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Wired Rassegna Stampa
14.08.2021 Marocco: la storia di Ikram Nazih
Commento di Davide Piacenza

Testata:Wired
Autore: Davide Piacenza
Titolo: «Perché non si parla di Ikram Nazih, la ragazza italiana in carcere in Marocco per blasfemia?»
Riprendiamo da WIRED, con il titolo "Perché non si parla di Ikram Nazih, la ragazza italiana in carcere in Marocco per blasfemia?", il commento di Davide Piacenza.

(segnalazione di Diego Gabutti)

In carcere in Marocco per un post su Facebook: sinistra muta su Ikram,  l'italiana che
Ikram Nazih


Non tutte le storie ottengono la stessa copertura mediatica: alcune durano lo spazio di poche ore; altre attraversano i nostri feed sui social network per un paio di giorni, quando sono fortunate; di altre ancora non sentiremo mai parlare. A quest’ultimo destino di oblio sembra destinata la vicenda di Ikram Nazih, ragazza di ventitré anni di Vimercate, cittadina a 25 chilometri da Milano, dov’è nata da due genitori di origine marocchina. Oggi Nazih vive – o sarebbe meglio dire: viveva – a Marsiglia, dove si stava laureando in giurisprudenza, ma ha completato le scuole dell’obbligo a Bergamo diplomandosi al liceo Falcone, dove i compagni la ricordano come una ragazza col velo di indole timida e dai modi educati. Il 20 giugno è partita per il Marocco con la famiglia per passare le vacanze dai parenti e celebrare la festa dell’Eid al Adha – o del Sacrificio, che ricorda quello di Abramo: quest’anno cadeva nella settimana del 20 luglio – ed è stata interrogata e poi arrestata all’aeroporto di Casablanca. Perché una ragazza di ventitré anni gentile e introversa finisce in stato di fermo di polizia durante un viaggio coi genitori? Il motivo risiede nella condivisione di un post Facebook risalente al 2019, e durata non più di qualche minuto: allora Nazih aveva cliccato “Condividi” su un meme molto diffuso in quel periodo che rendeva la sura 108 del Corano – quella detta dell’Abbondanza e che fa riferimento al paradiso musulmano, al sacrificio di Abramo e al Kawthar, il fiume di latte paradisiaco che scorre per volere di Allah – la “sura del whiskey”. Subissata di ingiurie da parte dei suoi contatti, la giovane donna aveva poi prontamente rimosso il post. Ma non è bastato, perché un’associazione religiosa marocchina aveva preso nota del misfatto e l’aveva denunciata alle autorità del paese del Maghreb. Quando ha rimesso piede in Marocco un mese e mezzo fa, dunque, Ikram Nazih è stata interrogata e condotta in prigione con una condanna di tre anni e mezzo di carcere e una multa di 50mila dirham (poco meno di 5mila euro). Di questa incredibile vicenda pesa anzitutto il silenzio in cui è avvolta: per Ikram Nazih è stata avviata una raccolta firme su Change.org che chiede al governo italiano di intervenire per risolvere la sua situazione, ma nessun politico di primo o secondo piano si è preso la briga di fare qualcosa per lei (unica eccezione, l’interrogazione parlamentare del deputato della Lega Massimiliano Capitanio).

L’ambasciatore italiano in Marocco Armando Bucco ha fatto sapere che sta “seguendo il caso, che è particolarmente delicato”, soprattutto perché Nazih ha la doppia cittadinanza italiana e marocchina, e la convenzione dell’Aia in questa evenienza non permette la protezione diplomatica in uno dei paesi coinvolti. Ma ancor più inaccettabile, specie in un ecosistema mediatico in cui la mobilitazione indignata a mezzo social è la prassi accettata, è registrare che un’ingiustizia così ignobile non ha smosso una foglia nella cosiddetta opinione pubblica. Sui giornali, salvo poche eccezioni (Luigi Manconi su Repubblica, Giuliana Sgrena sul Manifesto, Laura Cappon su Domani) Ikram Nazih non è apparsa che in qualche agile trafiletto, e nessuno dei più solerti vendicatori seriali di storture su Twitter ha mosso un dito sulla tastiera per chiederne la liberazione immediata. Com’è possibile che una storia del genere non ci faccia infuriare nel 2021, quando buona parte della nostra quotidianità passa per l’indignazione rituale per una battuta di un comico riuscita male, un articolo di giornale scorretto o lo scivolone di un politico? Forse perché il Marocco di Muhammad VI cerca di mostrarsi all’estero come uno stato moderno e improntato a un Islam moderato. O forse, più verosimilmente – per citare Sgrena – per “il timore di essere accusati di islamofobia”. Su piattaforme in cui discutere è sempre più arduo, il punto non è, infatti, che non si possa più dire niente, come vuole un mantra parodistico tanto in voga, quanto che certi discorsi portano sempre più spesso con sé accuse infamanti per chi le subisce e immediatamente appaganti per chi le muove, opponendo a qualsiasi sfumatura e complessità di opinione la certezza semplice e granitica dell’intransigenza prêt-à-retwitter (parlo per esperienza, ma non sono certo l’unico).

E finendo, è inevitabile, per scoraggiare qualsiasi intervento che richieda preziosi minuti per districarsi fra calunnie e insinuazioni. Viene da pensare, conoscendo come vanno le cose, che esistono oppressioni e vessazioni che non meritano la nostra attenzione, perché non producono virtù di appartenenza in cui possiamo specchiarci beati. Eppure ci sono discorsi che dovremmo fare: quello sulla blasfemia nell’islamismo, ad esempio, è urgente e riguarda molte vite umane. In Mauritania, in Pakistan, in Iran, in Nigeria si può essere messi a morte per aver offeso il Profeta e il suo credo. In Pakistan un bambino di otto anni è appena stato portato dietro le sbarre per aver urinato in una madrasa (una scuola islamica). E le leggi sulla blasfemia sono in molti casi il lasciapassare con cui i regimi dispotici mettono a tacere il dissenso e incarcerano i dissidenti. Se essere di sinistra nel 2021 significa ancora qualcosa, allora significa prendere posizione di fronte alle ingiustizie che costringono i più deboli a sottostare alle angherie del potere. Anche quando è scomodo farlo, perché stavolta non sarà un tweet strappa-applausi della claque.



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