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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Varie
21/3/02 Una pace impossibile
Riflessione di Benny Morris


Pubblichiamo l'articolo dello storico israeliano Benny Morris malgrado sia apparso sul Guardian e non sulla stampa italiana. Che invece è oggetto del nostro monitoraggio.



Il libro di Morris, "Vittime", suscitò una forte adesione alle sue tesi pro-palestinesi. Fu citato a sostegno di tutte le posizioni anti-israeliane. Ma dallo scorso anno Morris ha cambiato opinione. Come già facemmo su LIBERO nello scorso novembre,dopo una lunga intervista con lo stesso Morris nella quale esponeva le sue nuove posizioni, così facciamo su Informazione Corretta. E' giusto che i nostri lettori sappiano che,almeno nelle intenzioni dell'autore, le "vittime" hanno assunto un'altra definizione.



(A.P.)



Le voci secondo le quali sarei stato sottoposto ad un trapianto di cervello sono (per quanto ricordi) infondate, o quantomeno premature. Ma la mia opinione sull'attuale crisi mediorientale e sui suoi protagonisti è radicalmente cambiata nel corso degli ultimi due anni. Mi sento un po' come uno di quei viaggiatori occidentali risvegliatosi bruscamente dal rumore dei carri armati russi che facevano irruzione a Budapest nel 1956.



Nel 1993 ho cominciato una pubblicazione sulle vittime "giuste", una storia revisionista del conflitto arabo-sionista dal 1881 fino ad oggi. Ero moderatamente ottimista sulle prospettive di pace per il Medio Oriente. Non sono mai stato un ottimista fino in fondo, e i miei studi graduali nel corso degli anni '90 della storia precedente al 1948 e relativa ai rapporti tra i palestinesi e i sionisti mi hanno riportato alla profondità e all'ampiezza dei problemi e delle contraddizioni. Ma almeno gli israeliani e i palestinesi parlavano di pace; erano d'accordo sul mutuo riconoscimento; ed avevano sottoscritto l'accordo di Oslo, un primo passo che lasciava presagire il graduale ritiro di Israele dai territori occupati , la necessità di uno stato palestinese ed un trattato di pace tra i due popoli. Sembrava che i palestinesi avessero rinunciato ai loro decennali sogni ed obiettivi di distruggere e disgregare lo stato ebraico, e che gli israeliani avessero abbandonato il sogno di "uno stato israeliano più esteso", dal Mediterraneo al fiume Giordano. E, data la centralità dei rapporti israelo-palestinesi nel conflitto arabo-israeliano, un accordo di pace globale e definitivo tra Israele e tutti i Paesi arabi sembrava a portata di mano.



Ma prima che completassi il libro, il mio moderato ottimismo ha lasciato spazio a seri dubbi - e nel giro di un anno si è trasformato in un pessimismo cosmico. La prima ragione era il rifiuto, da parte dei siriani, delle proposte formulate dai primi ministri Yitzhak Rabin e Shimon Peres nel 1993-96 e da Ehud Barak nel 1999-2000 che comprendevano il ritiro delle truppe israeliane dalle Alture del Golan in cambio di un trattato di pace bilaterale. Quello che sembrava aver frenato il Presidente Hafez Assad e, in seguito, il figlio e suo successore Bashar Assad, non erano capricci per qualche centinaio di metri qua o là, ma un netto rifiuto di stringere un accordo di pace con lo stato ebraico. Alla fine, ha vinto la presenza sullepareti dell'ufficio degli Assad di un ritratto di Saladino, il leggendario guerriero musulmano curdo del XII secolo che aveva sconfitto i crociati, spesso identificati dagli arabi con i sionisti. Già vedo il padre sul letto di morte che si rivolge a suo figlio: "Fai quello che vuoi, ma non fare la pace con gli ebrei: come i crociati, anche loro si dilegueranno."



Ma il motivo principale che ha sollevato e cristallizzato il mio pessimismo è stata la figura di Yasser Arafat, che è alla guida del movimento nazionale palestinese dalla fine degli anni sessanta e, in virtù degli accordi di Oslo, ha il controllo sulle città del West Bank (Hebron, Betlemme, Ramallah, Nablus, Jenin, Tulkarm e Qalqilya) e dintorni e su gran parte della Striscia di Gaza.



