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Diego Gabutti
Corsivi controluce in salsa IC
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I soldati delle parole 15/09/2020
I soldati delle parole
Recensione di Diego Gabutti

una ciliegia tira l'altra: I soldati delle parole
Frank Westerman, I soldati delle parole, Iperborea 2017, pp. 330, 18,50 euro, eBook 9,99 euro.


Come fermare la mano del terrorista prima che prema il grilletto o tagli la gola del suo prigioniero? Trattando, naturalmente, anche se trattare non ha sempre funzionato, e nell’epoca del jihadismo, del terrorismo suicida e delle ideologie finalmente svelate trattare non funziona semplicemente più. Svelata e messa a nudo, l’ideologia si mostra per quel che è sempre stata, e che è tornata a essere senza stare più lì a indossare il costume da Arlecchino della ragion politica: religione, dogma metafisico, superstizione. Così, al suo turno, la religione: nuda e cruda, mentre agita nell’aria turiboli e scimitarre, anch’essa si mostra per quel che è, cioè come una forma della politica. Non c’è Allah dietro l’attentato religioso, ma c’è la tradizione del terrorismo moderno, un terrorismo «laico» (diciamo così) cresciuto a dimensione apocalittica. A monte del jihadismo ci sono gli attentati anarchici, Mazzini, la Banda Bonnot, i nichilisti russi; c’è Il catechismo del rivoluzionario di Michail Bakunin e Sergej Nečaev («conosciamo una sola scienza, la scienza della distruzione»); ci sono i campi di sterminio hitleriani, le miniere della Kolyma, quindi le bande armate nate sulle barricate sessantottesche; ci sono Che Guevara e Fídel Castro, Mao e Pol Pot. È quella la fonte del jihadismo, il suo albero genealogico o (meglio ancora) la sua storia naturale, come spiega Frank Westerman con accuratezza: «La letteratura specialistica distingue quattro generazioni di terroristi, a cominciare dai nichilisti russi dell’Ottocento, che produssero anarchici contrari a ogni forma d’autorità. Gavrilo Princip si fece ispirare da loro: il suo nome e il suo colpo di pistola risuonano oramai da più d’un secolo. L’erede legittimo si fece attendere fino al 1950, incarnandosi nel guerrigliero del terzo mondo che, ispirato da Che Guevara e dalla rivoluzione cubana, iniziò la lotta contro i regimi repressivi, coloniali e non.

La terza generazione di terroristi era formata da babyboomer provenienti da vivai europei. Baader-Meinhof, Action Directe, le Brigate Rosse, con diramazioni e connessioni con l’OLP e l’Armata Rossa giapponese. Erano cellule senza dio che prosperavano nel substrato delle università occidentali, dove la democratizzazione si spinse fino al punto che gli studenti più radicali “democratizzarono” anche il monopolio statale della violenza. La culla della quarta generazione del terrore si trova ai margini meridionali dell’impero russo, in Afghanistan e nel Caucaso. ISIS, Boko Haram, Al Qaeda, Al-Shabaabm, Talebani. Ciò che accomuna queste formazioni dai nomi più svariati è il jihadismo derivato dal profeta Maometto». Se i terroristi ideologici, loro padri e nonni, avevano la Storia e la Razza dalla loro parte, i nuovi terroristi sono ispirati direttamente dal cielo: in missione per conto di Dio, come i Blues Brothers. E non c’è naturalmente che un modo di fermare il terrorista religioso: convincerlo che dio non esiste e che, se anche esistesse, non avrebbe bisogno che un tagliagole psicopatico del suo stampo gli facesse da portavoce e ufficio stampa, come Rocco Casalino a Giuseppe Conte. Ma naturalmente è proprio da quest’orecchio che il fanatico pazzo di dio (e chiunque, per la verità, soffra di turbe religiose, comprese le più innocue) non ci sente. Una pallottola in testa a chi osa anche soltanto insinuare un dubbio sulla Vera Natura del Mondo. È a raffiche di kalashnikov, indossando giubbotti esplosivi e sgozzando ostaggi che il buon jahadista insegna l’Infinita Misericordia di Dio agl’infedeli. Se con lui non si discute, figurarsi con Lui. Adorarlo o morire. Idem le ideologie, ai tempi loro, e là dove ancora sopravvivono: giusta origine di classe, e immacolata genealogia «razziale», o togliersi di mezzo, estirpati come male piante, schiacciati come scarafoni e infine scaricati in quell’immondezzaio della storia che Trotskij evocò per i suoi nemici e poi («specchio riflesso», come dicono i bambini) fu lui a finirci dentro. Eppure, come racconta sempre Frank Westerman nel suo I soldati delle parole, un libro particolarmente bello e importante che io segnalo qui con colpevole ritardo, c’è stato un tempo in cui con i terroristi si negoziava. I terroristi prendevano ostaggi – come da noi le Brigate rosse, in Germania la Banda Baader-Meinhof, Settembre Nero (la Spectre dell’OLP) ovunque ci fossero israeliani da ammazzare, l’esercito di liberazione (o comunque si chiamasse) dei «molucchesi del sud» in Olanda.

