Riprendiamo da SHALOM di luglio-agosto 2014, a pagg. 14-15,   l'articolo di Ugo Volli dal titolo "Tante guerre un solo obbiettivo:   dall'Himalaya all'Oceano Atlantico creare un grande Califfato islamico "
   I confini del Califfato entro 5 anni secondo Isis
 
  In   Sinkiang (Cina). Nelle Filippine. In Kashmir. In Afghanistan. In   Pakistan. In Indonesia. In Thailandia.  Nel Caucaso. In Kossovo e in   Bosnia. In Iran. In Irak. Nel Bahrein. In Yemen. In Siria. In Egitto. In   Libia. In Tunisia. In Mali. In Nigeria. In Somalia. In Sudan.   Naturalmente in Israele. L'elenco delle guerre che hanno l'Islam come   protagonista non finisce più, in particolare dopo la grande sovversione   del mondo arabo favorito dall'amministrazione Obama sotto il nome di   “primavere arabe”. Ma solo di recente e solo in parte i media e i   politici sembrano accorgersi del fatto che si tratta in sostanza di   un'unica guerra, il cui scopo non è solo rovesciare i governi locali e   opporsi agli “infedeli”, ma ridisegnare i confini per dar luogo a uno   spazio politico unico dell'Islam. L'occasione è stata l'estensione della   guerra siriana all'Iraq, con la costituzione di un largo territorio a   cavallo della frontiera dominato dai terroristi dell'Isis. Le reazioni   iniziali sono state improntate al panico e alla più totale  irrazionalità  politica. Come se fosse la prima volta che gli arabi  tentano di  costituire una “Grande Siria” dall'Iraq  fino a Israele,  passando per  Siria Libano e Giordania. In realtà ci provarono appena  sollevati dal  giogo turco durante la prima guerra mondiale, spinti  anche dalla Gran  Bretagna (era il piano di Lawrence d'Arabia, che  Londra continuò a  perseguire prima in funzione antifrancese e poi  antisraeliana fino agli  anni Cinquanta). Quell' ʿIzz al-Dīn al-Qassām  da cui prendono nome le  “brigate” terroriste di Hamas e anche i razzi  che usano contro i civili  israeliani, per esempio, era un terrorista di  origini siriane, formato  religiosamente in Egitto e militarmente  nell'esercito turco, che  sostenne la guerra contro l'Italia in Libia,  poi combatté contro i  francesi in Libano, partecipò alle stragi contro  gli ebrei del mandato  britannico e fu ucciso dagli inglesi a Jenin  negli anni Trenta. I  percorsi sono gli stessi, solo con un notevole  ampliamento fino  all'Himalaya da un lato e all'Oceano Atlantico  dall'altro. Uguale è  l'ideologia, la crudeltà dei metodi di lotta, il  fanatismo, l'odio per i  non  musulmani. Uguali le linee strategiche,  spesso anche le basi e gli  avversari.  Per capire quel che sta  succedendo, bisogna considerare le  ricorrenze della storia araba nel  suo complesso: ogni volta che gli  arabi sono stati liberi, hanno  seguito una spinta espansionista che li  ha portati a dominare territori  immensi, dalla Spagna alla Persia, dalla  Sicilia al Marocco. Ma allo  stesso tempo si sono sempre impegnato in  lotte intestine più acute  ancora e più violente delle guerre esterne.  Gli eredi immediati di  Maometto sono più o meno tutti morti di morte  violenta disputandosi la  successione; ogni volta che c'è stato un potere  unitario a Damasco o  alla Mecca o al Cairo gli si è subito contrapposto  un contropotere,  spesso sulla base di impostazioni religiose  contrastanti. La spinta  universalistica, che ha contrastato la  formazione di entità statali e  nazionali stabili si è sempre infranta  sull'odio dei partiti, delle  sette, degli avventurieri, che hanno  portato poi sovente alla  disgregazione dell'impero e alle conquiste  straniere: turche, persiane,  occidentali.   La situazione è ancora  quella: c'è un sogno unitario,  un odio altrettanto unitario per gli  occidentali; ma la divisione fra  Sciiti e Sunniti e dentro quest'ultima  confessione fra Salafiti  (dominanti in Arabia Saudita) e Fratelli  Musulmani (diffusi in Africa  settentrionale, a Gaza e in parti della  guerriglia siro-irachena), è  ancora più feroce. Per non parlare del  rancore violento che separa  arabi e altre etnie musulmane, soprattutto  turchi e persiani. Dunque la  guerra intestina in generale viene prima  delle “lotte di liberazione”  contro l'Occidente, salvo che nel caso di  lotte di confine, come accade  in Cina, in India, nei Caucasi, nei  Balcani, in Israele. E, in un  certo senso, già in Europa, dovunque la  popolazione islamica si senta  abbastanza forte e numerosa. E' un'unica  guerra? In realtà no. E' ovvio  che non c'è un unico piano congegnato per  la conquista del mondo,  dalle steppe dell'Asia centrale alla foresta  nigeriana ai suburbi delle  città svedesi, inglesi o belghe in cui la  polizia non entra più perché  sono “zone islamiche”. Il fatto  