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Carlo Panella
Islam
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Non c’è pace senza la fine del suprematismo arabo-islamico 27/05/2021
Non c’è pace senza la fine del suprematismo arabo-islamico
Analisi di Carlo Panella

Israele, leader di Hamas proclama la vittoria nella

L’ultima guerra di Gaza, iniziata da Hamas e subìta da Israele, come tutti gli scontri sanguinosi tra israeliani e palestinesi iniziati nel 1921 ben prima che gli ebrei avessero uno Stato e un esercito, è stata scatenata da duri scontri sulla Spianata delle Moschee, detta anche Haram al Sharif o di al Aqsa. È divampata su un nodo sconosciuto all’Occidente: il suprematismo arabo-islamico nega che su quella Spianata fosse eretto, come indubbiamente fu eretto, il Tempio di Salomone, epicentro dell’ebraismo. I palestinesi che vi accorrono testimoniano nei loro slogan l’odio implacabile per gli ebrei che pretendono, a ragione, il rispetto della memoria di un luogo per loro sacro. Una negazione radicale, quanto falsa, che produce la negazione arabo-islamica del rapporto intrinseco tra Gerusalemme e l’ebraismo. Caposaldo religioso della negazione della legittimità stessa dello Stato di Israele. È questa la dimostrazione che quello non è un conflitto solo per la terra, non è e non è mai stata solo una guerra tra il nazionalismo israeliano e il nazionalismo palestinese. È un conflitto nella quale la molto invocata soluzione “due popoli, due stati” si è rivelata impraticabile perché il suprematismo religioso arabo-islamico impedisce da un secolo la pace. Il super ego arabo-islamico afferma non solo che su quella Spianata non si ergesse per nulla il Tempio degli ebrei, ma anche che la Palestina è sempre stata storicamente solo degli arabi, mai degli ebrei. Questo Islam nega incredibilmente quanto veementemente il rapporto storico e intrinseco degli ebrei con Gerusalemme e la terra di Israele. La sintesi vincente tra i palestinesi è quella di Hamas che afferma nel suo Statuto che la Palestina «è un Waqf, deposito legale, terra islamica affidata alle generazioni dell’Islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare a nessuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati Arabi insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e i presidenti messi assieme, nessuna organizzazione né tutte le organizzazioni arabe unite hanno il diritto di disporre o di cedere anche un solo pezzo di essa». E Hamas è oggi egemone sia a Gaza sia in Cisgiordania. Dunque vi è un a priori religioso, finalistico, teologico di parte palestinese e islamica che è il vero sostanziale nodo della irresolvibilitá del conflitto con gli ebrei. E questa non è la posizione solo di Hamas, ma è la base sostanziale e diffusa in tutta la Umma islamica che ha prodotto infiniti conflitti e guerre dal 1921 a oggi. L’Occidente non comprende questo punto discriminante e da questo equivoco nasce buona parte della simpatia dell’opinione pubblica per i palestinesi “oppressi da un invasore”. Sia chiaro: l’elemento nazionalista e il tema della “terra”, sin dal 1921, erano presenti e dominanti in una parte consistente, ma minoritaria, della leadership arabo palestinese, che faceva capo al clan palestinese dei Nashashibi, al re dell’Iraq Feisal e ai suoi successori sino al 1958 e al re di Giordania Abdullah. Questa componente nazionalista araba è sempre stata incline e disponibile a un accordo, a un compromesso sulla spartizione del territorio. Non le riportiamo qui, ma molteplici sono le dichiarazioni e le azioni di Feisal al Hashemi e dei suoi successori alla guida dell’Iraq sino al 1958, come di suo fratello il re di Giordania Abdullah al Hashemi, come del leader palestinese Raghib Nashashibi a favore di una pacifica spartizione territoriale tra sionisti e palestinesi.

