell'ottavo reggimento alpini. Resterà subito piuttosto gravemente ferito. Malgrado la possibilità di concludere qui l'esperienza bellica nell'autunno del 1916 chiede e ottiene di essere rimandato in linea. La fine della guerra lo vede pluridecorato. Gli viene conferita tra l'altro la medaglia di bronzo al Valor Militare. E' congedato a Natale del '18 con il grado di capitano.
Ma non sempre la patria, o almeno il suo governo, aveva mostrato di amarlo. Poi lo mostrerà anche molto meno.

 A 25 anni, nel 1895, quando veniva nominato professore straordi¬nario all'università di Macerata, Luzzatto era già attivo nel partito re¬pubblicano. A Macerata fondava subito l'associazione mazziniana "Il dovere". Il credo mazziniano era forse da lui un tantino interpretato nella parte più rivoluzionaria e più "sanguigna". Di Mazzini sembra pia¬cergli in parti¬colar modo il distacco sdegnoso dalla proprietà pri¬vata, e così provvede a diffondere il pensiero di Mazzini attra¬verso articoli di gior¬nali e conferenze. Luzzatto coerentemente non cesserà di affer¬mare che "il nostro compito è di promuovere la di¬stribuzione e la socializzazione delle grandi proprietà per dare all'uomo un ordine migliore di giustizia sociale". E critica du¬ramente la legisla¬zione sociale italiana. Per non parlare dell'istituto mo¬narchico.
Ecco quindi perché il 19 giugno del 1898 il rettore dell'università di Macerata gli comunicava la decisione ministeriale di sospenderlo dall'incarico e dallo stipendio. Motivo: "propaganda sovversiva".
Luzzatto, che era già un sottile giurista, non ebbe difficoltà a impu¬gnare la decisione del ministro, presa senza nemmeno sentirlo e su labili basi: rapporti anonimi, voci, "si dice" Succede.
 Fatti precisi e reati in cui potesse essere in¬corso, il ministero della Pubblica Istruzione non riuscì a tirarne fuori. Che leggi ho infranto? Di quali crimini mi sono mac¬chiato? Questa la linea difensiva di Luzzatto. Le idee repubblicane, va bene, e allora? Lotta democratica e che oggi si chiamerebbe non-violenta contro le violazioni costituzionali dello Stato. Partiti sovversivi? Ma quali e dove e come?
Un mese più tardi il decreto del ministro venne ritirato e Luzzatto reintegrato nell'incarico, anche se da quel momento in poi, fino all'ingresso dell'Italia nella prima guerra mondiale quando, come abbiamo visto, il do¬cente repubblicano e interventista proverà con i fatti il suo pa¬triot¬tismo, Luzzatto sarà sorvegliato dalla polizia.
Ma a spingere il ministero a ritirare il decreto è anche il rapporto su Luzzatto che manda a Roma il prefetto di Macerata che apprezza il carattere dell'inquisito. In città, scriveva il pre¬fetto, tutti lo stimano e lo tengono in conto di grande studioso. Fa vita riti¬rata e di famiglia, ha frequenti rapporti solo con i suoi studenti, dai quali è unanimemente apprezzato per le sue doti umane oltre che per la sua scienza. Unico neo è l'amicizia con Pietro Natali, capo del partito repubblicano di Macerata, dove Luzzatto è iscritto ed ha una grande influenza. Però, aggiungeva il prefetto, Luzzatto è uomo di pensiero e non d'azione, perciò non può rappresentare alcun peri¬colo per il governo e le istituzioni. Questa, con le sue luci e le sue ombre, è l'Italia che si affaccia al XX secolo. E questo è Fabio Luzzatto.
Si può perciò capire come con la sua storia, famigliare e personale,  Luzzatto, che pure ad un certo momento della sua vita è stato vi¬cino, come si è visto, ai nazionalisti, sul fascismo non s'illuda nem¬meno un momento e vi si opponga fin dal principio.
E' vero, come i nazionalisti, Fabio Luzzatto aveva creduto alla ne¬cessità che l'Italia entrasse in guerra contro l'Austria, sia per far tornare alla patria le "terre ir¬redente", sia per stabilire un ordine sociale più giusto. E in questo sembrava essere assai vicino alle va¬ghe aspirazioni del primo fa¬scismo, anche se ben lontano da quel nazionalismo esaspe¬rato ed a quella non meno esa¬sperata visione rivoluzionaria del so¬cialismo.
Attenzione, Luzzatto scrive queste cose nel gennaio del 1922: la "marcia su Roma" avverrà da qui a pochi mesi, e nessuno, nemmeno tra i fascisti, nemmeno lo stesso Mussolini, ha la minima idea che qualcosa di simile possa capitare.
