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Diego Gabutti
Corsivi controluce in salsa IC
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'Quell’altro mondo. Nabokov e l’enigma dell’esilio', di Azar Nafisi 25/07/2022
'Quell’altro mondo. Nabokov e l’enigma dell’esilio', di Azar Nafisi
Recensione di Diego Gabutti

Quell'altro mondo. Nabokov e l'enigma dell'esilio - Nafisi, Azar - Ebook -  EPUB2 con Adobe DRM | + IBS
Azar Nafisi, Quell’altro mondo. Nabokov e l’enigma dell’esilio, Adelphi 2022, pp. 456, 26,00 euro, eBook 12,99 euro.

Una folla d’esiliati – in fuga dai regimi totalitari, comunismo, nazismo, teocrazie – popola il Novecento. Tra questi profughi, c’è Vladimir Nabokov, la cui opera, spiega in Quell’altro mondo Azar Nafisi, che a sua volta è un’esiliata, è la storia variamente modulata dell’esilio e del suo enigma nel secolo delle utopie cannibali. Gli espatriati di Nabokov, i profughi del Novecento, non sono esiliati soltanto nello spazio: lontano da casa, dalle strade in cui sono cresciuti e dalle scuole che hanno frequentato, dagli amici, dagli affetti, dalla loro stessa lingua. Sono esiliati anche nel tempo: il mondo che si sono lasciati alle spalle, dispersi dagli eventi storici non esiste più, è perduto per sempre, remoto come un ricordo via via più sbiadito e impreciso.

«In una lettera del 1920 alla madre», scrive Nafisi, «il giovane Nabokov racconta di essersi svegliato nel cuore della notte chiedendo a “qualcuno – non so chi, la notte, le stelle, Dio – se davvero non tornerò mai, se davvero è tutto finito, spazzato via, distrutto”. Implora la madre: “Dobbiamo tornare, vero? Non può essere tutto morto, ridotto in polvere: un’idea simile farebbe impazzire chiunque!” Poi confessa il proprio desiderio di descrivere e ricordare “ogni piccolo cespuglio, ogni stelo del nostro parco a Vyra, ma nessuno può capirlo... Quanto sottovalutavamo il nostro paradiso... avremmo dovuto amarlo con più forza, con più consapevolezza”».

Tutta l’opera di Nabokov nasce da queste poche righe: la nostalgia, l’indignazione, la disperazione e lo sgomento, i particolari vividamente fissati nella memoria come farfalle spillate nella teca dell’entomologo (prima di passare alla Cornell University, dove insegna per molti anni letteratura russa, Nabokov è per una breve stagione entomologo a Harvard). È ciò che in un modo o nell’altro hanno sperimentato (e ancora sperimentano) tutti gli esiliati, tra cui Azar Nafisi, già autrice di Leggere Lolita a Teheran, di Le cose che non ho detto e della Repubblica dell’immaginazione, tutti tradotti da Adelphi al pari di questo Quell’altro mondo. Appassionata interpretazione e disamina dell’opera di Nabokov, Quell’altro mondo esce in prima edizione nel 1994 a Teheran, sotto gli ayatollah («il libro fu ben accolto ma andò esaurito piuttosto rapidamente. La ristampa fu bloccata; per qualche tempo circolarono copie sul mercato nero a prezzi esorbitanti, poi anche il mercato nero esaurì le scorte»).

Nabokov lascia la Russia, dopo il colpo di mano bolscevico, insieme alla famiglia (suo padre, Vladimir Dmitrievič Nabokov, politico e giornalista liberale, segretario del governo provvisorio tra febbraio e ottobre del 1917, viene ucciso da terroristi «bianchi» a Berlino, nel 1922: ha riparato col proprio corpo Pavel Milyukov, leader del Partito democratico costituzionale in esilio, ex ministro degli esteri russo). All’avvento di Hitler, dieci anni dopo, Nabokov lascia anche la Germania (gli assassini di suo padre sono membri rispettati del partito nazionalsocialista). Destino analogo per Azar Nafisi, che raggiunge gli USA da ragazza, quando suo padre, giovane sindaco liberale di Teheran, viene deposto e arrestato dal regime dello scià Reza Pahlavi. Sono gli anni sessanta e settanta: Bob Dylan, gli hippies, la rivoluzione culturale cinese, il femminismo e le assemblee studentesche, il Black Power, il rock’n’roll; e nel 1979 anche la rivoluzione iraniana, la caduta dello scià, il trionfo di Ruhollah Khomeini. Nafisi torna a Teheran, dove nei successivi diciotto anni, prima d’un nuovo e definitivo esilio, insegna letteratura inglese.

