Da La STAMPA del 7 dicembre 2008, a pagina 16, riportiamo l'articolo di Emanuele Novazio "Oman, dove l’Islam abbraccia le donne"
Fondi sovrani e altri investimenti in Italia, ma anche maggiore presenza delle nostre imprese nel Golfo Persico. E’ l’obiettivo dichiarato della missione che il sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi ha compiuto nei giorni scorsi in due importanti Paesi dell’area, il sultanato dell’Oman e l’Emirato del Qatar. Il primo risultato sarà l’avvio di un «workshop» congiunto per sfruttare al meglio le opportunità di collaborazione economica. I settori più interessanti, per il nostro Paese, sono le infrastrutture, ma anche le tecnologie della difesa e il settore turistico. L’Oman in particolare, dove la produzione di petrolio e gas non raggiunge i livelli dei Paesi vicini, sta puntando molto sullo sviluppo turistico: fra i progetti ai quali potrebbero partecipare imprese italiane, la trasformazione in alberghi dei cinquecento castelli e fortezze di proprietà dello Stato. Allo studio anche il progetto di apertura di una linea aerea diretta che unisca le due rispettive capitali Muscat e Roma. Quando le si chiede se la foto di Nelson Mandela - sulla scrivania dell’ufficio che occupa dal 2004 - è il simbolo della ribellione contro l’«apartheid» di cui sono vittime le donne nel mondo islamico, Sharifa bin Khalfan Al Yehyae regala all’ospite un sorriso luminoso. La giovane ministra dello Sviluppo sociale - di eleganza raffinata nell’abaia a motivi floreali che le scende ai piedi, il capo coperto da una lahaf in sintonia perfetta - è l’emblema della tenace «rivoluzione delle sabbie» avviata dal sultano Qabus Ibn Said il 23 luglio ’70, quando cacciò il padre Said bin Taymur - tredicesimo discendente della dinastia Al Bu Saidi - con un colpo di palazzo incruento che l’agiografia considera spontanea abdicazione. «Siamo un modello», avverte Sharifa. E fa il conto. Sue colleghe di governo sono Rajiha ben Abdel Amir ben Ali, ministro del Turismo; Rawya ben Saoud al-Bossaidi, ministro dell’Istruzione superiore; e Aicha ben Khalfan ben Jamil al-Siyabi, che in quanto Presidente dell’Autorità dell’Artigianato ha il rango di un ministro. Nel Consiglio di Stato del sultano, inoltre, sono nove le presenze femminili, e nel 2003 cinque giudici donna sono diventate procuratori. Più in generale, si ricorda con orgoglio, le donne sono il 12% dei dirigenti nello Stato e il 33% degli incarichi pubblici di medio livello, oltre a rappresentare il 60% del corpo insegnante. Con qualche punta di eccellenza perfino nei settori più specializzati: tre anni fa una giovane laureata in ingegneria è entrata, per la prima volta nella storia delle compagnie aeree del mondo arabo, nel gruppo di sviluppo tecnologico dell’Oman Air. E con qualche motivo di imbarazzo, per noi: secondo una ricerca di Tni, una banca d’investimenti di Abu Dhabi, la presenza femminile nei consigli di amministrazione delle società dell’Oman quotate in Borsa è maggiore che in Italia: 2,7 contro il 2 per cento. Tutto questo non è avvenuto per caso. La parità uomo-donna è di sicuro ancora imperfetta, in Oman: alle elezioni 2007 per il Majlis al Shura, un Consiglio consultivo privo di influenza in politica estera e di difesa anche se eletto a suffragio universale, nessuna donna ha ottenuto un seggio nonostante la forte presenza di candidature femminili (alle elezioni di 4 anni prima ce l’avevano fatta in due). E l’eguaglianza non trova sempre conferma, nella quotidianità sociale di un Paese dove la giustizia è ancora regolata dalla Sharia, la legge coranica pur temperata qui dalla fede ibadita, corrente moderata dell’Islam che si richiama a Abdullah Ibn Ibadh Al-Maqissi, oppositore convinto dell’uso della forza. Ma l’avvio