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Politica, America e cultura: dietro l'esitazione dell'Arabia Saudita
Analisi di Mordechai Kedar
A destra: Benjamin Netanyahu, Mohammed bin Salman
(Traduzione di Yehudit Weisz)
La domanda sul perché Riyadh sia titubante diventa ancora più incalzante sullo sfondo di un'amministrazione statunitense che cambierà in meno di due mesi. Con un imminente cambiamento nella politica degli Stati Uniti e la riluttanza saudita a procedere verso la normalizzazione, gli sforzi di altri Paesi - Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Israele - per creare una nuova realtà politica che rappresenti una sorta di alleanza regionale in funzione anti-iraniana, potrebbero rischiare di essere annullati. Ci sono diverse spiegazioni per l'esitazione di Riyadh. La più importante è la paura del Regno nei confronti dell'Iran e della sua possibile reazione a un riavvicinamento saudita con Israele. I sauditi ricordano bene la notte del 14 settembre del 2019, quando l'Iran (grazie ai suoi delegati in Yemen e Iraq) aveva attaccato impianti petroliferi vitali e li aveva tenuti chiusi per lungo tempo. I sauditi ricordano anche che nessuno, compresi gli Stati Uniti e Israele, aveva risposto a questo attacco. Ne conclusero che erano soli nella battaglia contro l'Iran e che i rapporti di forza non giocavano a loro favore.
Una seconda motivazione dell'esitazione dei Sauditi sta nella loro paura dell'amministrazione Biden, e questa preoccupazione si articola in diversi motivi secondari. In primo luogo, ci si aspetta che la nuova amministrazione statunitense cercherà di avvicinarsi a Teheran revocando le sanzioni e tornando all'accordo sul nucleare, passi che rilanceranno l'economia iraniana e rafforzeranno i suoi sforzi per alimentare la lotta degli Houthi contro lo Yemen e l'Arabia Saudita. In secondo luogo, l'amministrazione Biden, a differenza del suo predecessore, guarderà ancora una volta il Regno attraverso la lente dei diritti umani e solleverà domande imbarazzanti sull'affare Khashoggi, sulle esecuzioni e sui diritti dei lavoratori stranieri nel Regno. Il sostegno di Washington a Riyadh sarà riluttante e limitato, ed è altamente improbabile che Biden e il suo governo permetteranno a Israele di allacciare buoni rapporti con un Paese su cui loro hanno delle riserve. Ci si aspetta anche che l'amministrazione Biden porterà in primo piano la questione palestinese e si opporrà a qualsiasi progresso arabo con Israele che non tenga conto degli auspici palestinesi. Gli americani potrebbero, infatti, insistere per un ritorno al Piano di pace saudita-arabo del 2002, come condizione per qualsiasi progresso verso la pace tra Israele e Arabia Saudita. La terza ragione dell'esitazione saudita è la situazione interna del Regno. Il mondo occidentale e Israele vedono il Regno e la sua condotta principalmente attraverso le parole e le azioni del Principe Ereditario Muhammad bin Salman, e soprattutto attraverso le riforme che ha fatto: tagli ai poteri e ai bilanci della "polizia religiosa"; permesso per le donne di guidare e muoversi in pubblico senza scorta maschile e persino, senza copricapo; il “piano 2030”, progettato per lanciare l'Arabia Saudita in un futuro senza petrolio; la proposta di istituire la “Città del futuro”. Ma in gioco ci sono altri elementi importanti in Arabia Saudita che non sono stati presi sufficientemente in considerazione. Innanzitutto lo status del Principe Ereditario. Da quando è stato nominato erede al trono, nel giugno del 2017, lui è stato oggetto di forte risentimento tra i membri della famiglia reale. Quando fu nominato aveva solo 32 anni, troppo giovane rispetto ai precedenti eredi, i fratelli di Re Salman, che sono molto più grandi di lui. Nella società saudita tradizionale, l'età è un fattore importante nel considerare se nominare una persona a un importante ufficio pubblico. Nominare un giovane, bypassando gli anziani, è considerato illegittimo. Un altro svantaggio è l'inesperienza del Principe Ereditario nella gestione di organismi e politiche. Questa carenza lo marchia ulteriormente rispetto agli altri eredi precedenti, che erano ministri, ambasciatori, comandanti dell'esercito e dirigenti di multinazionali gigantesche, e che vengono considerati da parecchi nel Regno, molto più adatti a gestire uno Stato e a fare politica.
Jamal Khashoggi Gli avversari di bin Salman si sono espressi contro di lui giorno e notte, dal primo momento della sua nomina, e lui sapeva molto bene chi stava dicendo cosa. Nel novembre del 2017, sei mesi dopo essere stato nominato erede al trono, bin Salman ha fatto arrestare dozzine di suoi cugini - membri della famiglia reale - e li ha detenuti al Ritz-Carlton Riyadh, dove ha estorto loro miliardi di dollari e ne ha fatto addirittura uccidere due. Questi membri della famiglia non l'hanno né scordato né perdonato per questa umiliazione. Molti nella famiglia reale incolpano il Principe Ereditario per il grave coinvolgimento saudita nello Yemen e per il prezzo sanguinoso che il Regno sta pagando per tale coinvolgimento. Molti l’accusano del ‘fiasco’ dell'omicidio del giornalista saudita in esilio Jamal Khashoggi a Istanbul, nell'ottobre del 2018, e delle terribili conseguenze di quella vicenda in termini di immagine di Riyadh e delle sue relazioni estere con Stati Uniti e Turchia. Anche le riforme allo status delle donne, introdotte da bin Salman, non sono gradite a molti nel Regno, sebbene la grande maggioranza dei giovani le sostengano. Quindi la probabilità che lui diventi il prossimo Re dell'Arabia Saudita non è del 100%. Gli organi ufficiali si riferiscono a bin Salman come Reggente (cioè il prossimo Re), ma questo non è affatto garantito. Un altro motivo dell'esitazione saudita è culturale. Nella tradizione beduina del Regno, c'è una regola nell'Hadith (la legge orale islamica): “Non succede nulla nel deserto, quindi niente è urgente”. In altre parole, è meglio aspettare e vedere cosa accadrà piuttosto che rischiare di intraprendere azioni che potrebbero essere pericolose. Questa posizione è profondamente radicata nel modo di pensare e di comportarsi nelle società tradizionali del Medio Oriente e gli occidentali, che sposano una cultura opposta di “istante” e “ora” (come, ad esempio, l’organizzazione israeliana “Peace Now”), non sono in grado di stimare fino a che punto l'esitazione sia un tratto culturale in Arabia Saudita. Riyadh è riluttante a portare avanti le sue relazioni con Gerusalemme a causa di una varietà di fattori interni, esterni e culturali. Solo una ragione molto forte cambierà la situazione, ma al momento all’orizzonte non ne vedo alcuna.
Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi. |
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