Ma non è un caso fortuito che sia Raghib Nashashibi, nel 1941, sia re Abdullah, nel 1951, siano stati uccisi da sicari dell’islamista Gran Muftì di Gerusalemme. Sta di fatto che si impone una verità innegabile: tutte le leadership palestinesi e quelle arabe hanno marginalizzato questa componente nazionalista e hanno rifiutato tutte le soluzioni del conflitto basate sulla partizione concordata tra ebrei e arabi del territorio della Palestina. È bene ricordare l’elenco impressionante di questi rifiuti, sempre dimenticati in Occidente: 1936: la dirigenza palestinese del Gran Muftì Haji Hussein rifiuta la proposta avanzata dalla Commissione Peel della formazione di uno Stato Arabo esteso per i quattro quinti della Palestina e di un mini Stato ebraico esteso solo su un quinto del territorio della Palestina su soli 5.000 chilometri quadrati (un quarto dell’attuale Israele). 1939: la dirigenza palestinese del Gran Muftì rifiuta il Libro Bianco di Londra che esclude totalmente la nascita di uno Stato ebraico in Palestina e che prevede la formazione solo di uno Stato arabo su tutto il territorio della Palestina. La motivazione del rifiuto palestinese è l’immigrazione prevista di 75.000 ebrei dall’Europa nell’arco di 5 anni. 1947: la Lega Araba e la dirigenza palestinese del Gran Muftì, accusato dagli Alleati di collaborazionismo con Hitler, rigettano la decisione dell’Onu di fondare uno Stato arabo in Palestina accanto a uno Stato ebraico esteso su un territorio molto minore. Se avessero accettato, lo Stato arabo di Palestina esisterebbe da 74 anni e non sarebbe deflagrata la guerra del 1948, disastrosamente persa dagli arabi nonostante il rapporto di forze militari fosse di 10 a 1 a loro favore. 1949: dopo la sconfitta della guerra contro Israele, la Lega araba e la dirigenza palestinese, che è sempre del Gran Muftì nonostante si sia alleato con Hitler, rifiuta la proposta del governo israeliano di Ben Gurion di trasformare la linea dell’armistizio (Linea Verde), che esclude Cisgiordania e Gaza, in confini definitivi e riconosciuti ufficialmente dello Stato Ebraico. Questo riconoscimento avrebbe escluso la possibilità di Israele di impiantare colonie ebraiche nei Territori dopo la conquista del 1967. 1967: dopo la vittoria di Israele nella Guerra dei sei giorni, il governo di Gerusalemme propone ai paesi arabi il Piano Allon che, in cambio del riconoscimento arabo e palestinese dello Stato ebraico, prevede la restituzione di tutti i territori occupati, fatta salva una fascia di 10 chilometri nei siti più esposti di Israele (ad esempio l’aeroporto di Lod). La Lega Araba e l’Olp rifiutano la proposta ribadendo nella conferenza di Khartoum del 2 settembre 1967: nessun riconoscimento di Israele, nessun accordo con Israele, nessuna pace con Israele. 1979: Anwar el Sadat viene espulso dalla Lega Araba su istanza di Yasser Arafat (e poi assassinato dai prodromi di al Qaida) per avere firmato con Israele e con Menahem Begin gli Accordi di Camp David basati esclusivamente sul reciproco riconoscimento statuale in cambio della fine dell’occupazione israeliana del Sinai. 2000: Yasser Arafat, nonostante gli Accordi di Oslo del 1993, rifiuta la restituzione del 97% dei Territori occupati da Israele, inclusa, si badi bene, Gerusalemme Est, proposta dal premier israeliano Ehud Barak, grazie alla mediazione di Bill Clinton e lancia la disastrosa e sanguinaria Intifada delle Stragi, per i palestinesi Intifada di al Aqsa. Questo ultimo, cruciale, rifiuto di Arafat, che troppi oggi dimenticano, che ha dell’incredibile, e che Abu Mazen riconoscerá come un errore, contiene in sé non solo la conferma del fatto che il dato territoriale, la restituzione della terra araba occupata, è da sempre secondario per la dirigenza palestinese, ma rimanda al carattere insuperabilmente religioso del conflitto. L’unica motivazione che può spiegare l’incredibile rifiuto di Arafat di accettare la restituzione da parte di Israele di praticamente tutti i Territori occupati è infatti data dal suo risvolto religioso: accettandola Arafat avrebbe sigillato il riconoscimento definitivo della sovranità ebraica su Israele (confusamente implicito negli accordi di Oslo) e quindi negato il carattere di esclusiva unicità arabo-islamica della Palestina. Insomma, avrebbe violato il codice sacro all’Islam, di puro suprematismo religioso, imperniato sulla sacralità islamica e solo islamica di Gerusalemme. Si rivela, in quel rifiuto, la duplicità ambigua di un Arafat che in inglese parlava il lessico del nazionalismo e che subito dopo, in arabo, eccitava al Jihad, agli assassini kamikaze col lessico del suprematismo islamico.

