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Stefano Magni
USA
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Negoziati Israele-palestinesi, il fallimento di John Kerry 04/07/2013

" Negoziati Israele-palestinesi, il fallimento di John Kerry "
analisi di Stefano Magni


Stefano Magni            John Kerry

Mahmoud Abbas ha detto al nostro premier Enrico Letta che ci sono buone probabilità per una ripresa del processo di pace. Il presidente dell’Autorità Palestinese ha tessuto le lodi del segretario di Stato americano John Kerry, per la sua “shuttle diplomacy” (diplomazia pendolare) della settimana scorsa. Kerry, in pratica, ha fatto la spola fra Gerusalemme e Amman, incontrandosi con Netanyahu e Abbas, per cercare di far tornare Israele e Autorità Palestinese a incontrarsi di nuovo, direttamente e senza intermediari. In questi ultimi quattro anni, Hillary Clinton non aveva fatto nulla di simile. Ma forse l’ex segretaria di Stato aveva le sue ragioni: non è realisticamente plausibile un negoziato diretto. E nonostante l’impegno di Kerry, la sua ambizione a ripetere il miracolo di Camp David (l’accordo fra Egitto e Israele del 1978) e i buoni auspici di Abbas, è probabile che anche questa volta il meccanismo si inceppi. I palestinesi stessi non condividono molto l’ottimismo del loro presidente: appena il 27%, stando ai sondaggi, crede che il processo di pace possa ripartire. Ancora più bassa la percentuale degli ottimisti fra gli israeliani: solo il 10% ci crede.

Kerry non ha ancora fatto un bagno di realtà mediorientale. Lo farà ben presto. La scorsa primavera, aveva proposto ai palestinesi un piano di rinascita economica, da 4 miliardi di dollari. Si parla di investimenti diretti nelle aziende palestinesi, per creare uno strato di borghesia attiva nel futuro Stato. Ma la classe dirigente palestinese, finora, è campata (alla grande) esclusivamente sugli aiuti internazionali. Un piano come quello di Kerry spoglierebbe l’Autorità Palestinese di gran parte della sua reale fonte di potere: dare stipendi e dirigere l’economia con i soldi dei contribuenti e dei donatori europei e di tutto il mondo musulmano.

Kerry vuole rifondare, dall’esterno, il fayyadismo, la filosofia politica dell’ex premier palestinese Salam Fayyad: prima si costruisce lo Stato (gradualmente, con tutte le sue istituzioni economiche e politiche), poi si preme per l’indipendenza. Ma il fayyadismo era già stato, di fatto, cestinato dallo stesso presidente Mahmoud Abbas, quando ha chiesto e ottenuto dall’Onu il riconoscimento della Palestina quale stato osservatore, ponendo di nuovo l’obiettivo dell’indipendenza davanti alla costruzione dello Stato. E il fayyadismo ha perso Fayyad dal mese scorso. Il nuovo premier, Rami Hamdallah, un professore universitario, è durato solo 17 giorni, dal 6 al 23 giugno. Dopodiché ha rassegnato le dimissioni per “conflitto di potere”. Il governo dell’Autorità è tuttora un’incognita. Comanda Abbas, che è uomo della vecchia guardia di Arafat, con annesse tutte le idee nazionaliste dell’Olp. Ottenere l’indipendenza, senza prima aver costruito uno Stato funzionante, porta a una situazione da Gaza: un territorio in cui le uniche organizzazioni sono quelle delle milizie armate, di una burocrazia corrotta e di un’economia ancora embrionale.

Kerry è pronto a fare concessioni: tre a favore della Palestina e una di Israele. Oltre al suo piano di aiuti economici, ai palestinesi promette a) la scarcerazione di almeno 50 dei 100 prigionieri in Israele di cui si chiede la liberazione; b) inserire la discussione sui confini ai primi posti dell’agenda negoziale; c) ottenere un congelamento, almeno parziale, della costruzione di nuovi insediamenti israeliani in Giudea e Samaria (o Cisgiordania, secondo la geografia palestinese). Israele dovrebbe accontentarsi di un’unica promessa: “garanzie sulla sicurezza”. Queste concessioni si scontrano con due precondizioni poste da Abbas. Non si andrà neppure al tavolo negoziale, se: a) non si fermano tutte le costruzioni ebraiche, comprese quelle a Gerusalemme Est b) non si torna a riconoscere, quale frontiera provvisoria, la linea armistiziale pre-1967. Solo da quella si potrà iniziare a discutere sui confini. Dunque le concessioni proposte da Kerry non bastano ai palestinesi. E poi: perché mai il governo Netanyahu dovrebbe accettare di tornare al tavolo negoziale? Solo perché vengono offerte “garanzie di sicurezza” a Israele? Tornare alla linea armistiziale del 1967 vorrebbe dire spostare di peso mezzo milione di ebrei, che ormai vivono da due generazioni oltre quella linea. Sarebbe un’auto-pulizia etnica. Vorrebbe dire abbandonare intere città come Maale Adumim, lasciare l’università di Ariel, lasciar marcire (o far distruggere) kibbutz, aziende, sinagoghe, biblioteche, antichissimi luoghi sacri all’ebraismo e moderni esperimenti di convivenza fra palestinesi arabi ed ebrei. Sarebbe la fine di un’intera società. D’accordo che i palestinesi chiedono di partire da quel confine provvisorio per poi discutere sulla frontiera vera e propria. Ma non ci sono garanzie che accettino compromessi al ribasso, una volta che è stato ottenuto il massimo. Non bisogna dimenticare, poi, che nel 2000, a Camp David, ad Arafat era stato concesso il 98% dei territori richiesti dall’Autorità Palestinese, molto più di quanto si possa ottenere ora. E nonostante tutto, Arafat rifiutò quell’accordo. Infine, ma non da ultimo, Netanyahu aveva chiesto ai palestinesi una cosa molto semplice: niente precondizioni. E invece, proprio queste di cui stiamo parlando ora, sono precondizioni.

E Gaza? Quando Kerry parla di negoziati fra Israele e Palestina, si riferisce sempre ed esclusivamente a una metà settentrionale di quest’ultima. Alla sola Cisgiordania, governata da Abbas. Ma Gaza, governata da Hamas, non ha mai neppure accettato l’idea di un “processo di pace” con Israele. Dopo aver cacciato con la forza il partito Fatah di Abbas, nel 2007, non ha più riconosciuto la legittimità del governo Fayyad, né ha voluto riconoscere quella del suo breve successore Hamdallah. Da Gaza continuano a partire razzi contro Israele: gli ultimi risalgono a meno di una settimana fa. Kerry ci ha pensato? Come si fa ad intavolare un dialogo con mezzo Paese, quando l’altro mezzo è ancora in guerra?


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