'Un amico di Kafka', di Isaac Bashevic Singer
Recensione di Diego Gabutti
Testata: Italia Oggi
Data: 21/05/2022
Pagina: 12
Autore: Diego Gabutti
Titolo: 'Un amico di Kafka', di Isaac Bashevic Singer
Riprendiamo da ITALIA OGGI di oggi, 21/05/2022, la recensione a "Un amico di Kafka" di Isaac Bashevic Singer, di Diego Gabutti.

Un amico di Kafka - Isaac Bashevis Singer - Libro - Adelphi - Biblioteca  Adelphi | IBS
Isaac Bashevic Singer, Un amico di Kafka, Adelphi 2022, pp. 338, 22,00 euro.

Come ogni altra opera di Isaac Bashevic Singer, anche L’amico di Kafka, una raccolta di racconti del 1970, brulica di storie, l’occhio sempre fisso sulle folle formicolanti di Varsavia, di Tel Aviv, o di New York. Qui un ex attore imbolsito, là uno spazzacamino, una donna abbandonata, un uomo pio, un peccatore, un Giobbe in gonnella, uno scrittore, o un sensitivo da botta in testa che gli accende il sesto senso (come capita a Pippo nelle storie di Topolino).

Ogni tanto, dalla folla, emerge uno di questi personaggi, che i riflettori illuminano per un momento, lui parla, si spiega, viene spiegato, c’è un coro, la sua voce è coperta, automobili, carrozze, rituali religiosi che risalgono alla notte dei tempi, bestemmie, preghiere, quindi i riflettori si spengono, nessuno chiede il bis, e lui torna a confondersi con gli altri, subito inghiottito dalla folla. S’avanza allora un nuovo personaggio. Intorno a ogni nuovo personaggio che prende posto sotto i riflettori altri personaggi chiedono udienza. Ciascuno dice la sua battuta, accenna un passo di danza, poi rientra nell’ombra con un guizzo. Ogni racconto è la tessera d’un vasto e imperscrutabile puzzle. Ovunque «tristi e allegri occhi ebraici, antichi quanto la Diaspora».

In ogni angolo del puzzle – via via che l’immagine sembra precisarsi, ma naturalmente sembra soltanto, perché il Mondo è sfocato, è un Divenire – ci sono ebrei con spiegazioni da dare e da ricevere, torti da enumerare, prediche da subire e da impartire, idee da esprimere, guerre da combattere, vite da vivere, ghetti, sfide a scacchi, la Torah. Ma soprattutto ci sono interminabili discussioni con l’Onnipotente, che per sua natura non sente ragioni – è fatto così, eterno e immutabile – e qualunque cosa capiti è sempre, a lungo andare, per il meglio, che così è scritto, l’ha scritto lui. C’è «bisogno di tutti», a quanto pare: «Ebrei, cristiani, musulmani, Alessandro il Macedone, Carlomagno, Napoleone, persino Hitler. Ma perché, e per quale fine?  Cosa si propone la Divinità permettendo al gatto di mangiare il topo, al falco di uccidere il coniglio e agli studenti polacchi di aggredire gli ebrei?» Mistero. Dio è inconoscibile. Ma ci sono sempre blintzes da mangiare, caffetterie da frequentare, maskilim (o illuministi) da confutare. Tra gli altri personaggi che vanno in scena per la durata d’una novella – dopo di che cala il sipario, si rialza e loro niente, svaniti, perduti per sempre – c’è anche Franz Kafka.

A parlarcene, nel racconto che dà il titolo al libro, è un vecchio commediante in miseria, Jacques Koth, che «non era stato sempre un attore del teatro yiddish», né sempre in miseria. «Aveva calcato le scene anche in Francia e in Germania. Era stato amico di molte persone famose: aveva aiutato Chagall a trovare uno studio a Belleville, era stato spesso ospite di Israel Zangwill, era apparso in una produzione di Reinhardt e aveva mangiato con Piscator. Mi aveva mostrato le lettere che aveva ricevuto non soltanto da Kafka, ma anche da Jakob Wassermann, Stefan Zweig, Il’ja Erenburg, Romain Rolland e Martin Buber. Tutti gli davano del tu. Mi fece addirittura vedere lettere e fotografie di attrici famose con le quali aveva avuto una relazione». Per me – dice la voce narrante del racconto, uno scrittore dell’est – «“prestare” uno złoty a Jacques Kohn significava entrare in contatto col mondo dell’Europa occidentale».

