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Diego Gabutti
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Camilleri e Sciascia 24/07/2019

Camilleri e Sciascia
Commento di Diego Gabutti

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Andrea Camilleri, Leonardo Sciascia

Come sempre, nelle celebrazioni in mortem di questo o quell’idolo politico si passa rapidamente, un’iperbole tirando l’altra, dall’esagerazione all’ubriachezza molesta. È successo con Andrea Camilleri, giallista di gravosa lettura, e con Francesco Saverio Borrelli, padre nobile di Mani Pulite (il magistrato che prima ha rivoltato l’Italia come un calzino e poi, guardandosi intorno vent’anni più tardi, se ne è pentito). Nessuno dei due è celebrato per le sue vere imprese: le inchieste giudiziarie, le trame poliziesche. Quel che si osanna è il loro ruolo nell’immaginario della sinistra e dei «giornaloni». Camilleri era comunista (che già non è bello) e se ne vantava (con tutta evidenza un’aggravante, salvo che per Repubblica e per il Corriere). Quanto a Borrelli, ha spazzato via i partiti della prima repubblica, spianando la strada a quello che per un momento (prima che sull’orizzonte si profilasse l’ombra del Cavaliere) sembrò l’inevitabile trionfo del solo partito superstite, l’ex PCI di Veltroni, Occhetto e D’Alema. È di questo che parlano i necrologi quando celebrano la «grande professionalità» del magistrato e «la prosa densa e leggera insieme» del giallista siciliano. Ridotti a bandiere di partito, i due garriscono al vento della cattiva retorica. A Borrelli, che in famiglia (ricorda la figlia Federica) non era chiamato «Saverio» ma «Severio», si perdona l’invito a «resistere, resistere, resistere» (contro Silvio Berlusconi e le sue Olgettine sculettanti, mica contro l’ISIS o la Gestapo) rivolto ai colleghi magistrati inaugurando, nel 2002, il suo ultimo anno giudiziario prima della pensione. A Camilleri si perdona anche di peggio: la coltellata alla schiena di Leonardo Sciascia, l’amico scomparso, che per primo aveva apprezzato, pubblicato e addirittura imposto, miracolandolo, i suoi libbru giallu in lingua siculo-barocca.

Del Giorno della civetta, un romanzo che da solo vale due volte l’opera omnia di Camilleri, ’u patri (avrebbe detto lui) del commissario Montalbano disse una volta che «è uno di quei libri che non avrei voluto fossero mai stati scritti. Ho una mia personale teoria. Non si può fare d’un mafioso un protagonista, perché diventa un eroe e viene nobilitato dalla scrittura. Don Mariano Arena, il capobastone del Giorno della civetta, giganteggia. La sua classificazione degli uomini – omini, sott’omini, ominicchi, piglia ’n culo e quaquaraquà – la condividiamo tutti. Quindi finisce con l’essere indirettamente una sorta d’illustrazione positiva del mafioso e ci fa dimenticare che Don Mariano è il mandante d’omicidi e fatti di sangue. Questi i pericoli che si corrono quando si scrive di mafia. La letteratura migliore per scrivere di mafia sono i verbali dei poliziotti e le sentenze dei giudici». Realismo socialista senza rete: «la letteratura migliore sono le sentenze», la disumanistica «classificazione degli uomini» esposta da Don Mariano – mandante «d’omicidi e fatti di sangue», come se gli omicidi e i fatti di sangue fossero cose distinte tra loro – «la condividiamo tutti» (e invece no, la condivideranno Camilleri e i suoi fan, ma io al razzismo e al superomismo classista, mitafisicu, bioluggico e mafiusu preferisco il buon vecchio illuminismo, si possu dirlu sienza sgarbu per nessuno). Don Mariano «nobilitato dalla scrittura»? E allora il Lucifero di Milton? E i nichilisti di Dostoevskij? E il Joker? Giganteggiano, nella storia della letteratura alta e pop, ben più di Don Mariano, per non parlare di Don Salvo (Montalbano).

Eppure, mai nessuno ha osato accusare John Milton e Dostoevskij (o Batman) di concorso esterno in associazione criminale e satanista. Morale: raramente si sono infilate, in un solo giudizio critico, tantu e persino truppu minchiunarìa, come avrebbe detto sempre lui, il «maestro di libertà» (ma anche un po’ di grullerie) celebrato da Repubblica, giornalone ormai completamente passato al nemico: la panna montata, diu ’nni scanza e libira. Colpiti entrambi dal colpo alla nuca della melensaggine retorica, Borrelli e Camilleri un po’ se la sono cercata (sia detto, anche qui, sienza sgarbu, ma per amor del vero). Nominandoli da vivi, entrambi si sono beati del ruolo di simboli della buona battaglia: la guerra totale alla prima Repubblica e ai berluscones. Mentre Borrelli è il magistrato che, come direbbe Camilleri, ha scritto «la migliore letteratura» sulla storia italiana attraverso verbali e sentenze, salvo poi dolersene, il giallista di Porto Empedocle è l’uomo che si è ribellato all’idea che la lingua italiana – pi curpa («per colpa» in lingua volgare) d’Alessandro Manzoni, un altro romanziere cullusu e forse persino punciutu, che aveva dato le sue battute migliori a quel mammasantissima dell’Innominato – dovesse sciacquare i suoi panni in Arno. Non nell’Arno, ma nel fiume Magazzolo, che nasce al Monte Castelluzzo e sfocia presso il Capo della Secca, tra Calamonaci e Agrigento, doveva nàsciri e lavari le piezze la grande letteratura italiana. Questo per dire che le iperboli delle celebrazioni post mortem bisognerebbe non guadagnarsele in vita.

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Diego Gabutti
Già collaboratore del Giornale (di Indro Montanelli), diSette (Corriere della Sera), e di numerose testate giornalistiche, corsivista e commentatore diItalia Oggi, direttore responsabile della rivista n+1 e, tra i suoi libri: Un’avventura di Amadeo Bordiga (Longanesi,1982), C’era una volta in America, un saggio-intervista-romanzo sul cinema di Sergio Leone (Rizzoli, 1984, e Milieu, 2015); Millennium. Da Erik il Rosso al cyberspazio. Avventure filosofiche e letterarie degli ultimi dieci secoli (Rubbettino, 2003). Cospiratori e poeti, dalla Comune di Parigi al Maggio'68" (2018 Neri Pozza ed.)


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