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Il Messaggero Rassegna Stampa
06.09.2020 Tono ostile, omissioni, giudizi non motivati: chi è contro l'accordo tra Israele e Stati arabi sunniti del Golfo?
Il pessimo pezzo di Alessandro Orsini

Testata: Il Messaggero
Data: 06 settembre 2020
Pagina: 20
Autore: Alessandro Orsini
Titolo: «A chi giova l'accordo Israele-Arabia Saudita»

Riprendiamo dal MESSAGGERO di oggi, 06/09/2020, a pag.20, con il titolo "A chi giova l'accordo Israele-Arabia Saudita" l'analisi di Alessandro Orsini.

Alessandro Orsini, docente dell'Università Luiss, a Roma, oggi scrive un articolo in cui mette in discussione le positive conseguenze dell'accordo tra Israele e Emirati arabi e, più in generale, tra Stato ebraico e Paesi sunniti pragmatici, a partire dall'Arabia Saudita.

Il tono e le parole dell'articolo sono di totale ostilità nei confronti di Paesi sunniti, Israele e Stati Uniti e Orsini si spinge fino a definire "finta" la pace possibile e in parte in corso di realizzaione tra Israele e Stati sunniti del Golfo. Non una parola, infine, sulla più grande minaccia alla stabilità del Medio Oriente, l'Iran degli ayatollah, a cui si sta aggiungendo la Turchia.

Ecco l'articolo:

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Alessandro Orsini, Un.Luiss, Roma

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Bin Salman

 

La normalizzazione dei rapporti tra Israele e i Paesi del Golfo potrebbe essere il primo vero successo di Trump in politica internazionale. Dopo gli Emirati Arabi Uniti, anche il Bahrein annuncia di voler abbracciare Netanyahu. Nessuno cada in inganno: la vera posta in gioco è la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, a cui il mondo islamico deve abituarsi un po' alla volta perché è cosa dirompente sotto il profilo emozionale, capace di destabilizzare un regno intero. Astuti, i sauditi mandano avanti gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, satelliti riconoscenti: il 14 marzo 2011, i soldati sauditi si sono recati in Bahrein per schiacciare la primavera araba e salvare la casa regnante. Ma quando toccherà al re saudita di stringere la mano di Netanyahu, la fitta sarà dolorosa. L'intesa è un'operazione di palazzo. Però sarebbe un successo "assoluto" per Trump, nel senso che non avrebbe termini di paragone con nessun altro suo successo in politica internazionale, visto che non ne ha riportato nemmeno uno. Sui fronti caldi, non vi è questione che Trump possa rivendicare come un "successo". In Corea del Nord, Afghanistan, Siria, Iraq, Libia, Mar Cinese Meridionale, Hong Kong, Ucraina dell'est e curdi, Trump non ha migliorato la posizione degli Stati Uniti. Semmai l'ha peggiorata, se pensiamo che la Corea del Nord è diventata una potenza nucleare sotto il suo sguardo e che il parlamento dell'Iraq ha votato l'espulsione dei soldati americani, dopo che Trump ha liquefatto il generale Soleimani con un missile nel traffico di Baghdad de13 gennaio 2020. Ma con riferimento al conflitto israelo-palestinese, le cose non potrebbero andare meglio, anzi peggio, dipende dai punti di vista.

Peggio, perché i palestinesi hanno perso la speranza di vedere riconosciuti i loro diritti sanciti dalle risoluzioni dell'Onu, che dovrebbero costituire il diritto internazionale, quel materiale plastico modellabile, a cui i grandi della Terra conferiscono la forma a loro più gradita con disinvolte digitopressioni. Meglio, perché Israele ha vinto in modo to- tale la guerra iniziata nel 1948. Immaginando che si arrivi a un'amicizia tra Israele e Arabia Saudita, nessuno potrebbe negare il successo di Trump: è lui l'artefice di questa operazione, anche se l'avvicinamento tra sauditi e israeliani è iniziato prima che conquistasse la Casa Bianca. Chi pub dimenticare le dichiarazioni rilasciate, il 19 novembre 2017, da Yuval Steinitz, ministro israeliano dell'Energia? Steinitz rivelò che israeliani e sauditi tessevano, da anni, intese segrete contro l'Iran. L'avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita risale almeno al 28 marzo 2002, quando la Lega Araba, riunita a Beirut, offri un'amicizia completa agli israeliani, se avessero concesso ai palestinesi uno Stato con capitale a Gerusalemme est e si fossero ritirati dalle alture siriane del Golan. Figuriamoci: oggi Netanyahu vuole annettere il Golan e tanta terra altrui, Cisgiordania inclusa. Per cui adesso le richieste sono altre: basta che Israele, così dicono gli Emirati Arabi Uniti, non conquisti anche l'ultimo mezzo metro di terra palestinese. Tutto qui. La resa dei Paesi del Golfo è totale e mostra il ruolo enorme della forza in politica internazionale giacché il trionfo di Israele è militare e non politico. In Medio Oriente, quasi tutto viene deciso con la forza e la politica riconosce le situazioni di fatto. E così in Libano, Yemen, Palestina, Iraq, Afghanistan, Siria e Libia. Il problema è che l'abbraccio tra Israele e i Paesi del Golfo non porrà fine al conflitto israelo-palestinese. Trump può negare che il conflitto esista, ma sarebbe come negare l'esistenza del sole, che infiamma chiunque si avvicini. Sotto la guida di Trump, l'Arabia Saudita otterrebbe un effetto e un contro-effetto: l'effetto di indebolire l'Iran grazie a un'alleanza con Israele, e il contro-effetto di rafforzare l'Iran e la Turchia in seno al mondo musulmano, che diventerebbero gli unici paladini dei palestinesi. Hamas, ancora a Gaza, assicurerebbe la prosecuzione del conflitto. Senza considerare le fiamme dell'inferno jihadista: l'Isis e al Qaeda userebbero la normalizzazione per ribadire che l'Arabia Saudita è asservita agli americani e pure agli israeliani. Per una pace vera, occorre il diritto. Però la forza va benissimo per una pace finta.

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