di un processo che sta trasformando il panorama sociale dell’Oman risale alla svolta decisa nel 1994 da Qabus, il sultano di 67 anni educato in Inghilterra che mantiene uno strettissimo controllo su economia e politica in quanto primo ministro e ministro degli Esteri, delle Finanze e della Difesa: l’Oman è stato il primo Paese del Golfo a concedere alle donne il diritto di voto e all’eleggibilità, innescando un «meccanismo virtuoso» che ha pochi riscontri nel mondo arabo. Come ricorda una ex parlamentare in prima linea nella difesa dei diritti delle donne, Rahila al Riyan, traguardi dati per scontati in Occidente sono importanti segnali di sviluppo in una parte del mondo nella quale la donna è ancora - troppo spesso - socialmente e culturalmente sottomessa all’uomo. Di certo le prime decisioni di Qabus, poliziotte e soldatesse in servizio attivo a partire dal ’72, fecero scalpore: prima di allora - negli anni in cui ogni notte le porte della città vecchia venivano chiuse a chiave, e perfino gli occhiali da sole erano proibiti perché accusati di «coprire l’anima» - in Oman «era come se le donne non esistessero». Con l’arrivo al potere del ventinovenne nuovo sultano, il Paese che per secoli era stato il capolinea della «via dell’incenso» (e che presto sarebbe diventato un capolinea della «via del petrolio», dalla quale dipende il 70% dell’economia nazionale) virò: conservando però, negli anni e fino ad oggi, un affascinante equilibrio fra tradizione e modernità. L’Oman è soltanto a un’ora di aereo da Doha, la capitale del Qatar che con la sua luccicante skyline fa il verso a Manhattan (e a Shangai), e a 40 minuti da Dubai, il vorticoso centro finanziario degli Emirati anch’esso goloso di un’America che resta modello ambito, anche se non privo di interrogativi e ambiguità. Ma le differenze con i più ricchi vicini sono vistose: niente a Muscat ricorda New York, a parte le autostrade che collegano il vecchio nucleo intorno al porto - difeso dalle rocche di Jabali e Mirani - ai sobborghi oggetto di un’espansione edilizia affannosa, forse, ma non paragonabile a quella in atto a Doha, dove a pochi chilometri dal nuovissimo Museo di arte islamica realizzato dall’architetto cinese Ming Pei (lo stesso della piramide del Louvre) sta sorgendo «la Perla», il complesso residenziale più vasto del Golfo costruito con manodopera a basso costo pachistana e filippina (ma un’isoletta artificiale di poche centinaia di metri quadrati vale 25 milioni di dollari, progetto e realizzazione dell’edificio esclusi). E’ su questo sfondo di moderazione e sobrietà che si colloca l’attenzione del sultano verso le religioni non islamiche. In Oman - dove i cattolici sono 60 mila, immigrati o residenti temporanei - esistono 4 parrocchie rette da 7 sacerdoti. Le chiese sono state costruite su terreno donato da Qabus e a spese di quest’ultimo. Perfino i parcheggi per i fedeli sono gratuiti, un’eccezione. E’ una storia cominciata tanto tempo fa, quando il futuro sultano era un giovane studente in Gran Bretagna e la famiglia cristiana che lo ospitava gli mise a disposizione, spontaneamente, una seconda stanza. La convinzione che tutti hanno il diritto di pregare gli si è formata allora, in quella sua «piccola moschea».
Sempre da pagina 16 de La STAMPA, riportiamo l'articolo di Giuseppe Zaccaria "Ricostruire il dialogo con gli arabi ora si può" su un convegno nel quale, pur con qualche riserva che sa di ipocrisia, è stato proposto un inaccettabile parallelo tra "imperialismo neo-con americano" e millenarismo "terroristico di Al Qaeda". Vale la pena di ricordare che ciò che il politicamente corretto chiama "imperialismo", è stato in realtà la reazione difensiva dell'America attaccata, l'11 settembre 2001, dal terrorismo islamista.
