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Diego Gabutti
Corsivi controluce in salsa IC
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Breve storia della diplomazia segreta russa 15/07/2019

Breve storia della diplomazia segreta russa
Commento di Diego Gabutti

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David Urquhart

Fu sulla Free Press di David Urquhart, un tory scozzese tra i più reazionari del suo tempo, che Karl Marx pubblicò Le rivelazioni sulla storia diplomatica segreta del XVIII secolo (L’Erba Voglio 1978, a cura di Bruno Bongiovanni). Era un pamphlet violentemente russofobo, che i marxisti, trasformatisi in robot marxleninisti e russocentrici dopo il colpo di stato del 1917 a Mosca e San Pietroburgo, bandirono dal canone, insieme alla memoria della collaborazione tra Marx e quel suo strano editore. Islamofilo, un oscurantista fatto e finito, Urquhart era «un vecchio tricheco irascibile, con baffi sbilenchi, cravatta a farfalla sbilenca e opinioni ancor più sbilenche» (così lo descrive Francis Wheen nel suo Karl Marx, Isbn Edizioni 2010). Lui e Marx, politicamente agli antipodi, non avevano niente in comune, salvo un’ossessione: erano entrambi nemici giurati e furibondi della politica filorussa di Lord Palmerston, a lungo plenipotenziario della politica estera inglese.

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Da sinistra: Marx, Engels, Lenin, Stalin, Putin

A Lord Palmerston Marx dedicò molti articoli feroci. Mentre le Rivelazioni riassumevano a grandi linee la politica estera russa attraverso omnia saecula saeculorum mettendo in guardia la Corona dai traditori politici che guardavano con simpatia il dispotismo zarista (e che probabilmente intascavano tangenti dalla Moscovia, come tuonava Urquhart nei suoi discorsi pubblici e privati) gli articoli che Marx scrisse su Lord Palmerston spiegavano in che cosa di preciso consistesse la diplomazia russa: intrigo e corruzione. Lord Palmerston – rivelò Marx sul People’s Paper del 19 dicembre 1853 ¬– «era venuto in possesso di documenti, tenuti nascosti al resto del mondo, che non lasciavano dubbi sulla natura dell’onore e della buona fede russa. Erano in suo possesso le autoconfessioni dei principali ministri e diplomatici russi che, una volta liberatisi dai loro paludamenti, avevano reso noti i loro pensieri più segreti, svelando apertamente i loro piani di conquista e di dominio, facendosi sprezzantemente beffe della stupidità e credulità delle corti e dei governi europei, schernendoli e architettando, col brutale cinismo del barbaro mitigato dall’ironia feroce del cortigiano, come seminare diffidenza verso l’Inghilterra a Parigi, contro l’Austria a Londra e contro Londra a Vienna, come aizzare gli uni contro gli altri e ridurre tutti a meri strumenti della Russia». Meno di settant’anni più tardi, per un’ironia particolarmente beffarda della storia, il testimone della politica estera zarista passò ai seguaci russi di Marx, un russofobo, nemico giurato dell’autocrazia zarista e dei suoi intrighi diplomatici. I marxleninisti russi generarono Stalin, l’autocrate supremo, che portò le arti della diplomazia segreta zarista (l’intrigo, la corruzione, l’uso degli utili idioti, il cinismo) a livelli mai neppure sfiorati prima. Ora ce ne siamo dimenticati, ma la guerra fredda, fino al crollo del Muro di Berlino, è stata l’età dei parlamenti infiltrati da politici al soldo di Mosca, dei giornali falso-progressisti che esaltavano il sistema dei campi di lavoro e sbertucciavano l’Occidente liberale, dei partiti filosovietici, del terrorismo rosso (con basi nella Germania dell’est e nelle altre democrazie popolari) e di «yankee go home». A raccontare la storia di quegli anni ci sono libri esemplari che oggi (purtroppo) non legge più nessuno: l’Arcipelago Gulag di Solženicyn, le storie di James Bond, le schede da brivido diplomatico del Dossier Mitrokhin, la trilogia di Smiley di John Le Carré, I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov e l’intera collezione di Segretissimo. Crollato il comunismo, passato l’incubo dell’Unione sovietica, a guidare la moderna Federazione russa c’è oggi il più classico rappresentante della più tradizionale diplomazia segreta russa: un ex colonnello del KGB.