A maggio del '22 Fabio Luzzatto scrive che non è ancora troppo tardi perché tutte le forze sane del paese ribellino alla violenza fascista e la blocchino. Luzzatto ritiene di avere capito: sono caduti gli obiettivi giustizialisti, progressisti, rivoluzionari e socia¬listi della propaganda fascista, sacrificati agli interessi degli agrari della pianura padana che hanno bisogno invece d'intimidire i brac¬cianti e difendere le loro terre dalla  minaccia (spesso insoppor¬tabilmente parolaia) dei socialisti massimalisti e di un ancora neo¬nato partito comunista. Obiettivi, dice Luzzatto, sacrificati a quegli interessi perché il movimento, il partito fascista ha bisogno di soldi. Come ne hanno bisogno gli altri partiti, è vero, ma quello fascista è giovane, non è ancora riuscito a insediarsi negli ingranaggi econo¬mici né in quelli sociali del paese. I fascisti non sono ancora arrivati alle poltrone che contano e a quelle che un giorno si chiameranno "tangenti".  Gli agrari invece sono in condizione di pagare il racket fascista. E sono in grado di pagare i fascisti anche (e più) i  grandi industriali che si sentono minacciati dalla marea montante dei disoccupati, di co¬loro che hanno dato molto alla patria e che in cambio si trovano ora in mezzo ad una strada perché non c'è più bisogno di costruire ordi¬gni di guerra. E minacciata si sente pure la Chiesa che finirà per be¬nedire i gagliardetti neri con i loro teschi e tibie incrociate, garanti dell'ordine e della fede contro il marxismo ateo e un immaginario, im¬probabile assalto bolscevico.
Contro la violenza, non sempre solo verbale, della sinistra massima¬lista ita¬liana, si schiera anche il mazziniano Luzzatto. Non bisogna certo ce¬dere all'idea, scrive nel '22 Luzzatto, che sia solo la violenza il mezzo più adeguato per raggiungere il fine. Ma noi, scrive, stiamo per soc¬combere ad una anarchia ben più pericolosa.
Luzzatto è profetico, perché la marcia su Roma ci sarà e ci sarà anche l'incarico del re Vittorio Emanuele III a Mussolini.
Luzzatto però non demorde. E' tra i fondatori, e diverrà presidente della sezione milanese, della "Associazione italiana per il controllo democratico" un organismo che si propone come superpartitico o apartitico, il cui scopo è di rafforzare la coscienza democratica nei più ampi strati della popo¬lazione. E' un tentativo estremo (e pateticamente inutile) di raggruppare tutte le forze di opposizioni al fascismo che solo l'insipienza dei partiti politici italiani farà consoliderare al potere.
Le riunioni degli aderenti al movimento si svolgono nell'appartamento milanese di Luzzatto, che è docente di Legislazione rurale al Regio Istituto Superiore Agrario. L'Istituto è una Università sui generis perché dipende dal ministero dell'Agricoltura e non da quello della Pubblica Istruzione. La sua successiva scomparsa avrebbe creato dopo la guerra problemi buro¬cratici al momento di reintegrare in cattedra Luzzatto.
Alle riunioni di casa Luzzatto partecipano alcuni bei nomi dell'antifascismo italiano, da Carlo Rosselli a Filippo Turati, da Guglielmo Ferrero a Carlo Sforza.
E così, dopo una parentesi decennale, Fabio Luzzatto torna ad es¬sere messo sotto stretto controllo poliziesco. E' il 29 giugno del 1925.
La polizia non lo mollerà più. Non è che su di lui scoprano molto.  Luzzatto continua ad essere repubblicano, dicono i rapporti, e non si fa scrupolo di professare le sue idee. E' antifascista e lo dice. Ma per scoprire le sue idee non c'era davvero bisogno di sorvegliarlo "ventiquattro ore su ventiquattro".
Luzzatto, a parte l'asfissiante pedinamento, non sembra venire sot¬toposto ad altre angherie e al¬meno in una occasione riceve anche il permesso di recarsi in Jugoslavia, dove lo conducono certe sue ricerche di studio.
Eppure ai primi di novembre del 1930 - sono passati cinque anni da quando l'OVRA, la polizia politica del regime, si è messa a seguirlo passo passo - Fabio Luzzatto viene improvvisamente arrestato. Il reato che gli viene contestato è: tentativo di riorganizzazione di una loggia massonica.
L'8 novembre il responsabile del R. Istituto Superiore Agrario, se¬na¬tore Angelo Menozzi, comunica al ministero dell'Educazione Nazionale che Luzzatto "è in istato di arresto da parecchi giorni. Sarà mia cura di informarmi circa le vicende future e di avvisarne il Ministero per gli eventuali provvedimenti".