Ecco il testo:
Per dispiegare sul mondo le sue conclusioni di saggezza un «think tank» avrebbe bisogno anzitutto di essere ascoltato dal potere, e questo fino a oggi è accaduto molto di rado. A sua volta però il potere ha bisogno di riferirsi a gruppi di studiosi autorevoli e indipendenti credibili e di autorità riconosciuta, e di simili gruppi finora l’Italia non ha potuto disporre. Tenta di colmare il vuoto il nuovo «Center for Ethics and Global Politics» fondato dall’Università Luiss-Guido Carli sotto la direzione del professor Sebastiano Maffettone, docente di filosofia politica. Il primo appuntamento pubblico s’è inaugurato ieri con l’inizio giornata di un convegno dedicato alla «Ricostruzione del dialogo con il mondo arabo». Ad organizzato oltre che Maffettone e Francesca Corrao dell’Università Orientale di Napoli, c’è l’associazione «Humanity» e l’elenco dei partecipanti è di primo livello: dal poeta siriano Adonis, considerato da molti critici il più grande poeta arabo vivente; a Fahima Saraf al Din, nota docente libanese; al filosofo siriano Al Azm, sostenitore del laicismo radicale; all’egiziano Hassan Hanafi; a Samir al Qariuty di «Al Jazeera». La tesi di partenza si potrebbe sintetizzare così: la crisi simultanea dell’imperialismo neo-con americano e del millenarismo terroristico di Al Qaeda apre spazi di dialogo e disegna percorsi impensabili appena fino a ieri. «Naturalmente i due fenomeni non possono esser posti sullo stesso piano - spiega Maffettone - e il presidente di una nazione democratica non è paragonabile al capo di una orgnizzazione di terroristi, però esistono simmetrie da non sottovalutare. Proprio nel momento in cui George W. Bush conclude il suo mandato in maniera disastrosa, molti osservatori colgono anche il tramonto di Al Qaeda, che contrapponendo il terrorismo sunnita a quello sciita di Hezbollah e Iran ha finito col perdere posizioni». Secondo Adonis, pseudonimo di Ali Ahmad Said Isbir, che è di origine siriana e cittadinanza libanese, gli ostacoli a un «sincero e creativo» dialogo tra arabi e Occidente sono tanti e originano in quel messaggio «specifico e unico» che «esclude gli altri» proprio di ogni monoteismo. Dunque «se vogliamo un vero dialogo basato sull’eguaglianza» e non «sulla semplice tolleranza», «dovremmo innanzitutto rimuovere questi ostacoli». Ancora secondo il poeta e saggista siriano, bisogna affrontare l’aspetto per cui il messaggio «specifico e unico» delle religioni monoteiste che «esclude gli altri» nella prassi è mutato in «ideologia» che trasforma «la parola divina in strumento per il potere». Così il «cosiddetto dialogo tra religioni monoteiste si fonda su una differenza radicale» quella per cui «ciascuna di esse esclude l’altro nella propria visione di Dio».
L'aggressione jihadista all'Occidente è dimenticata anche dalla scrittrice e attivista femminista egiziana Nawal El Saadawi, intervistata da Umberto De Giovannangeli a pagina 20 dell'UNITA', in un intervista che fin dal titolo, "Obama, basta con le guerre solo così potrai sostenere la lotta delle donne islamiche", imputa alla difesa americana dal terrorismo l'arretratezza del mondo islamco in materia di diritti. Le parole di El Saadawi appaiono esemplari dell'incapacità di molti oppositori arabi e musulmani del fondamentalismo islamico e delle dittature mediorentali, laiche o religiose che siano, di prendere le distanze dalla cultura dell'odio che alimenta il primo e leggittima le seconde a fronte dei loro fallimenti. Si leggano, per averne conferma, le parole su Israele, demonizzata dall'intellettuale "dissidente" in un modo che non ha nulla da invidiare alla peggiore propaganda fondamentalista o di regime. U.d.g., ovviamente, non spende su questo una parola di critica, limitandosi ad ascoltare e a cambiare disinvoltamente argomento, "In ultimo vorrei tornare ai diritti delle donne" chiede dopo aver sentito che "Israele si erge a carceriere di un milione e mezzo di palestinesi".
