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La catena di montaggio della disinformazione Il raid di Nuseirat, per la liberazione di ostaggi israeliani, per i media è diventata "strage di civili". Anche se poi la versione mediatica è stata smentita e i media stessi hanno rettificato le notizie, il concetto è passato e l'opinione pubblica non ha più cambiato idea. La disinformazione mediatica è diventata una catena di montaggio, inarrestabile, il primo anello è costituito dalle fonti di parte, quasi sempre di Hamas. La bugia, quando parte, viaggia in business class. La verità, se arriva, lo fa in terza classe e con ore di ritardo. Nel racconto mediatico su Israele, il flusso è sempre lo stesso: fonte di parte → agenzia internazionale → media nazionali → social network. Un nastro trasportatore che confeziona la notizia già pronta per il consumo, senza passare dalla dogana della verifica. La forza di questo meccanismo sta nella sua apparente naturalezza: nessuno si sente complice, tutti si definiscono “solo riportatori”. In realtà, ognuno contribuisce a dare alla bugia una patina di legittimità che la rende resistente a qualsiasi smentita. Fase 1 – La fonte di parte Fase 2 – Le agenzie internazionali Fase 3 – I media nazionali Fase 4 – I social network Un caso concreto? Nuseirat, 8 giugno 2024 Nei giorni seguenti, emergono dati diversi: molti dei morti erano miliziani armati, la cifra iniziale era gonfiata, e Hamas aveva usato i civili come scudi umani. Ma a quel punto l’immagine era già fissata: Israele come aggressore spietato, gli ostaggi come pretesto, e la realtà dei fatti relegata a note a piè di pagina. Il problema non è solo che la verità arrivi tardi. È che, quando arriva, trova il campo occupato: l’immagine mentale si è già formata, l’indignazione si è già consumata, il giudizio è già stato emesso. Chi diffonde la smentita appare difensore di Israele, e quindi sospetto. Questo sistema è una catena di montaggio perché ogni passaggio aggiunge un elemento di apparente solidità e credibilità: la fonte è “ufficiale”, l’agenzia è “affidabile”, il quotidiano nazionale è “autorevole”, il social network è “popolare”. Ma la materia prima, se è tossica, resta tossica. E una volta distribuita in milioni di copie, nessuna rettifica potrà mai bonificare il danno. In guerra, la prima vittima è la verità. Ma nella guerra mediatica su Israele, la verità non muore per caso: viene sacrificata scientemente sull’altare della velocità, dell’emotività e di un pregiudizio consolidato. E in questo sacrificio, tutti – dal cronista distratto al direttore compiacente – hanno le mani sporche.
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