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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Benjamin Markovits, Un gioco da grandi 17/12/2012

Un gioco da grandi                                     Benjamin Markovits
Traduzione di Michele Martino
66thand2nd                                                    Euro 16

Di romanzi di formazione ne abbiamo letti di tutti i generi, basta pensare ai bildungsroman di Goethe, Stendhal, Flaubert, Dickens e poi Conrad, Musil, Mann, giù giù fino a Salinger, Kerouac, Philip Roth, Oz... per non parlare dell'oggi. Dio mio, ce n'è un'infinità. Però Un gioco da grandi del texano di origini tedesche Benjamin Markovits (oggi quasi quarantenne e trapiantato a Londra da 12 anni) è davvero particolare, perché insegue tre ossessioni formative che sembrano non avere a che fare niente l'una con l'altra: il basket, le proprie origini ebraico tedesche, e la scrittura naturalmente. Suggestioni disparate dunque per Ben: aggiungeteci una trilogia ispirata alla vita di Lord Byron scritta tra il 2007 e il 2011 e vi renderete conto che quest'autore non è affatto banale. Il romanzo-memoir di Markovits, che nel 2010è stato inserito dal Guardian tra i 20 migliori scrittori inglesi sotto i quarant'anni, prende le mosse dalla fine del college: incerto sul suo futuro, riluttante a ogni ipotesi di master, giocatore dilettante di basket come suo padre e suo nonno, Ben decide l'avventura, un ingaggio da cestista in Germania, a Landshut, desolata cittadina di provincia. In squadra, mediocri veterani- americani bianchi e neri, russi, tedeschi, che cercano solo un mediocre stipendio - ragazzini persi, un futuro campione.
Se per Ben la carriera sportiva è deludente, fuori la vita offre, a tratti, dei momenti di crescita, innanzitutto la solitudine, ma anche le amicizie coni compagni, l'incontro con la moglie (in via di separazione) di un collega, una relazione dapprima tiepida poi sempre più intensa,e infine quei sabati liberi, quando, di fatto, senza troppa convinzione, Ben finisce sempre nella sinagoga locale, tra estranei eppure uguali, e inizia a chiedersi che fare: sposare una tedesca per esempio, non è un gesto tanto elementare per un ebreo, o no? Mister Markovits, come guarda oggi alla scelta di essere andato a giocare a basket in Germania quando già pensava a diventare uno scrittore? Era solo un modo di uscire di casa o, in realtà, di rimandare la vita da adulto? «Volevo mettere un piede nel mondo, ma non sapevo come mantenermi. Ero anche un atleta frustrato. E mentre da ragazzino passavo il tempo a allenarmi nel campo costruito da mio padre nel cortile, siccome il basket è uno dei pochi giochi di squadra in cui puoi esercitarti da solo, pensavo a un sacco di altre cose, anche a scrivere. Cercavo la mia strada in ambedue le direzioni, avevo un passaporto tedesco e non volevo un vero lavoro. Quando finì l'ingaggio, invece, andai con un amico a Oxford e cercai di scrivere un romanzo - che poi divenne il mio primo libro, The Syme Papers - ma mi annoiavo e feci quello che avevo tentato di evitare, iniziai il mio Master».
Anche la sua vena narrativa è poliedrica, da un lato una trilogia su Byron, dall'altro un romanzo sullo sport. Che rapporto c'è? «E' una cosa che mi sono chiesto anch'io. La verità è che sono due temi che mi ossessionavano da ragazzo: sognavo Michael Jordan, giocavo da solo e con gli amici, ma leggevo i romantici, compravo vecchi libri di cui parlavo con altri amici. Amavo questi due argomenti. Non è sorprendente che li abbia usati nello scrivere. Ma credo ci siano altri legami. Mi rifaccio al desiderio che avevo di mettermi alla prova: quando lasci la famiglia inizi a vedere le differenze tra l'idea che hai di te e quel che pensano gli altri, un confronto decisivo se fai dello sport. Ed eccoci a Byron: aveva così tanto successo come uomo e come amante (anche se non come rivoluzionario) che doveva resistere alla fama che lo circondava, e fu così che divenne consapevole e ironico: insomma Byron mi è parso un buon soggetto per uno scrittore che vuol parlare del gap esistente tra chi pensiamo di essere e quel che il mondo fa di noi».
Nel romanzo va in cerca delle sue radici ebraiche e tedesche. Non le sente in contraddizione? «Quando mio padre si sposò con mia madre che è tedesca, i suoi genitori non andarono al matrimonio civile (più tardi furono risposati da un rabbino, lo stesso, almeno secondo la leggenda familiare, che sposò Marylin Monroe e Arthur Miller). Ma io come mezzo tedesco - ho anche vissuto due anni a Berlino da bambino - verso la Germania non provo nessuna diffidenza. Nei nostri incontri di famiglia, la distinzione ebrei/cristiani sembrava quasi non riguardarci, semmai ci divideva la contrapposizione America/Europa; loro pensavano che gli americani fossero maleducati, noi che gli europei fossero altezzosi». Mi parli d'amore: nel libro descrive un'attrazione che ha in sé una massiccia dose di fastidio, e si chiede se sarebbe stato sempre così. Qual è la risposta? «Con mia moglie non ho mai sentito quel "fastidio". Credo riguardi un tipo di attrazione più giovanile, quando il desiderio si accompagna a un misto di noia, antipatia, disaccordo. Oggi ho due bambini, i problemi sono altri. Ma la verità è che ho avuto un'infanzia felice, e mi è piaciuto molto vivere in una grande famiglia: mi chiedo solo come abbiano fatto i miei con cinque figli».

Susanna Nirenstein
R2 Cult – La Repubblica


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