Ecco il testo:
Niente fa più paura della verità. Niente è più pericoloso della conoscenza e del sapere in un mondo che costringe la donna a vivere nell’ombra. E quando qualcuno ha l’ardire di aprire il “vaso di Pandora”delle mille vessazioni a cui è sottoposta la donna, quel qualcuno diviene subito un pericoloso sovversivo da colpire e far tacere. Per sempre». A parlare èNawal El Saadawi,77 anni, la scrittrice femminista egiziana più conosciuta e premiata al mondo(i suoi libri sono tradotti in 18 lingue). Per essere la scrittrice che ha caratterizzato maggiormente ilmovimento femminista nelmondoarabo,Nawal El Saadawi ha pagato a caro prezzo il suo impegno a favore della liberazione delle donne. Il suo primo libro, Women and Sex, pubblicato nel 1972, un inno di battaglia contro la circoncisione femminile, le costa la cacciata dalministero della Sanità e la persecuzione delle autorità religiose. Alcuni suoi romanzi tra cui L'amore ai tempi del petrolio sono stati banditi e censurati dalla massima istituzione religiosa egiziana, l'università di Al Azhar, che ha ordinato il ritiro da tutte le librerie egiziane. «Il peggior nemico della donna egiziana, e più in generale di tutte le donne - riflette El Saadawi - è l'oppressione della conoscenza. Il mancato accesso all' istruzione, l'impossibilità di esprimere liberamente la propria opinione le rende schiave ». Dal '72, scrittura e impegnocivile divengono per lei inseparabili e si traducono in alcuni tra i libri più scioccanti sull'oppressione delle donne arabe. Ametà degli anni Novanta è costretta all'esilio perché il suo nome compare nella lista della morte di un gruppo fondamentalista; la «colpa» di cui si èmacchiata agli occhi dei «giustizieri di Allah» è quella di aver offeso la religione con i suoi romanzi sul sesso e sulle libertà individuali non contemplate dalla «sharia», la legge islamica. Nel 2001, l'ennesima persecuzione: solo una grande mobilitazione internazionale la salva da unprocesso per apostasia e dal divorzio coatto, chiesto contro la volontà sua e di suo marito, da un avvocato integralista. La scrittura come sfida all'oscurantismo fondamentalista. La parola come strumento di lotta contro le élite arabe da sempre al potere; quelle élite, che, denuncia la scrittrice egiziana, hanno fatto bancarotta morale, prima che politica, e che oggi si tengono in piedi solo grazie al sostegno complice dell'Occidente che vede in loro, sbagliando, un argine all'integralismo». Avversata dai jihadisti, mal tollerata dall'establishment politico-militare al potere in Egitto, Nawal El Saadawi è una figura scomoda anche l' l'Occidente. Da 15 anni vive negli Stati Uniti, dove insegna «Creatività e dissidenza ». alla Duke University. Scrittura e impegno civile hanno accompagnatoesegnatolasuavita. Ilsuoromanzopiù famoso, «La caduta dell'Islam», è stato sottoposto a censura e ritirato dalla circolazione con un decreto del Consiglio per gli studi islamici. Perché un romanzo fa così paura? «Perché aiuta a liberare lamente.Conla scusa dell'Islam, gli oscurantisti hanno inteso colpire lamia posizione sulla questione della infibulazione e per i diritti di quanti vengono da loro considerati dei paria, degli esseri inferiori, delle "non persone": le donne, gli omosessuali. E fanno questo con il placet di un potere che preferisce blandire i fondamentalisti per accaparrarsene i voti e per scatenarli contro gli avversari che temono di più: quelli che credono e si battono per uno stato di diritto e una società dei diritti. Una società a misura di donna». Le sue battaglie per i diritti delle donne e le libertà nel mondo arabo l'hanno portata anche, e più volte,adenunciarela politica americana in Medio Oriente perseguita dall'amministrazione Bush . «Per quanti sforzi possa fare, davvero non sono mai riuscita a pensare al signor Bush come unmio alleato. Semmai, con la scellerata guerra in Iraq e con l'acritico sostegno americano a Israele, Bush ha fornito agli integralisti altre armi di propaganda che sono servite per rafforzare le loro fila». Un j'accuse pesante... «Mafondato.Nonparlo per avversione ideologica, ho sperimentato personalmente a cosa possa portare il fanatismo e il pregiudizio ideologico. No, la mia accusa agli Stati Uniti è di segno opposto: è di aver messo tra parentesidiritti e libertà quando si è trattato e si