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15/4/02 IL PREZZO DI UNA VITA NORMALE
Riflessione di Giorgia Greco
Non finiscono di piangere, non finiscono di contare i morti, non finiscono di raccogliere i feriti, gli israeliani.

Da oltre un anno gli attentati sono diventati la tragica consuetudine dei giorni di festa e colpiscono ogni volta con rinnovata violenza un popolo che non vuole arrendersi a vivere una vita che non è più tale.

Venerdì 12 aprile, come tutti i venerdì il mercato era pieno di gente che si preparava ad accogliere il sabato: le donne compravano il pesce, la challà, i dolci.

"Shabbat Shalòm" si salutano gli israeliani, con un' allegria che suona un po' forzata in questi giorni, ma con la determinazione di chi non vuole essere "ostaggio" della paura dei terroristi.

Il mercato di Mahanè Yehuda, tappa quasi obbligata per i turisti in visita a Gerusalemme, è un caleidoscopio di odori, colori, suoni e sapori.

Ogni giorno dalle prime ore del mattino gli israeliani affollano le strette gallerie del mercato dove si espone ogni genere di prodotto alimentare: gli effluvi di aromi speziati si mescolano al delicato profumo della frutta freschissima, all'odore del miele che cola dai dolcetti ammonticchiati sui banchi e sullo sfondo un vociare continuo di contrattazioni e di prezzi. E' in mezzo a questa "normale quotidianità" che in pochi secondi si scatena l'inferno.

Un luogo più appropriato per un attentato non avrebbe potuto sceglierlo, la kamikaze: cerca di entrare nel vicolo del formaggio, dove è sicura di fare un numero più alto di vittime, ma è bloccata dalla sorveglianza. Si sposta allora di qualche metro e poi aziona il corpetto esplosivo: è una strage, 6 morti e 80 feriti.

Non è la prima volta che il mercato viene colpito da una bomba umana; ero a Gerusalemme nel 1997, quando alla vigilia di una nuova missione dell'inviato americano Dennis Ross, il 30 luglio due kamikaze si sono fatti esplodere nello stesso mercato: il bilancio ancor più atroce 15 morti e 156 feriti.

Non è cambiato nulla: identico il dolore, identica la disperazione ma se cinque anni fa c'era ancora qualcuno che sperava in un cambiamento della situazione, quello che oggi si osserva nella società israeliana è il progressivo radicalizzarsi della consapevolezza di non poter vivere una vita normale e di dover accettare la precarietà di un'esistenza che sarebbe intollerabile per chiunque.

E da questa tragedia, che pare non avere fine, condivisa con i familiari e gli amici in ogni luogo ed in ogni momento della giornata gli israeliani trovano una nuova forma di coesione: "Ho votato Barak, - mi ha detto un amico israeliano alcuni giorni fa - ma adesso sono d'accordo con l'operato di Sharon. Non trovo giusto che bambini palestinesi innocenti debbano soffrire ma, cosa possiamo fare ? Dobbiamo farci sterminare tutti?" Se a qualcuno importa ancora qualcosa di questo pezzetto di terra in Medio Oriente, occorre rimboccarsi le maniche e mettersi all'opera per impedire che un popolo venga annientato e l'altro, per la stoltezza dei suoi leader, non riesca a costituirsi come Stato.

Nel frattempo:

vorrei chiedere a quei pacifisti che vanno in pellegrinaggio da Arafat e che pontificano: "Ritiratevi dai Territori!", vorrei chiedere a quei giovani che sfilano nelle manifestazioni "Per la Pace" tronfi nella loro divisa da Kamikaze, vorrei chiedere a quei governanti europei che, saldi nelle loro convinzioni, propongono sanzioni economiche all'unico paese democratico del Medio Oriente, vorrei chiedere loro: "Guardate in faccia i superstiti degli attentati, le madri che hanno perso i figli, i bambini rimasti orfani, le nonne che non hanno più bambini da accudire perché i loro corpicini sono stati sparpagliati per le strade da una furia omicida e, solo dopo, fatevi questa domanda:

E' giusto che un popolo che ha tanto sofferto sia condannato ancora a vivere nel terrore? E' giusto che, dal più piccolo bambino israeliano al più anziano reduce dai campi di sterminio, debbano rinunciare a vivere una vita normale?



Giorgia Greco

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