Alla morte di Arafat, nel 2004, il suo successore, poi eletto da una votazione popolare nel 2006, fu Abu Mazen, che aveva criticato come avventurista la Intifada delle Stragi (di al Aqsa per i palestinesi) e che rappresentava e rappresenta la componente minoritaria nazionalista, meno obbediente al diktat islamico, del movimento palestinese. Ma la nuova leadership nazionalista fu subito ridimensionata nello stesso 2006 dalla vittoria piena di Hamas nelle elezioni politiche a Gaza. Seguì nel 2007 una guerra civile inter palestinese a Gaza con centinaia di vittime nella quale Hamas espulse o massacró i seguaci di Abu Mazen Da allora, la Palestina vive un dualismo di leadership nel quale, come sempre da un secolo in qua, la componente nazionalista disponibile alla trattativa risulta sempre più minoritaria (e nel caso di Abu Mazen corrotta e inconcludente nelle sue richieste e trattative), mentre anche in Cisgiordania si impone e acquista consensi e forza politica la componente religiosa intransigente di Hamas che nel 2008, nel 2014 e oggi ha scatenato a freddo guerre di aggressione a Israele proprio da Gaza, sempre incentrate su Gerusalemme. Noto che Gerusalemme viene definita terza città Santa dell’Islam, ma è assolutamente ignoto ai più che in essa, nella Spianata delle Moschee, è contenuta la legittimità stessa della narrazione, del Verbo del Corano. È anche poco noto un fatto che invece, come si è detto, è fondamentale: i palestinesi e gli islamici sostengono l’incredibile, il falso, ovvero che il Tempio di Salomone di Gerusalemme non è mai esistito, al massimo era collocato in un area ben diversa dalla Spianata delle Moschee. Questo perché Maometto ha definito nella XVIIa sura del Corano la piena continuità della sua profezia con quella di Abramo, quindi il suo essere il sigillo della profezia, descrivendo appunto il suo “viaggio notturno” sulle braccia dell’arcangelo Gabriele dalla Mecca alla Roccia di Gerusalemme (sulla quale si doveva consumare il sacrificio di Isacco) che si trova al centro della Spianata delle Moschee e da lì la sua preghiera assieme a Abramo, Mosé e al Cristo, quindi la sua ascensione per i sette cieli sino all’iperuranio, sino al Loto del Limite, sede della conoscenza assoluta in sella al cavallo alato al Buraq (secondo la Tradizione). Dunque, a Gerusalemme e in Gerusalemme, Maometto vede riconosciuta la validità del suo superamento, nella piena continuità, della profezia ebraico-cristiana che parte da Abramo, passa per i profeti della Bibbia e per Gesù e si conclude trionfalmente appunto col suo Corano. La legittimità della profezia di Maometto, riconosciuta dalla volontà di Allah, decade se Gerusalemme e se la Spianata non sono connaturate solo e unicamente con la narrazione coranica, se non hanno nulla a che fare col Tempio degli ebrei e quindi con l’Arca di Mosé, se non viene negata, espulsa l’impronta ebraica di Gerusalemme. E per estensione questo vale per una Palestina nella quale, negando la Storia e i riscontri archeologici, si vuole che i filistei (in realtà di origine cretese) fossero arabi (che vi giunsero solo nel 630 dopo Cristo).

Dunque, per la Umma islamica, la meta-storia coranica prevale sulla Storia. La annienta. E la meta storia-coranica nega il legame storico e intrinseco tra il popolo ebraico e Israele. Prova ne sia che dal 1948 al 1967, la Giordania che esercitava sovranità piena sulla Spianata del Tempio proibì tassativamente agli ebrei di pregare davanti al Muro Occidentale. Prova ne sono le due risoluzioni del 2016 e del 2017 proposte dai paesi arabi e purtroppo e incredibilmente approvate dalla assemblea dell’Unesco con le quali si nega ogni rapporto tra l’ebraismo e la Spianata delle Moschee o Haram al Sharif, quindi con Gerusalemme. Prova ne sono le centinaia di palestinesi morti negli scontri con le forze di sicurezza israeliane nelle proteste scatenate da Arafat per lo scavo archeologico israeliano lungo la base del muro del Tempio che dimostra fattualmente l’esistenza del Tempio di Salomone, distrutto dai romani nel 70 dopo Cristo. L’islamista Arafat definì quello scavo “una profanazione”. Tutta la dirigenza palestinese e araba, incluso Abu Mazen, per quanto riguarda Gerusalemme considera la ricerca storica pura e i fatti storici acclarati un nulla, anzi una sanguinosa offesa se contrastano o inficiano il racconto coranico. Questo suprematismo arabo islamico in spregio dei fatti e della Storia è misconosciuto e incredibilmente sottovalutato dalla opinione pubblica occidentale e da quasi tutti gli analisti. Ma è invece di importanza capitale perché su questo terreno, sulla Rivelazione, sul testo coranico, il compromesso è impossibile. E infatti il compromesso, come si è visto, sempre accettato dalla parte ebraica, è sempre stato rifiutato da quella araba. «Il Tempio? Ma io non vedo nessun Tempio!»: così nel 2000 Saeb Erekat, negoziatore palestinese degli accordi falliti di Camp David e Taba, rispondeva ironico agli interlocutori israeliani. Pure, Israele, nel 1967, riconquistata la Spianata delle Moschee, vi riconobbe la titolarità del culto islamico, riconobbe l’esclusiva titolarità sull’Haram al Sharif e sulla Moschea di al Aqsa al Dipartimento degli Affari Religiosi della Giordania e proibì agli ebrei di pregarvi, nel vano tentativo di subire una menomazione di parte ebraica per non innescare una reazione islamica. Reazione che ciononostante si è sempre innescata e sempre per iniziativa e volontà palestinese. Basti pensare che la camminata di Ariel Sharon sulla Spianata (dove si guardò bene dal pregare) fu presa a pretesto per la Intifada delle Stragi del 2000 che provocò migliaia di morti da ambo le parti. Da un secolo, dalle rivolte arabe scatenate dal Gran Muftì nel 1921, sino a oggi, sino ai razzi da Gaza, il suprematismo islamico, oggi egemone in tutti i Territori con Hamas, chiama al jihad contro gli ebrei per vendicare presunte profanazioni israeliane della Spianata delle Moschee. È questo il fulcro del contendere. È questo il nodo vero, di fondo, irrisolvibile della questione israelo-palestinese.

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Carlo Panella
Giornalista, scrittore, autore de “Il libro nero del Califfato”


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