Arafat è il simbolo del movimento, che meglio riflette le miserie del suo popolo e le aspirazioni collettive. Purtroppo, si è dimostrato un degno successore di Haj Muhammad Amin al Husseini, muftì di Gerusalemme, che ha guidato i palestinesi nella loro ribellione degli anni trenta (fallita) contro il governo britannico e, durante gli anni quaranta, nel loro tentativo (fallito) di impedire la nascita dello stato ebraico nel 1948, che ha provocato la loro catastrofica sconfitta e la creazione del problema dei rifugiati palestinesi. Husseini era stato implacabile quanto incompetente (un mix pericoloso) - ma anche un imbroglione e un bugiardo. Nessuno aveva fiducia in lui, né i suoi colleghi arabi, né gli inglesi, né i sionisti.



Soprattutto, Husseini incarnava il rifiuto; il rifiuto di qualsiasi compromesso con il movimento sionista. Aveva rigettato due proposte internazionali di dividere il Paese in due stati, uno ebraico e uno arabo, da parte della Commissione Britannica Peel nel 1937 e da parte dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel novembre del 1947.



Nel frattempo, aveva trascorso gli anni della guerra (1941-45) a Berlino, lavorando per il ministero degli esteri nazista e reclutando bosniaci musulmani per la Wehrmacht.



Abba Eban, il ministro degli esteri israeliano, una volta ha detto scherzosamente che i palestinesi non perdevano mai l'occasione di lasciarsi scappare una possibilità. Ma nessuno può rimproverarli di incoerenza. Dopo Husseini è arrivato Arafat, altro implacabile nazionalista e mentitore accanito, poco credibile agli occhi dei leader arabi, israeliani o americani (a differenza di molti europei che avevano fiducia in lui).



Nel 1978-79, si è rifiutato di sottoscrivere gli accordi israelo-egiziani di Camp David, che avrebbero portato alla costituzione di uno Stato palestinese dieci anni fa.



Nel 2000, voltando le spalle al processo di Oslo, Arafat ha respinto per l'ennesima volta un altro compromesso storico, ovvero le proposte di Barak a Camp David a luglio e successivamente migliorate con l'integrazione delle proposte di Clinton (con il sostegno di Barak) a dicembre. Invece, i palestinesi, a settembre, hanno fatto ricorso alle armi, lanciando l'attuale mini-guerra o intifada, che ha provocato finora la morte di centinaia di arabi e di israeliani, e un odio più radicato da ambedue le parti al punto che l'idea di un compromesso territoriale-politico sembra essere un sogno nel cassetto.



I palestinesi e i loro simpatizzanti hanno incolpato gli israeliani e Clinton per quanto accaduto: le umiliazioni e le restrizioni quotidiane conseguenti alla continua semi-occupazione israeliana; i rinvii dell'astuto ma trasparente Netanyahu negli anni 1996-99; l'espansione ininterrotta degli insediamenti nei territori occupati sotto Barak e i suoi modi alteri nei confronti di Arafat; e l'insistenza di Clinton nel voler organizzare l'incontro di Camp David malgrado i palestinesi lamentassero il fatto di non essere ancora pronti.



Ma, a dire il vero, tutto questo esula dal punto cruciale: Barak, leader sincero e coraggioso, ha offerto ad Arafat la possibilità di un accordo di pace soddisfacente che comprendeva il ritiro di Israele dal 91% del West Bank e dal 100% della Striscia di Gaza; l'eliminazione della maggior parte degli insediamenti; la sovranità palestinese sui quartieri arabi di Gerusalemme est e la creazione di uno Stato palestinese. Per quanto riguarda il Monte del Tempio (Haram ash-Sharif) nella città vecchia di Gerusalemme, Barak aveva proposto un controllo congiunto israelo-palestinese, il monitoraggio del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o la "sovranità divina" sotto l'attuale controllo arabo. Quanto ai rifugiati palestinesi, Barak aveva offerto un immediato ritorno in Israele ed un ingente risarcimento finanziario per facilitare il loro reinserimento negli Stati arabi e nel nuovo Stato palestinese.



Arafat ha rifiutato l'offerta, insistendo sul ritiro di Israele dal 100% dei territori, la sola sovranità palestinese sul Monte del Tempio e "il diritto di ritorno" dei rifugiati in Israele. Invece di continuare a negoziare, i palestinesi -con l'agile Arafat pronto a cavalcare la tigre e a manovrare dietro le quinte- hanno lanciato l'intifada. Clinton (e Barak) hanno risposto alzando la percentuale del West Bank al 96% (con alcune concessioni territoriali da parte di Israele) e la sovranità sulla superficie del Monte del Tempio, con il controllo israeliano sulla zona sottostante dove i palestinesi hanno recentemente effettuato degli scavi senza un'adeguata supervisione archeologica.