indubitabile che vi sia una spinta  concomitante in tutti questi teatri  deriva da fattori comuni: la  crescita demografica, dove continua, e lo  squilibrio economico; la  relativa facilità di spostamento garantita dai  mezzi di comunicazione  moderni; la libertà dei paesi di immigrazione e  l'assenza di controlli,  spesso l'anarchia vera e propria dei paesi di  origine; la diffusione  attiva di ideologie jihadiste e revansciste, il  denaro pompato nei  movimenti portatori di queste ideologie da parte di  stati e potentati  economici che vogliono usarli ai loro scopi, spesso  soprattutto per  danneggiare i propri nemici. Tutto ciò provoca intorno  agli stati a  maggioranza islamica una “cintura” di guerre e inoltre  favorisce lo  stabilirsi di teste di ponte in paesi fino a poco tempo fa  privi di  minoranze islamiche e quindi esenti dal conflitto, che se lo  chiamano  addosso per via di politiche irresponsabili e ideologici di   favoreggiamento dell'immigrazione musulmana.   Ma la guerra non è una,   sono almeno due. Vi è quella esterna, multiforme e confusa come ho   appena detto. E vi è quella interna, in cui le fazioni islamiche si   scontrano violentissimamente, non avendo altro modo di interagire se non   la violenza, dato che non riconoscono il principio democratico. Come   del resto non riconoscono lo stato come elemento neutrale e permanente   di organizzazione e di garanzia della vita associata e non riconoscono   le identità nazionali e le tradizioni culturali (molto simili in questo   loro internazionalismo all'ideologia della burocrazia europea...). E'   questa la dinamica che si è vista all'opera negli ultimi anni delle   rivolte islamiche, ma che nella sua forma essenziale non è diversa dalle   grandi guerre intestine che hanno devastato il mondo arabo nei secoli.   La spinta all'unità non porta all'accettazione reciproca, ma   all'intolleranza; l'attaccamento religioso non affratella ma conduce   allo scavalcamento reciproco verso l'estremismo, alla scomunica degli   avversari, alla mutua distruzione. Se arriva qualche elemento esterno,   come oggi l'America di Obama, che si illude di mettersi d'accordo con   una parte a spese dell'altra (Obama prima con la fratellanza musulmana,   adesso col fronte sciita contro l'Isis), questi viene strumentalizzato e   poi odiato e danneggiato il più possibile da entrambi.   A questa   logica dell'anarchia religiosa permanente e della guerra di tutti contro   tutti è possibile resistere solo usando la forza, facendo muro se si è   potenti come l'Europa ha fatto per nove secoli da Poitiers fino   all'assedio di Vienna; o arroccandosi se più piccoli, combattendo   permanentemente per la propria identità e sopravvivenza, mantenendo una   situazione di forza locale, come hanno saputo fare i drusi, certe   comunità cristiane capaci di resistere anche se oppresse (gli armeni, i   copti), più di recente i curdi (che sono sì sunniti, ma interessati   innanzitutto alla loro identità nazionale). E' chiaro che mentre il muro   europeo è tutto sgretolato dall'interno, Israele può reggere la  propria  libertà e il proprio sviluppo solo concependosi come un  baluardo del  genere, trovando alleanze tattiche in qualunque direzione,  rafforzando  la propria capacità militare, non cedendo a chi vorrebbe  che adottasse  una politica “europea” di appesement verso i propri  nemici, sapendo che  fino a un'improbabile trasformazione radicale del  mondo islamico nel suo  complesso non ci può essere la pace in senso  proprio, perché ogni  compromesso con un gruppo sarà rifiutato da un  altro gruppo, ognuno  aspirerà alla distruzione del nemico che gli arabi  amano di più odiare,  che l'Occidente (o quel poco che ne resterà) sarà  sempre pronto a  mollare agli attaccanti islamici l'osso israeliano,  nell'insensata  speranza di placarli.  Non è una prospettiva piacevole,  naturalmente. Ma  è un panorama con cui si può vivere, come Israele ha  vissuto dalla sua  fondazione, pur di non farsi illusioni, di non  proiettare su questo  quadro politico illusioni etiche (quelle  pericolosissime per cui i  nemici risparmierebbero un Israele “buono”,  disposto a far la pace, a  disarmarsi, a “restituire” parti del suo  territorio). E' probabile che  quando, fra pochissimi decenni, gli  europei si troverà nella terribile  scelta fra l'esplosione islamista e  la reazione estremista xenofoba  tinta di neonazismo, la società  israeliana sarà più prospera e sicura,  ben più attrezzata fisicamente e  intellettualmente con quel grande buco  nero di violenza e di anarchia  irriducibile che è il mondo arabo.
      Ugo Volli
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