Il 15 novembre il Regio Istituto chiede al ministero dell'Interno "di volere con cortese urgenza fornire notizie sull'arresto del predetto professore, affinché si possano subito adottare a suo carico quei provvedimenti di carattere provvisionale che si rendano necessari".
Alla fine però una "Riservata" del ministero della Educazione Nazionale chiude l'incidente. "Nessun elemento è risultato a carico del Prof. Fabio Luzzatto", per cui "è stato rimesso in libertà".
Per concludere, ecco il 25 novembre la comunicazione del ministero dell'Interno a quello dell'Educazione Nazionale: "In relazione alla nota 15 corrente N° 20086 di codesto On. Ministero, si ha il pregio di riferire che il Prof. Fabio Luzzatto, Direttore del R. Istituto Superiore Agrario di Milano, fu arrestato perché sospetto di attività tendente a ricostituire gruppi massoni. Non essendo però emersi dalle indagini esperite elementi positivi a suo carico, si è proceduto alla di lui escarcerazione".
Vero è che in altri regimi totalitari il solo sospetto avrebbe costi¬tuito motivo più che sufficiente ad eliminare fisicamente il sospet¬tato, men¬tre la magistratura italiana, a parte il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, cioè il tribunale fascista, in questi anni Trenta, anche in pieno regime totalitario, continua a chiedere prove prima di condannare. I sospetti non bastano e qualche indizio neppure. E ai pentiti - un secolo prima gli "impuniti" nello Stato pontificio - non si fa ancora ricorso.
 Eppure, che Luzzatto sia stato e sia massone (continuerà ad esserlo dopo la fine del fascismo) è vero. Né Luzzatto ha mai fatto qualcosa per nasconderlo. Ma è difficile considerare la massoneria come un reato.
Si dice che alla base dell'arresto di Luzzatto vi sia una delazione di quel Carlo Del Re di cui Ernesto Rossi ha lasciato un ritratto preciso nel suo libro apparso negli anni Cinquanta "Una spia del re¬gime".
Sembra che l'arresto di Luzzatto sia stato una vendetta di Carlo Del Re nei confronti del docente udinese perché indispettito dal suo fermo rifiuto di rivelare i nomi dei "complici". Ma complici di che? Si tratta di nomi peraltro be¬nissimo noti alla polizia perché tutti gli incontro di Luzzatto erano puntualmente registrati.
Fabio Luzzatto viene rilasciato giusto in tempo per essere messo con le spalle al muro: o giuri fedeltà al regime fascista o lasci l'università.
Luzzatto rifiuta di giurare e comunica verbalmente questa sua de¬cisione al rettore che a sua volta ne informa il ministro.
Il 12 dicembre 1931 il ministro dell'Educazione Nazionale scrive la stessa lettera che perviene agli altri undici professori ribelli. "La S.V. per essersi rifiutata di prestare il giuramento prescritto (....) si è posta in condizioni d'incompatibilità con le generali direttive politi¬che del Governo e perciò sarà proposta per la dispensa dal servizio (.....). La S.V., ove creda, potrà far pervenire le proprie deduzioni a questo Ministero entro il giorno 16 corrente..". Dunque davvero po¬chissimi giorni.
Ma Fabio Luzzatto è un giurista. E "deduce". Il 15 dicembre invia a Giuliano una nota nella quale sostiene l'irritualità  e l'inconsistenza della delibera ministeriale.
Dice in sostanza che il RDL del 28 agosto 1931, quello che imponeva il nuovo giuramento riveduto e corretto rispetto al precedente del 1927, "non può avere effetto retroattivo". Cioè: che i nuovi giurino, se proprio volete imporglielo, ma noi abbiamo già giurato (Luzzatto lo ha fatto nel 1928). Tanto più che nel nuovo giuramento non c'è "nulla di diverso" dall'altro.
A ben vedere, sì, qualcosa di diverso c'è, e Luzzatto lo dice: "Questo secondo giuramento attesta fedeltà al regime, cioè la propria fede fascista". Ma "il sottoscritto non crede di essere in condizioni di in¬compatibilità con le generali direttive politiche del governo, se an¬che non professa la fede fascista. Crede il sottoscritto che non sia in¬compatibile con le generali direttive politiche del Governo il rispetto alla libertà della ricerca scientifica e dell'insegnamento della verità; e crede che la libertà d'insegnamento sia indispensabile requisito per la ricerca e la propagazione della verità, dovere supremo dell'insegnante. Crede quindi che sarebbe fare offesa al Governo ri¬tenerlo nemico della verità (...ma) poiché il sottoscritto non è di fede fascista, sarebbe una menzogna giurare quello che egli non crede....".