tratta di difendere i propri interessi in Medio Oriente e nel mondo. Ciò che imputo al signor Bush e a tanti altri leader occidentali è la loro ambiguità, la loro "doppiamorale". Ciò che imputo loro è l'ipocrisia colpevole di chi ha sostenuto e sostiene regimi dispotici, corrotti, perché rappresentano il "male minore" rispetto allo spauracchio fondamentalista, finendo così per ottenere il risultato opposto: l'affermarsi dell'Islam radicale come disperata ricerca di identità». Un'amara considerazione... «Le cui conseguenze ho sperimentato sulla mia pelle. E come me, tantissime donne e uomini che continuano a battersi per una società, oltre che uno stato, di diritto». Dal20gennaio del2009alla presidenza degli Stati Uniti ci sarà Barack Obama. «In campagna elettorale ha parlato di cambiamento, di muri da abbattere, di speranza. Ha parlato da leader globale, spero che sia conseguente alle affermazioni fatte. Se dovessi incontrarlo, gli direi che se l'America intende davvero favorire la democrazia nel mondo arabo non ha bisogno di bombe, cannoni, eserciti. La democrazia non la si impone con la forza». Come agire allora? «Molti di questi regimi, penso ad esempio all'Egitto, vivono grazie agli aiuti, al sostegno economico e militare dell'Occidente. Ebbene, si dovrebbero vincolare questi aiuti e la cooperazione al rispetto dei diritti umani, delle libertà individuali e collettive. E tra i diritti da vincolare ci sono quelli legati alla condizione della donna». Come difendersi dalla deriva integralista? «Non certo perseguendo la folle linea delle "guerre preventive", ieri in Iraq domani in Iran... Dall'oscurantismo fondamentalista ci si difende promovendo innanzitutto la crescita della società civile. È questo un passaggio cruciale nell'affermazione di una democrazia sostanziale; altro che l'imposizione dall'esterno, con la forza, di una democraziamade in Usa. Una cosa è certa: il futuro del Medio Oriente, un futuro all'insegna dei diritti, non potrà essere garantito da quei dittatori, da quei regimi feudali e religiosi che marchiano, ingabbiandola, la nostra Regione. Quei regimi che purtroppo continuano a godere del sostegno dell'Occidente ». Tra questi regimi lei annovera anche quelli moderati? «Saranno “moderati”,o per meglio dire compiacenti, verso gli interessi americani, ma non certo “moderati”nel negare diritti fondamentali della persona. Si imprigionano persone per reati di opinione, si chiudono i pochi giornali indipendenti, si cerca di affossare con ognimezzo la crescita della società civile. Mi auguro con tutto il cuore che Barack Obama nonchiuda gli occhi di fronte a questo scempio di legalità e di diritti. Così come mi auguro che Obama intenda intervenire per porre fine alla più grande ingiustizia che oggi segna il MedioOriente: quella del popolo palestinese. Come non indignarsi e ribellarsi di fronte alle sofferenze indicibili imposte da Israele alla popolazione di Gaza, a cui viene negato il cibo, centellinata l'acqua. Come si può parlare di dialogo e di pace se Israele si erge a carceriere di un milione e mezzo di palestinesi?». In ultimo vorrei tornare ai diritti delle donne. «Una battaglia globale che non riguarda solo il mondo musulmano. Quando le donne lottano per idiritti umani inunsistema capitalistico patriarcale, vengono etichettate come traditrici della religione, del Paese, della cultura, della loro identità autentica, della morale, della castità. Camminando per le strade del Cairo e di Bruxelles ho incontrato giovani donne che si coprivano il capo con un velo, ma i cui jeans aderenti lasciavano scoperta la parte superiore dell'addome. Le donnesono le vittimepiù evidenti delle contraddizioni religiose e politiche: sono velate perché viene imposto dalla religione, e nude perché così vuole il consumismo della globalizzazione e del cosiddetto libero mercato». Dopo15 anni, leihadeciso di rientrare in Egitto.Conquali aspettative? «Il mio sogno, che è anche la ragione del mio impegno di donna e scrittrice, è che l’Egitto diventi un Paese indipendente, che possiamo liberarci dal dominio degli americani e degli inglesi, e che l’Egitto torni al potere creativo delle sue menti, perso a causa del colonialismo, e che ci sia un vero Rinascimento,una vera rivoluzione culturale, politica, economica».
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