Riportiamo dall'OPINIONE di oggi, 17/11/2010, a pag. 12, l'articolo di Dimitri Buffa dal titolo " Perché Hamas a Gaza tesse le lodi di Obama ".
Dimitri Buffa
Se uno va a Gaza in questi giorni potrà facilmente vedere su tutti i muri uno dei manifesti autorizzati dalla propaganda autorizzata dai caporioni di Hamas.
Nel manifesto si vede un Obama con la kefiah e sotto una scritta molto significativa: “Abu Hussain! Palestine loves you!!!”
Perché questa dichiarazione di amore improvvisa ma non del tutto inattesa? Nei giorni scorsi mentre la notizia in Italia veniva pressoché nascosta, la cosa ha dato via a un dibattito sul quotidiano “New York Post” che per primo ha riportato la circostanza. Dice il “NYP” che se questa dichiarazione è basata solo sul fraintendimento questo è chiaramente colpa dell’ambigua politica della mano tesa del presidente americano sia verso le organizzazioni terroristiche come Hamas ed Hezbollah sia verso gli Stati canaglia come l’Iran che ne sostengono l’azione armata. E di certo le continue dichiarazioni contro gli insediamenti ebraici a Gerusalemme Est possono venire percepite come amicizia unilaterale verso la causa dei palestinesi più oltranzisti. Inoltre avere scelto George Mitchell come proprio uomo in loco per la trattativa infinita tra palestinesi ed israeliani può essere stato inteso come un “ritorno al passato”, cioè all’epoca di Jimmy Carter, uno sponsor fanatico dell’irredentismo palestinese di Arafat e un nemico non dichiarato, ma nei fatti, della politica del governo di Gerusalemme. E infatti parlare di ritorno ai confini di prima della Guerra dei Sei Giorni del 1967, come ha spesso fatto Mitchell, è un “nonsense”: prima della guerra lampo in questione, che fu di difesa anche se preventiva, non c’era alcun confine ma solo linee di “cessate il fuoco” che risalivano addirittura alla precedente guerra del 1948, quella fatta da tutti gli Stati arabi contro il nascente Stato ebraico di Israele. Ma all’epoca uno Stato palestinese non esisteva, come non è mai esistito dopo che i dirigenti palestinesi lo rifiutarono quando l’Onu glielo offrì nel 1947, fidandosi che i cari fratelli arabi gliene avrebbero dato uno sullo stesso territorio di Israele una volta ricacciati nel mare gli odiati ebrei. Così non è andata e tuttora, a dirla tutta, Gaza è un pezzo di Egitto e la Cisgiordania un pezzo di Giordania, gentilmente offerti in comodato d’uso ai palestinesi da quegli stessi Stati che persero i territori in questione dopo la Guerra dei Sei Giorni. Nel senso che Israele, costretta dalle pressioni diplomatiche del dopoguerra, concesse questi territori dopo Oslo ai palestinesi invece che restituirli agli Stati che li avevano perduti in guerra. In pratica Egitto e Giordania usano da sempre l’avanguardia armata del popolo palestinese non solo per alimentare sottobanco la guerra fredda e il terrorismo contro Israele ma anche per creare una sorta di doppio Stato cuscinetto tra loro e Israele.
Questa dichiarazione di amore di Hamas per Obama ha provocato anche però i commenti preoccupati di molti media arabi della fazione moderata dei paesi del Maghreb, della Giordania e dell’Egitto, che ormai vedono Haniyah e i suoi accoliti al soldo dell’Iran come il fumo agli occhi. Il tutto poi in un momento in cui vengono fuori cose inenarrabili sulle torture del regime di Gaza sui propri cittadini, dentro e fuori dalle carceri.
In particolare in un articolo del “Sidney Morning Herald” dello scorso 30 ottobre era lo stesso dirigente della prigione di Gaza, Naser Suleiman, a sciogliere l’enigma se da quelle parti venisse o meno praticata la tortura per estorcere informazioni ai prigionieri: “Noi non pratichiamo la tortura qui. La tortura si fa nel centro interrogatori, prima che la gente sia condannata”.
Nell’articolo viene riportata anche la testimonianza di un detenuto con l’esperienza di tecniche di interrogatorio di Hamas, Atta Najar, un quarantenne padre di quattro figli, che racconta delle torture ricevute, il tutto “con l’approvazione del direttore del carcere”.
Nel pezzo del giornale australiano si dà conto del fatto che questa nuova prigione di massima sicurezza i detenuti sono stati a costretti a costruirsela da soli con i lavori forzati.
“L'aspetto più sorprendente della prigione – si legge nel reportage - è l'atmosfera ‘aperta’. Amici e parenti dei detenuti escono dalla porta principale senza ostacoli, come visitatori di un ospedale.”
Anche assenti sono le barre di acciaio, filo spinato e recinzioni elettriche che sono caratteristiche standard nella maggior parte delle carceri moderne.
Ma la spiegazione c’è: da questo campo di riabilitazione per assassini, stupratori e ladri, che ha anche tredici detenuti nel braccio dei condannati a morte, è inutile fuggire perché, come dice il direttore Suleiman con una onestà intellettuale disarmante, “la Striscia di Gaza è la vera prigione a cielo aperto dalla quale non c'è scampo”. Specie se è Hamas ad averti condannato.
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