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Giuliana Iurlano
Antisemitismo Antisionismo
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Gli ebrei e la rivoluzione americana 13/02/2018

Gli ebrei e la rivoluzione americana
Analisi di Giuliana Iurlano

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La comunità ebraica americana, giunta in piccoli gruppi nell’America coloniale, si adattò molto presto alla realtà del Nuovo Mondo, dedicandosi al commercio, alla viticoltura, alla costruzione e al noleggio di navi da trasporto di merci e a tante altre attività affaristiche. Alcuni di loro, come Mordecai Sheftall del South Carolina, erano proprietari di schiavi. Come gli altri coloni americani, gli ebrei partecipavano con grande dedizione a tutti gli eventi politici delle colonie, prima, e a quelli legati alla rivoluzione contro la madrepatria, poi. E, come tutti gli altri americani, i circa 2500 ebrei presenti in America al momento dell’adozione della Dichiarazione d’Indipendenza nel 1776, avevano vissuto con grande apprensione le vicende del loro paese, parteggiando alcuni (la maggior parte) per i whig, altri (molto pochi, in verità) per i lealisti, altri ancora cercando di restare neutrali di fronte ai drammatici avvenimenti bellici. Come tutti gli altri americani, anche la comunità ebraica si spaccò al suo interno: sia da una parte che dall’altra vi erano ebrei che portavano gli stessi cognomi e che spesso appartenevano ad una stessa famiglia, come i Pinto, gli Hays, i Gomez o i Franks. Molti di loro si arruolarono come volontari nell’esercito continentale, come Francis Salvador di Charlestown, che, durante l’attacco bifrontale britannico al South Carolina, nella notte tra il 31 luglio e il 1° agosto del 1776, fu colpito mortalmente e poi scotennato dagli indiani alleati degli inglesi. Probabilmente, Salvador fu il primo caduto ebreo della rivoluzione americana e a lui è dedicata una stele in Hall Park di Charleston City, che così recita: «Nato aristocratico, divenne un democratico. Inglese, ha incrociato il suo destino con l'America; fedele alla sua antica fede, ha dato la vita per nuove speranze di libertà e comprensione umana». Furono almeno un centinaio gli ebrei che si arruolarono negli eserciti continentale e lealista; un numero certamente esiguo, ma che assume una certa rilevanza se si considera che i maschi adulti in età da servizio militare erano in tutto circa 500 e, dunque, una percentuale significativa se comparata ai militari non ebrei che presero parte alla rivoluzione. Gli ebrei furono arruolati come soldati di fanteria, come corrieri dell’esercito e come furieri. Alcuni di loro non presero mai parte ad alcuna battaglia; altri, invece, dovettero affrontare scontri importanti e pericolosi.

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Fra gli ebrei in armi vi erano anche alcuni volontari francesi, come Benjamin Nones, della Legione Straniera del conte Casimir Pulaski, che prese parte all’attacco alle ridotte britanniche posizionate davanti a Savannah, probabilmente nell’unità dei Forlon Hope, che precedevano le colonne d’assalto, portando scale e sacchi per colmare il fossato, un compito pericolosissimo che, in caso di successo, veniva premiato con la promozione al grado superiore. Ma, al di là dei singoli atti di eroismo che pure sono stati documentati dagli studiosi, la cosa più importante è che, quando venivano arruolati in precedenza dai britannici, nessuno di loro poteva aspirare a diventare un ufficiale, a meno che non si convertisse al cristianesimo; nell’esercito continentale, invece, almeno tre ebrei ebbero incarichi di livello superiore: Mordecai Sheftall, arruolatosi come furiere nella milizia della Georgia, divenne colonnello, mentre David S. Franks e Solomon Bush, ufficiali di stato maggiore, diventarono tenenti colonnello. In ogni caso, la rivoluzione americana significò per gli ebrei l’eguaglianza politica a livello federale, sancita dal diritto alla libertà religiosa, che così sbarazzava il campo dalla professione di fede prescritta dal giuramento per poter ricoprire incarichi pubblici. Quando George Washington divenne il primo presidente degli Stati Uniti nel 1789, gli ebrei – in una lettera del presidente della congregazione di Newport, Moses Seixas – gli espressero la loro profonda gratitudine, insieme all’assicurazione che avrebbero sostenuto il nuovo governo federale. Nella sua risposta, Washington – ribadendo la libertà di coscienza e i privilegi connessi alla cittadinanza che gli Stati Uniti avevano orgogliosamente affermato dinanzi al mondo intero – ribadì che dal quel momento in poi non si sarebbe più parlato di tolleranza, in quanto “il governo degli Stati Uniti […] richiede solo che coloro che vivono sotto la sua protezione si comportino da buoni cittadini, sostenendolo concretamente in ogni occasione”. Si trattava di una dichiarazione molto importante, perché per la prima volta in assoluto un capo di Stato riconosceva formalmente che gli ebrei erano “cittadini” di una nazione. E ciò significava la sanzione ufficiale di un dato reale, vale a dire il fatto che gli ebrei che vivevano negli Stati Uniti d’America facevano veramente parte degli Stati Uniti d’America.


Giuliana Iurlano è Professore aggregato di Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università del Salento. Collabora a Informazione Corretta


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