Per l'ennesima volta, i palestinesi hanno respinto le proposte, insistendo sulla sola sovranità palestinese sul Monte del Tempio (sicuramente una richiesta ingiusta: dopo tutto, il Monte del Tempio e i resti del tempiosono il più importante simbolo religioso e storico nonché luogo sacro del popolo ebraico. Vale la pena di ricordare che "Gerusalemme" o le sue varianti in arabo non sono citati nemmeno una volta nel Corano).



Dopo questi rifiuti -che hanno portato direttamente alla sconfitta di Barak e all'elezione di Sharon come Primo Ministro- gli israeliani e i palestinesi si sono presi per la gola, e la semi-occupazione è andata avanti.



L'intifada è una specie di guerra strana, triste, con il cane bastonato che ha rifiutato la pace contestualmente nel ruolo di aggressore e, in presenza delle telecamere occidentali, di vittima. Il semi-occupante, con il suo esercito potente ma fondamentalmente inutilizzato, si limita semplicemente a rispondere in virtù delle restrizioni morali e internazionali entro le quali si trova ad operare. E Israele esce sconfitto sulla CNN perché i bombardamenti degli F-16 sugli edifici vuoti della polizia fanno più effetto degli attentatori suicidi che uccidono 10 o 20 civili israeliani per volta.



L'Autorità Palestinese si è dimostrata essere il regno virtuale della falsità, dove ogni funzionario, dal Presidente Arafat in giù, passa il tempoa raccontare bugie ai giornalisti occidentali.



Normalmente, i corrispondenti attribuiscono a queste bugie la stessa o una maggiore importanza rispetto alle veritiere o comunque meno mendaci dichiarazioni dei funzionari israeliani. Un giorno Arafat accusa le Forze di Difesa Israeliane (IDF) di usare proiettili con la punta di uranio contro i civili palestinesi. Il giorno dopo parla di gas velenoso. Successivamente, per mancanza di elementi probatori, le accuse svaniscono nel nulla;-e i palestinesi procedono con altre menzogne che vengono riportate sulle prime pagine dei quotidiani arabi ed occidentali.



Quotidianamente, i funzionari palestinesi condannano i "massacri" e i "bombardamenti" di Israele contro i civili palestinesi, quando in realtà non ci sono stati massacri e i bombardamenti sono regolarmente diretti contro edifici vuoti dell'AP. Gli unici obiettivi civili che vengono deliberatamente colpiti in gran numero, e massacrati, sono gli israeliani per mano degli attentatori suicidi palestinesi. In risposta, l'esercito e lo Shin Bet (il servizio di sicurezza israeliano) hanno cercato di colpire i responsabili attraverso "uccisioni mirate" dei fabbricanti di ordigni, dei terroristi e dei loro mandanti, a mio avviso, una forma altamente morale di rappresaglia, deterrenza e prevenzione: questi sono "soldati" (barbari) in una mini-guerra e, come tale, obiettivi militari legittimi. Forse i critici preferirebbero che Israele rispondesse con la stessa moneta ad un attacco suicida a Tel Aviv?



I leader palestinesi regolarmente elogiano gli attentatori suicidi come eroi nazionali. In una recente serie di articoli, i giornalisti palestinesi , i politici e i religiosi hanno tessuto le lodi di Wafa Idris, un'attentatrice suicida che si è fatta esplodere in aria nella via principale di Gerusalemme -Jaffa Street-, uccidendo un uomo di 81 anni e ferendone circa 100. In seguito è scoppiata una polemica - non sullavalidità morale o politica del gesto ma sul fatto che l'Islam consenta alle donne di svolgere questo ruolo.



Invece di essere informati minuziosamente sulle offerte di pace israeliane, i palestinesi sono stati bombardati ininterrottamente dai media controllati dall'AP con incitamenti e menzogne anti-israeliani. Arafat ha liquidato la pratica abilmente, dicendo una cosa agli occidentali e un'altra agli elettori palestinesi. Successivamente, rivolgendosi ai telespettatori arabi, ha iniziato a usare il termine "l'esercito sionista" (per l'IDF), un ritorno agli anni '50 e '60 quando i leader arabi parlavano regolarmente di "entità sionista" invece di "Israele" che, secondo loro, implicava una forma di riconoscimento dello stato ebraico e della sua legittimità.



