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Elena Loewenthal - Nessuno ritorna a Baghdad - 27/03/2019 -

Nessuno ritorna a Baghdad
Elena Loewenthal
Bompiani

Il 17 maggio 1948 Violette chiuse per l’ultima volta la porta di casa. Girò la chiave tenendo la grande farfalla di ferro con entrambe le mani, vuoi perché era pesante e lei così̀ minuta, vuoi perché la serratura era vecchia, arrugginita e burbera, come se si sentisse sempre brutalmente violata dalla chiave.

Mentre Violette armeggiava con la porta, perché tanto l’una quanto l’altra erano coscienti del momento particolare, e se all’una tremavano le già fragili mani l’altra opponeva più resistenza del solito, Maurice guardò sua moglie con un misto di compassione e perplessità e da dietro il finestrino chiuso dell’auto scosse vigorosamente la testa.
«Violette, lascia perdere, dobbiamo andare! E’ tardi!».
«Un attimo», bisbigliò lei girando il capo.
«Perché ti ostini a chiudere? Che senso ha, me lo dici?» quasi urlò Maurice, affacciandosi dal finestrino che intanto aveva abbassato. All’udire il timbro troppo alto della propria voce, s’interruppe di colpo e sporse la testa per guardarsi intorno, cercando di capire se qualcuno lo aveva sentito, anche se era molto presto. Poi rialzò il finestrino girando la maniglia cigolante della portiera e tornò a fissare sua moglie, che stava estraendo la chiave, sempre con tutte e due le mani.
Accanto a lei c’era un sacco di tela spessa. Si chinò con fatica, lo prese per i due manici fatti di una fettuccia di stoffa che tempo prima doveva essere stata bianca e lo sollevò̀ con una mano, tenendo l’altra premuta contro il fondoschiena. Aveva tanto male in quel punto, soprattutto quando si piegava e sentiva la pancia salire fino all’attaccatura dei polmoni, e anche se il bambino doveva essersi già̀ girato verso il canale di parto, lei era sicura che la testa e i capelli ispidi le stessero ancora solleticando la cassa toracica, i polmoni e il cuore.
Era anche sicura che avesse tanti capelli neri e dritti e spessi, le sopracciglia folte, non da neonato. E naturalmente che fosse un maschio.
Invece era una bambina, e sarebbe venuta al mondo sgranando gli occhi per lo stupore, in testa una lanugine bionda quasi invisibile che di lì a qualche giorno e un bel po’ di chilometri di distanza sarebbe caduta lasciando una testolina liscia e lucida e morbida, da accarezzare con la punta delle dita per non farle male.
«Violette, su! Dobbiamo andare!» la chiamò Maurice, senza abbassare il finestrino.
Lei prese il sacco e ci buttò dentro la chiave, seguendone con lo sguardo la discesa. Poi alzò la testa e fece a suo marito un gesto strano, non da lei: allungò il braccio destro, allargò il palmo della mano e tutte e cinque le dita e lo fissò con un piglio corrucciato, come a dirgli che lei aveva ancora delle faccende importanti da sbrigare, e che la lasciasse fare.
Non aprì bocca.
Era da due giorni che Violette non apriva bocca per parlare. Due giorni di assoluto silenzio, da quando Maurice le aveva detto che il 17 sarebbero partiti. Che la situazione era troppo preoccupante. Che ne andava della vita loro e soprattutto del loro bambino.
Che bisognava fuggire da Baghdad perché la città, e tutto il Paese con essa, erano diventati troppo pericolosi.
E bisognava andare subito. Visto l’incalzare degli eventi.
«Aspetta», dissero gli occhi bui di Violette. Bui e celesti, di un celeste più chiaro e trasparente dell’acqua di mare sulla riva, quando il sole è alto.
Con la borsa in spalla, come una gobba che faceva da contrappeso alla pancia bassa e pesante, Violette s’incamminò lungo il muro della casa. Suo marito la perse di vista, ma non trovò il coraggio di scendere dall’auto e seguirla.
L’aspettò nella speranza, non nella certezza, che sarebbe tornata per partire con lui. Quella certezza del resto era sfumata già due notti prima, dopo che le aveva detto: «Violette, dobbiamo scappare. Qui prima o poi ci ammazzerano tutti».
Nel buio, accanto a lui sul letto, il guanciale di Violette aveva rilasciato un fruscio lungo e pesante, quasi stridulo. Un breve sussulto aveva attraversato la schiena di sua moglie sotto il tessuto leggero della camicia da notte. Non un gemito, non una parola, però. E quel moto di un corpo, anzi, di un corpo e mezzo - il suo e quello del bambino che presto sarebbe nato -, che cos’era? Che cosa voleva dire? Disdegno? Dolore? Incredulità? No, io non vengo? Maurice non poteva saperlo, che cosa avesse Violette in mente e dentro il cuore.

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