E Kafka? «Ho perso i denti» – racconta Koth – «ma mi basta che una donna apra la bocca per notare le otturazioni. Kafka aveva lo stesso problema con la scrittura: vedeva tutti i difetti, suoi e altrui. La letteratura è per lo più opera di plebei e inetti come Zola e D’Annunzio. Io vedevo nel teatro gli stessi difetti che Kafka vedeva nella letteratura, ed è questo che ci ha unito. Lo strano però è che quando si trattava di teatro, Kafka era completamente cieco. Portava alle stelle le nostre mediocri commedie yiddish, e si innamorò follemente di un’attrice da strapazzo, Madame Tschissik. Quando penso che Kafka ha amato una simile creatura, l’ha sognata, provo imbarazzo per l’uomo e le sue illusioni». Kafka «scriveva una frase e subito la cancellava. Anche Otto Weininger [filosofo austriaco, autore di Sesso e carattere, un libro che ispirò Freud] era così: pazzo e geniale. Lo conobbi a Vienna... declamava aforismi e paradossi a getto continuo… Non dimenticherò mai uno dei suoi motti: “La cimice non l’ha creata Dio”. Bisogna conoscere Vienna per comprendere fino in fondo queste parole. Ma allora chi è stato a creare la cimice?» La voce narrante del racconto dice d’aver letto Il castello: «“Interessante, molto interessante, ma dove vuole andare a parare il tuo Kafka? È troppo lungo per essere un sogno. Le allegorie dovrebbero essere brevi”. Kohn ingoiò in fretta il boccone che stava masticando. “Un maestro”, disse, “non è tenuto a rispettare le regole”. “Ci sono regole che anche un maestro deve seguire. Nessun romanzo dovrebbe essere più lungo di Guerra e pace, e persino quello è troppo lungo. Se la Bibbia fosse in diciotto volumi sarebbe stata dimenticata da un pezzo”. “Il Talmud è in trentasei volumi eppure gli ebrei non l’hanno dimenticato”».

Persino Kafka – che ha cambiato da così a così la percezione del mondo di chiunque, dopo averlo letto, si sia svegliato il mattino dopo con la paura di guardarsi allo specchio, nel timore d’essersi trasformato anche all’esterno, come all’interno, in un grumo di spavento – persino Kafka non fa che un’apparizione fugace in un libro che ha il suo nome nel titolo (accanto al suo «amico», vero protagonista del racconto). Qui è soltanto un tizio nella folla, come ogni altro.

«Kafkiana», si scopre così, non è la sua particolare visione del mondo ma l’esperienza generale che del mondo e della condizione umana e si sono fatta gli ebrei, e per estensione ci siamo fatti tutti quanti noi: «ebrei, cristiani, musulmani, Alessandro il Macedone, Carlomagno, Napoleone, persino Hitler». Siamo tutti disposti come pedine sul tavoliere della Creazione. È una partita. Ma quale? Fatta eccezione per qualche ovvio comandamento scolpito sulla pietra al tempo delle piramidi, e remoti già allora, non conosciamo le regole del gioco, anzi non sappiamo nemmeno se si tratta davvero d’un gioco. E se anche questo gioco – come la cimice secondo Otto Weininger – non fosse stato creato da Dio? E da chi, allora?

«Sì, la storia la fanno i malvagi. Ho trovato la formula newtoniana della storia», esclama uno dei personaggi di Singer, sempre sullo sfondo, il tempo d’una battuta e via. Un altro personaggio, «il Rebbe» che «nei suoi sogni mostra i pugni al cielo», grida: «Tutto questo è per la Tua gloria, Assassino Celeste?»

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Diego Gabutti
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