A dire il vero, aggiunge per inciso,  sarebbe difficile anche sostenere la necessità di avere una fede fascista in una cattedra di Legislazione rurale, una materia sulla quale il fascismo non aveva nemmeno for¬mulato un'idea politica.
Nel '31 la posta deve funzionare bene, se questa lettera di Luzzatto, scritta il 15 dicembre, l'indomani stesso può arri¬vare a Roma, ve¬nire letta il 19 dal ministro e da questi essere presen¬tata al Consiglio dei Ministri con la raccomandazione di respin¬gerne le mo¬tivazioni.
Detto fatto, il 1° gennaio del 1932 Luzzatto è collocato a riposo, ma senza avere raggiunto il massimo della pensione.
Fabio Luzzatto ha moglie e quattro figli adulti, come dire quasi nessuno a carico, visto che i tre maschi hanno rispet¬tivamente 29, 23 e 19 anni e la femmina 28.
Se l'estromissione di Volterra ed Errera poteva essere nascosta die¬tro il dito dell'anzianità massima e dell'età (71 anni entrambi), con Luzzatto, che nel '31 di anni ne ha 61, l'escamotage non funziona. La notizia della sua espulsione dall'università fa rapidamente il giro d'Italia. I suoi studenti gli tributano un caloroso e commosso saluto che ovviamente non è privo di implicazioni politiche, anche perché il loro professore non teme, durante la sua ultima lezione, di spie¬gare i veri motivi del suo esodo. Il suo allontanamento dall'università non suscita nei suoi colleghi una analoga emozione. Per lo meno non ne è rimasta traccia.
Dopo il ‘38
Quasi otto anni più tardi, il 10 giugno del 1939, Luzzatto perde an¬che gli altri mezzi di guadagnarsi da vivere come ricercatore e do¬cente privato. Il rettore dell'università statale di Milano, l'anatomologo e istopatologo Alberto Pepere, in odore di imminente laticlavio, gli comunica che anche l'abilitazione all'insegnamento gli è stata disconosciuta in quanto "di razza ebraica" e quindi non può insegnare nemmeno privatamente, giusto il decreto ministe¬riale del 18 marzo 1939.
Braccato dai tedeschi dopo il crollo del fascismo e l'invasione se¬guita alla resa dell'Italia l'8 settembre del 1943, Fabio Luzzatto riesce a mettersi in salvo con la famiglia in Svizzera, dove resta per tutta la durata della guerra.
La permanenza forzata in Svizzera gli consente di studiare a fondo il sistema confederale svizzero, che diventerà il modello politico da lui poi teorizzato nel quadro - non contraddittorio - di una sorta di Stati Uniti del Mondo federati o confederati e garanti di pace e di li¬bertà democratica.
L'intuizione più profonda di Luzzatto è che solo una limitazione dei diritti sovrani degli Stati potrebbe garantire un equilibrio mondiale basato sulla giustizia e sulla democrazia.
Ma intanto, al rientro di Luzzatto in Italia nel 1945, il prorettore dell'università di Milano Mario Rotondi chiede al ministro della P. I. del tempo, Vincenzo Arangio Ruiz, che venga annullato il decreto di forzato collocamento a riposo di Fabio Luzzatto e la sua reinte¬gra¬zione nei ranghi dell'università. Luzzatto ha ora davvero superato i li¬miti d'età per riprendere l'insegnamento (nel 1945 ha 75 anni), ma l'arbitrio viene cancellato, anche se ormai quasi soltanto formal¬mente.
Luzzatto non smette peraltro di occuparsi di politica e di scrivere. E' anche attivo nella sua loggia massonica, dove lo festeggiano in modo particolare in occasione del suo 83mo compleanno. E' il 1953.
Luzzatto rivolge ai partecipanti quelle che probabilmente sono le sue ultime parole pronunciate in pubblico. Spiega qual è e quale è sempre stata la sua etica personale che coincide - Luzzatto è ebreo - con la sua visione dell'ebraismo. La mia religione, dice, non ha dogmi né intolleranze. Essa "rispetta tutte le religioni e le tollera tutte, ma nella dedi¬zione alla verità e nella ricerca pratica della verità" che, dice Luzzatto, è al di sopra di tutto. La felicità forse non è raggiungi¬bile, aggiunge, ma se volete avere la coscienza tranquilla e la massima serenità possibile, lo scopo della vostra attività deve es¬sere posto al di fuori di voi stessi, al servizio degli altri. E per qu¬anto attiene alla politica, è imperativo che "la nostra attività vada nella direzione di coloro che devono essere liberati dalla schiavitù del bisogno".
Il 18 giugno del 1954 Fabio Luzzatto muore ottantaquattrenne. I suoi resti riposano nella città in cui era nato, Udine.


http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

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