Vladimir Putin non è soltanto l’erede del Ghepeù, l’autocrate gelido e feroce che risponde alle inchieste giornalistiche mitragliando i gazzettieri nell’androne di casa e che liquida i suoi nemici col polonio 210 negli hotel di Londra. Diplomatico russo fino al midollo, seminatore di zizzania nato, Putin è anche l’uomo che compra i politici prospettando loro tangenti plurimiliardarie e che intanto li intorta filmandoli a loro insaputa per avere un’arma con la quale ricattarli (oppure, all’occorrenza, distruggerli). È con questa tradizione diplomatica, la tradizione degli zar e dei commissari del popolo, dei colpi alla nuca e dell’esilio siberiano, che i nostri sovranisti pensano di potersi misurare (ed è come se uno sbruffoncello, dopo essersi abbuffato di Nutella e arancini, si travestisse da Batman e sfidasse il Joker). È il segno di Zorro dei politici filorussi negli ultimi tre o quattro secoli: essere dei gonzi e credersi furbi. Come il Lord Palmerston di Marx, anche i moderni politici intrallazzati con la Russia putiniana si riconoscono al volo dal fatto che «dove non possono fare nulla, escogitano una cosa qualsiasi; dove non osano intervenire direttamente, s’intrufolano e, quando sono incapaci di tener testa a un avversario forte, ne improvvisano uno debole». Sempre come Lord Palmerston, anche il sovranista dell’età putiniana «non è uomo di profondi disegni e, incapace com’è di meditare combinazioni durevoli e di perseguire obiettivi elevati, s’imbarca in azioni difficili con lo scopo di tirarsene fuori in modo teatrale. Lo esaltano infatti i conflitti teatrali, le battaglie teatrali, i nemici teatrali, gli scambi teatrali di note diplomatiche, gli ordini di far salpare le navi, il tutto da concludersi in violenti dibattiti parlamentari» (oggi televisivi) «in grado d’offrirgli quell’effimero successo che è l’unico e costante scopo di tutte le sue fatiche». Politico senza identità, ridotto a puro profilo Facebook, il moderno sovranista putiniano «spinge le situazioni fino a un certo punto per ritirarsene non appena diventano pericolose». Non è di destra né di sinistra, né liberale né assolutista. Al mattino è statalista e verso sera promercato. Un giorno è bonario e tollerante, il giorno dopo tutto fulmini e anatemi. «Accusato da un partito d’essere al soldo della Russia, da un altro sospettato di carbonarismo», il nostro sovranista è un Arlecchino politico, putiniano spinto ma anche un po’ trumpiano. Al pari di Lord Palmerston, anche Matteo Salvini, per non fare nomi, «se non è un buon statista, è almeno un attore buono per tutte le parti».

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Diego Gabutti
Già collaboratore del Giornale (di Indro Montanelli), diSette (Corriere della Sera), e di numerose testate giornalistiche, corsivista e commentatore diItalia Oggi, direttore responsabile della rivista n+1 e, tra i suoi libri: Un’avventura di Amadeo Bordiga (Longanesi,1982), C’era una volta in America, un saggio-intervista-romanzo sul cinema di Sergio Leone (Rizzoli, 1984, e Milieu, 2015); Millennium. Da Erik il Rosso al cyberspazio. Avventure filosofiche e letterarie degli ultimi dieci secoli (Rubbettino, 2003). Cospiratori e poeti, dalla Comune di Parigi al Maggio'68" (2018 Neri Pozza ed.)


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