In fondo, questo problema della legittimità - che sembrava accantonato dopo i trattati di pace israelo-egiziano e israelo-giordano - è attualmente motivo di preoccupazione per gli israeliani e della mia "conversione".



Per decenni, i leader israeliani -in particolare Golda Meir nel 1969- hanno negato l'esistenza di un "popolo palestinese" e la legittimità delle aspirazioni palestinesi per la sovranità. Ma durante gli anni '30 e '40, il movimento sionista ha abbandonato il sogno di uno "Stato d'Israele più esteso", rinunciando alla spartizione della Palestina con gli arabi. Negli anni '90 il movimento è andato oltre - acconsentendo alla spartizione e al riconoscimento dell'esistenza del popolo palestinese come partner nel processo di spartizione.



Purtroppo, il movimento nazionale palestinese, sin dagli inizi, ha negato la legittimità del movimento sionista, maturando la visione di una "Palestina più grande", ovvero di uno Stato in tutta la Palestina popolato da arabi musulmani sotto il controllo degli arabi, magari con qualche ebreo in rappresentanza di una minoranza religiosa.



Nel 1988-93, in un breve momentodi lucidità, Arafat e l'OLP sembravano decisi all'idea di un compromesso. Ma dal 2000 la visione dominante di una "Palestina più grande" è ritornata in auge come in passato (e qualcuno si chiede se le dichiarazioni pacifiste del 1988-1993 non fossero che semplici escamotages diplomatici).



La leadership palestinese, e con essa la maggior parte dei palestinesi, nega il diritto di esistenza dello stato israeliano, nega che il sionismo sia stato/sia semplicemente un movimento. (Devo ancora vedere un solo leader palestinese pacifista, come sembra essere Sari Nusseibeh, alzarsi in piedi edire: "Il Sionismo è un movimento di liberazione nazionale legittimo, esattamente come il nostro. E gli ebrei rivendicano giustamente la Palestina, proprio come noi"). Al momento, Israele esiste ed è troppo potente per essere distrutto; la realtà è questa. Ma ciò non equivale a riconoscerne la legittimità. Da qui le reiterate negazioni, negli ultimi tempi, di Arafat, riguardo ad eventuali collegamenti tra il popolo ebraico e il Monte del Tempio e, per estensione, tra il popolo ebraico e la terra di Israele/Palestina. "Quale Tempio?" chiede. Gli ebrei non sono che ladri arrivati dall'Europa che hanno deciso, per motivi imprecisati, di sottrarci la Palestina e cacciare i palestinesi. Si rifiuta di riconoscere la storia e la realtà di un legame ebraico di 3000 anni con la terra di Israele.



Da un punto di vista meramente simbolico, il Monte del Tempio rappresenta un nodo cruciale. Ma più praticamente, il vero problema, la vera cartina di tornasole delle intenzioni dei palestinesi, è la sorte dei rifugiati, circa 4 milioni, compresi quelli che sono fuggiti o sono stati cacciati durante la guerra del 1948 ai quali non è mai stato concesso, così come ai loro posteri, di ritornare nelle loro case in Israele.



A metà degli anni Ottanta, ho indagato sulle cause che hanno portato alla creazione del problema dei rifugiati, con la pubblicazione del 1988 "La nascita del problema dei rifugiati palestinesi, 1947-1949".



Sono giunto ad una conclusione, che ha irritato molti israeliani ed ha inciso negativamente sulla storiografia sionista: la maggior parte dei rifugiati era una conseguenza dell'azione militare sionista e, in misura minore, di ordini di espulsione israeliani, e ordini o raccomandazioni dei leader arabi locali di abbandonare la zona. In seguito, i critici di Israele hanno evidenziato quegli studi che mettevano in luce la responsabilità di Israele, ignorando invece il fatto che il problema era una diretta conseguenza della guerra che i palestinesi - e, con loro, i vicini stati arabi - avevano iniziato. E in pochi hanno rilevato che, nel mio commento finale, avevo spiegato che la nascita del problema era "quasi inevitabile", in considerazione dell'obiettivo sionista di costituire uno stato ebraico in una terra largamente popolata dagli arabi e della resistenza araba al movimento sionista. I rifugiati erano inevitabilmente la conseguenza secondaria del tentativo di far entrare un palo quadrato in un foro rotondo. Ma, a prescindere dai miei studi, adesso siamo 50 anni avanti - e Israele esiste.



