Prove per un incendio Shalom Auslander
Traduzione di Elettra Caporello
Guanda euro 18
Intervista allo scrittore americano che nel nuovo romanzo infrange con humour un tabù assoluto.
Beh, Anna Frank viva e decrepita, nascosta in una soffitta nelle campagne newyorchesi del 2011, che vuol solo mangiare azzime e scrivere un nuovo romanzo pari al suo celebre Diario (32 milioni di copie! non fa che ripetere), era difficile da immaginare. Non c'è limite all'irriverenza dell'americano Shalom Auslander, classe 1970. Dove ci vuol portare dopo Il lamento del prepuzio, in cui si faceva beffe rabbiose del terrore per l'Onnipotente che gli aveva inculcato la comunità ebraica ultraortodossa di Monsey, Brooklyn? Dopo i racconti di A Dio spiacendo, che rappresentavano il Padreterno addirittura come un immenso pollo? Il tiro questa volta è ancora più affilato, perché con Prove per un incendio (come sempre Guanda, traduzione di Elettra Caporello, da domani in libreria) il terribile Shalom vuol dipingere, per quanto annegata nello humour e nell'azzardo, l'immagine che ha di sé stesso e degli ebrei contemporanei: uomini e donne braccati dalla storia.
Il protagonista del romanzo è Salomon Kugel. È lui che è andato a vivere in una villetta a Stockton, un non luogo dove non c'è e non è mai successo niente, niente di niente, con la speranza, sottolineiamo "speranza" di ripartire da capo con la moglie Bree e il figlio Jonah, senza il peso del passato (ma non è proprio quello che ha fatto davvero Auslander con la consorte e due figli?). Nei dintorni si aggira un piromane che dà fuoco alle fattorie della zona, ma per ora non sembra così minaccioso. Con i Kugel c'è anche la madre di Salomon però, una signora che sembra sempre stia lì lì per morire, ma in realtà resiste e tormenta tutti perché si racconta di essere una sopravvissuta alla Shoah, anche se è nata e cresciuta a New York. Convivenza difficile, soprattutto quando Kugel scopre che in soffitta si nasconde Anna Frank! Anche Philip Roth l'aveva risuscitata in un romanzo (The Ghost Writer), ma per svelare a un certo punto che era solo una fantasia. Qui invece è viva, bruttissima, arrogante, un mucchio di cenci che si è salvato da Bergen-Belsen, mantenuta per decenni dal precedente abitante della villetta, un tedesco pieno di sacrosanti sensi di colpa. Ora, figuriamoci se una famiglia di ebrei può disfarsi di una sopravvissuta, e che sopravvissuta, l'icona stessa dello sterminio, "Miss Olocausto" come si definisce lei stessa! Sarebbe come buttare fuori di casa Wiesel, si dicono Kugel e sua madre. Le cose poi vanno come vanno, non bene, lo leggerete, e in fondo si può dire che il libro sia quasi uno sfrontato (e amarissimo) trattato filosofico svolto per assurdo sulla vita dopo il Genocidio. Meglio porre qualche domanda a Shalom.
Era proprio il caso, di infrangere un tabù come Anna Frank?
«Ho avuto un'educazione molto religiosa. Il risultato è che mi piace peccare. È una delle cose che faccio appena posso. Scrivo per trasgredire. Se in una storia non c'è un peccato, non la porto avanti. Detto questo, in Prove per un incendio il punto più scandaloso non è Anna Frank, che nonostante l'età e il carattere ne vien fuori abbastanza bene, ma l'idea che la speranza sia un errore. Tutti la coltiviamo, anche se non abbiamo nient'altro. E se fosse uno sbaglio?».
Dopo ci torniamo. Ora il fatto è che lei non prende di mira solo l'icona Anna Frank, ma l'Olocausto e la sua memoria, e la paura, lei direbbe l'ossessione, di una nuova Shoah, per di più scherzandoci sopra.
«Non c'è niente di buffo nel genocidio, salvo che ne accadono continuamente, anche se ci sbracciamo a dire "mai più". È questo di cui rido, e su cui mi interrogo: come si va avanti sapendolo? Come possiamo parlare ai nostri figli del futuro, dell'uomo? A me da ragazzo è stato detto che la gente mi avrebbe odiato perché sono un ebreo. Forse è vero. O forse è peggio - forse la gente mi odia perché odia. Tutti».
Nei suoi promo per il romanzo - ma anche il protagonista Kugel agisce allo stesso modo - lei chiede a tre amici se la nasconderebbero in soffitta se ci fosse un'altra Shoah. Lei lo fa con humour, ma è vero che ogni ebreo si chiede quale dei suoi conoscenti gli darebbe rifugio nel caso... Kugel è lei? Le vostre paure sono le stesse?
«Kugel c'est moi, sì. Ma sono anche Anna Frank, e anche la madre di Kugel. Ognuno affronta la paura in modo diverso: la mamma crede, come molti, che la paranoia sia la miglior difesa - se vediamo odio dovunque possiamo evitare che ci venga addosso; tipo l'America post 11 settembre. Anna Frank si sente meglio in soffitta, nascosta, senza vivere. Kugel spera di poter far ripartire la storia, ricominciando da capo; non vuol raccontare niente a suo figlio. Pensa che se suo figlio dovrà morire in una camera a gas, meglio garantirgli 30 anni senza camere a gas per la testa. Hanno tutti ragione, e io non so quale è la risposta. Sospetto che non ce ne sia».
Kugel è come Giobbe, una disgrazia dopo l'altra. Pensava a lui mentre scriveva?
«La storia di Kugel procede passo passo con quella di Giobbe. Perde la casa, la moglie, il figlio, la salute. Non l'avevo deciso da prima, ma man mano che le cose andavano male, ho capito che era un racconto di Giobbe, solo che lui era tormentato da Dio, mentre Kugel si tormenta da solo».
Anche Kafka l'ha influenzata.
”Sì, la storia di Anna Frank è quasi quella della Metamorfosi all'incontrario: non dal punto di vista di Gregor Samsa, ma in modo simpatetico con chi si trova a vivere con uno scarafaggio gigantesco in casa. Quell'insetto è un casino; certo, un tempo era loro figlio ma sicuramente non sta per guarire, e la famiglia vorrebbe vivere la sua vita, no? Come i Kugel davanti a Anna Frank. È un peccato - sfottere una storia sacra come quella di Kafka, rovesciarla. Quindi ottimo».
È un romanzo sull'inutilità della speranza. Un messaggio pesante. Lei vive senza speranza?
«Non lo so. Spero, ma mi fa soffrire. Non spero e divento triste. Che fare? E la storia non migliora le cose. La storia è un peso. Diciamo sempre che impariamo dal passato, ma se si ripete, ovviamente non impariamo niente. Forse la speranza è male. Forse dimenticare è meglio di ricordare. Io lancio questi pensieri contro il muro e guardo come vanno in pezzi».
E come vuole insegnare il passato ai suoi due figli? (È quel che Kugel si chiede tutto il tempo).
«In larga parte scrivo per rispondere proprio a questa domanda. Mi aiuta a pensarci. Da bambino mi fu detto che tutti odiano gli ebrei, che ero un dead man walking. Non voglio dire ai miei figli che l'uomo è un'adorabile creatura. Gli racconterò che ci sono buone probabilità di venire feriti, picchiati o uccisi. Non perché sei un ebreo, però. Ma perché sei una persona. Non farne una questione personale, piccolo».
Si può scherzare su tutto?
«Sì».
Susanna Nirenstein
La Repubblica