Come lei, anche molti altri giovani iraniani in esilio, dopo la rivoluzione islamica e la caduta del tiranno, tornano in Iran, dove scoprono che c’è di peggio di Reza Pahlavi: l’imanato. Al pari d’ogni altra utopia novecentesca, anche la società perfetta dei Veri Credenti si rovescia subito in distopia: un attimo prima i Beatles cantano All You Need is Love e il Women’s Lib dilaga ovunque, e un attimo dopo la musica pop è dichiarata satanica e le ragazze tornate dall’esilio girano in chador, minacciate dal randello dei pasdaràn. È uno di quei mondi che Nakobov illustra nei suoi romanzi più direttamente impegnati a descrivere la «mentalità totalitaristica»: Invito a una decapitazione, Un mondo sinistro. «Nessuna opera di finzione», scrive Nafisi nell’introduzione del 2019 a Quell’altro mondo, «poteva competere con l’assurdità imposta dal solipsismo del regime islamico. A chi mai sarebbe venuta in mente l’idea di cancellare le figure delle ballerine dal quadro di Degas Ballerine alla sbarra in un libro d’arte, o di occultare i corpi femminili dalle riviste Newsweek e Time? Come si poteva pensare di far scomparire Olivia dai cartoni animati di Braccio di Ferro perché, non essendo sposata, è una donna dissoluta? E di mettere il velo alle galline nei libri illustrati per bambini?»

Anche in Quell’altro mondo, come in tutti i libri di Nafisi, critica letteraria e autobiografia s’intrecciano e si confondono. Leggere, infatti, e in particolare leggere i classici, non è una semplice esperienza estetica, dalla quale si esce come da una serata in discoteca: la grande letteratura è un’esperienza esistenziale, un tuffo nella vita e nei suoi sgomenti: l’orrore della carcerazione e della tortura, il tormento dell’esilio, l’euforia della libertà. Nafisi, nei suoi libri, illustra questa speciale esperienza: l’intreccio delle trame romanzesche con gli eventi direttamente vissuti. Nabokov, a sua volta, si aggira negli stessi labirinti e boschi fatati, dove il dolore e (molto) più raramente la gioia dei suoi personaggi immaginari non sono meno reali e lancinanti di quel che provano, vivendo, i suoi lettori. «Prima ancora di diventare utile a livello politico e sociale», scrive ancora Nafisi, «la letteratura, è essenziale per la nostra esistenza di esseri umani – come respirare: non ti chiedi se è necessario, respiri e basta».

Come Nabokov, autore russo che scrive in inglese e non smette di rimpiangere la propria lingua perduta, o meglio «distrutta, spazzata via» da un secolo di langue de bois comunista e postcomunista, anche Nafisi è un’autrice privata della propria lingua, che l’imanato ha trasformato in langue de bois religiosa. Due volte in fuga dal proprio paese, prima per sfuggire a Reza Pahlavi e poi ai «pazzi di dio» sciiti, è ragionando dell’opera di Vladimir Nabokov – dove «si dà voce a un’esistenza profondamente traumatica e tormentata, a una sensazione di perdita irreparabile» – che Nafisi racconta se stessa e il «mondo sinistro», la terra dei decapitati, che quarant’anni fa ha preso il posto del suo paese, ormai irreparabilmente, traumaticamente perduto nel tempo.

«Ci sentivamo minacciati», scrive, «non soltanto dalla dittatura politica (non si trattava semplicemente di politica, di qualcosa che un romanzo sociale e rivoluzionario potesse descrivere) ma anche dal fatto che la mentalità totalitaristica s’era insinuata negli angoli più privati della nostra vita, al punto da trasformare in dichiarazioni politiche i nostri gesti più personali: tenersi la mano in pubblico, portare la cravatta, mostrare una ciocca di capelli. I confini tra pubblico e privato, tra politico e personale erano sottili o inesistenti. Ancora più spaventoso era il pericolo che noi, vittime di questa mentalità totalitaristica, potessimo anche senza volerlo assumere gli stessi atteggiamenti, adottare le stesse tattiche e la stessa retorica, diventare altrettanto ciechi e inflessibili verso il prossimo».

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Diego Gabutti

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