Presi gli ostaggi, i terroristi ne accoppavano subito qualcuno sparandogli tra gli occhi, in una tempia, nella schiena (serviva a dimostrare che facevano «sul serio», come dichiaravano a muso duro nei loro comunicati). Dopo questa simpatica ouverture, finalmente cominciava il negoziato per decidere il destino degli ostaggi ancora in vita (vogliamo un Boeing 777, dieci milioni di dollari, la liberazione di trenta prigionieri politici, ma soprattutto «la pace nel mondo», come cinguettano le reginette di bellezza). Prima dell’11 settembre, prima dell’ISIS, c’erano «le trattative», c’erano «i negoziatori» e la cultura del «do ut des». C’era ancora (esagerando) qualche brandello di civiltà. Non era, intendiamoci, un terrorismo dal volto umano (basta guardare in faccia il comunista Cesare Battisti, un assassino con la faccia da assassino, per capire che di «volti umani», dentro e fuori metafora, qui non c’è traccia). Ma era un terrorismo che si poneva obiettivi apparentemente «realistici» (l’umiliazione del nemico di classe, una borsata di dollari, l’apertura dei telegiornali, poi su un aereo e via). Era un terrorismo col quale si poteva (tra due enormi virgolette) «comunicare». C’era la guerra fredda e il terrorismo ne era la frontiera estrema. Utopisti, gli assassini ideologici della seconda metà del Novecento anelavano a un’utopia pratica, già ampiamente realizzata nel paese delle meraviglie, delle code per il pane e dei piani quinquennali, oltre le cortine di ferro e di bambù. Saggista e storico di grande talento, ma soprattutto olandese, Westerman racconta la storia delle azioni dei molucchesi del sud (citati più sopra).

Maltrattati dal governo olandese, che non aveva concesso loro l’indipendenza, scuri di pelle e crespi in un mondo di biondi altezzosi, i molucchesi del sud avevano le loro ragioni per lamentarsi e protestare, come le abbiamo tutti, chi più chi meno, ma nulla che giustificasse le azioni armate dei gruppuscoli di baciapile (indiavolati, ma pazzi per Gesù) che negli anni settanta dello scorso secolo assaltarono ben due treni e una scuola elementare prendendo in ostaggio pendolari, macchinisti, insegnanti e scolaretti. Fecero un numero spropositato di morti: ogni vittima, un fucile puntato alla testa, era invitata a mettersi umilmente in ginocchio e a pregare l’Altissimo, di fronte al quale stava per presentarsi. Al-Baghdadi e Bin Laden, all’epoca, erano ancora bambini; Allah non era stato ancora convocato dai suoi autoproclamati Califfi e Mahdi, ma già c’era odore d’incenso e d’esplosivo al plastico nell’aria. È in Olanda, quando viene sequestrato il primo treno e i molucchesi uccidono i primi ostaggi, che un paio di psichiatri, gelosi l’uno dell’altro e in concorrenza tra loro, inventano la «trattativa». Sono i negoziatori originari, ma già al secondo assalto, un paio d’anni dopo, quando i terroristi cristianissimi prendono in ostaggio più di cento bambini, si deve intervenire di prepotenza, ricorrendo alle forze speciali. Rimpianto, e tuttavia ormai difficilmente utilizzabile, il «metodo olandese» viene sostituito dal «metodo russo»: Vladimir Putin risponde agli efferatissimi attentati ceceni radendo al suolo la capitale della Cecenia – Groznyj, una parola che in lingua cecena sta per «terribile» – e lasciando sul terreno (si dice) più di centomila morti. È una risposta certamente sproporzionata, per quante centinaia di morti avessero causato i fondamentalisti ceceni (a proposito di genealogia: il leader jihadista Shamil Basaev, prima d’autonominarsi Califfo ceceno, era un dichiarato ammiratore di Che Guevara, cane infedele se mai ce n’è stato uno). Ma nell’età del terrore religioso, l’età dei regimi terroristici, quando la civiltà della parola boccheggia e muore, la risposta sproporzionata è diventata, come sappiamo, una delle risposte possibili. Salute a noi.

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Diego Gabutti

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