La copertina
Quanta vita (e morte) e rinascita, e memoria, musica, fughe, esseri umani e ricordi, in questa saga famigliare di Gaia Servadio, scrittrice e giornalista nata nel 1938, l'anno delle leggi razziali. Quanta storia d'Italia che danza e insegue e schiaccia i personaggi, e a volte li salva accanto a un fosso. Il Novecento, eccolo, tutto intero, fino alla fine. A cominciare dal febbraio 1903, ancora i giorni del paradiso, in cui due cugini baldanzosi, ebrei con la passione per l'Opera, vagano in calesse per la campagna toscana pensando alla finocchiona e al Chianti che li aspettavano, e incontrano, tra un albero d'olivo e un cipresso, Giacomo Puccini. Sotto la sua automobile, una Isotta Fraschini che gli si era ribaltata addosso. I due cugini sono grandi fan, naturalmente Puccini è con una signorina, svenuta, e la moglie non deve scoprirlo. Come ti chiami? Zaccaria. "Zaccaria? Che nome! Lettere rubate Non sarai uno di quelli?". "Madonna santa, un giudeo... Tutte a me dovevano capitare! Più ebreo di così non si pub... Non mi tradirai, vero?". L'antisemitismo di Puccini ("Sei uguale a me... Insomma non si direbbe che sei un ebreo, neanche il naso storto hai") è grande lessico famigliare, scena tramandata ai nipoti, e certo meritava di essere l'incipit di questa saga in cui le voci si intrecciano, perché ciascuno deve dire la sua, come nelle cene di famiglia in cui si battibecca per prendere la parola. La famiglia Levi e la famiglia Foà sono molto diverse, ma la gioia di vivere e le leggi razziali definiscono, da quel giorno, la loro identità di italiani. Gaia Servadio vuole tenere l'ironia per mano, finché si pub, finché i bambini vengono costretti a dimenticare il proprio nome, a rimangiarselo, a morire. La scena del ritorno dai campi di concentramento, scheletri che scendono dal treno alla stazione di Verona, fa impazzire di rabbia non per i poveri "teschi ghignanti" che camminano a stento, ma per gli spettatori locali, andati fin lì "a vedere gli ebrei", a guardare lo spettacolo dei sopravvissuti, chissà se avevano la coda o le corna. Del resto era il pensiero di Puccini, no? "La mia mamma l'hanno uccisa. Gli aeroplani tedeschi. Il mio papà non sappiamo dov'è. Hanno ucciso anche la mia sorellina, che era tanto brava. Io adesso devo tagliarmi i capelli perché nella cantina c'era il tifo e c'erano anche i pidocchi". Priscilla. 5 anni.