Come ogni altro popolo, gli ebrei hanno diritto ad uno stato e non si farà certo giustizia gettandoli in mare. E se i rifugiati potranno tornare a casa, si verificherà un caos indescrivibile e, alla fine, addio Israele.



Attualmente in Israele vivono 5 milioni di ebrei e più di un milione di arabi (una bomba a orologeria sempre più vociante, irredentista, pro-palestinese). Se i rifugiati torneranno, nascerà un entità bi-nazionale ingestibile e, considerando i tassi di natalità molto più elevati tra gli arabi, Israele ben presto cesserà di essere uno stato ebraico. Aggiungiamo gli arabi del West Bank e della Striscia di Gaza e avremo, quasi istantaneamente, uno Stato arabo tra il Mediterraneo ed il fiume Giordano con una minoranza ebraica.



Gli ebrei hanno vissuto in minoranza negli stati musulmani a partire dal settimo secolo e, contrariamente alla propaganda araba, non è stata per loro un'esperienza piacevole. Erano perennemente considerati cittadini di serie B e sempre discriminati come infedeli; sono stati sovente perseguitati e non di rado assassinati. Nel corso dei secoli ci sono stati eccidi di massa. E negli anni '40 criminali arabi hanno assassinato centinaia di ebrei a Baghdad, e altre centinaia in Libia, Egitto e Marocco. Gli ebrei sono stati espulsi o sono scappati dal mondo arabo durante gli anni '50 e '60. Non c'è motivo di pensare che gli ebrei vorranno nuovamente vivere come minoranza in uno stato arabo palestinese, soprattutto in considerazione della tragica storia dei rapporti ebraico-palestinesi. Saranno espulsi o emigreranno ad occidente.



E' il rifiuto da parte della leadership palestinese delle proposte di pace Barak-Clinton del luglio-dicembre 2000, l'inizio dell'intifada e la richiesta che Israele accettasse il "diritto di ritorno" che mi hanno convinto che i palestinesi, almeno in questa generazione, non vogliono la pace: non vogliono, semplicemente, la fine dell'occupazione; ovvero le proposte formulate nel luglio-dicembre 2000 che essi stessi hanno rifiutato.Vogliono tutta la Palestina e il minor numero possibile di ebrei. Il diritto di ritorno è il grimaldello con cui forzare lo stato ebraico. La demografia (il tasso di natalità è molto più elevato tra gli arabi) nel tempo farà il resto, sempre che le armi nucleari iraniane o irachene non colpiscano prima. E non fraintendetemi. Io sono a favore di un ritiro israeliano dai territori, nel quadro di un accordo di pace bilaterale;: la semi-occupazione è immorale e ingiusta e allontana i partner stranieri di Israele; o, se non si riuscirà a raggiungere un accordo, (sono a favore) di un ritiro unilaterale in direzione dei confini strategicamente difendibili.



Nel 1988 sono stato rinchiuso in un carcere militare per essermi rifiutato di prestare servizio a Nablus nel West Bank.



Tuttavia, non ritengo che lo status quo risultante possa durare a lungo. I palestinesi - l'AP stessa o le varie fazioni armate, sotto l'egida dell'AP, continueranno a colpire Israele con i razzi Katyusha e gli attentatori suicidi, lungo i nuovi confini, concordati o stabiliti volontariamente. In ultimo, costringeranno Israele a riconquistare il West Bank o la Striscia di Gaza, provocando probabilmente un nuovo, più esteso conflitto in Medio Oriente.



Non credo che Arafat e i suoi colleghi vogliano la pace; e non credo che si troverà una soluzione permanente a due Stati. Non penso che Arafat sia costituzionalmente in grado di acconsentire, realmente, ad una soluzione che darebbe il 22-25% del territorio (uno stato che si espanderebbe dal West Bank a Gaza) ai palestinesi e il restante 75-78% a Israele o di sottoscrivere il "diritto di ritorno". Arafat è incapace di rivolgersi ai rifugiati in Libano, Siria, Giordania e di dirgli in faccia: "Io ho firmato il vostro diritto di nascita, la vostra speranza, il vostro sogno".E probabilmente nemmeno lui lo vuole.



Infine, credo, l'equilibrio delle forze militari o la demografia della Palestina, ovvero il discrepante tasso di natalità nazionale, determineranno il futuro del Paese; quindi o la Palestina diventerà uno stato ebraico, senza una cospicua minoranza araba, o diventerà uno stato arabo, con un numero sempre minore di ebrei.



O diventerà la terra di nessuno.



Benny Morris da The Guardian Marzo 2002


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