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La Stampa - Informazione Corretta - Corriere della Sera Rassegna Stampa
02.10.2012 Elena Loewenthal e Giorgia Greco in ricordo di Shlomo Venezia
E un modo per ricordare. Cronaca di Francesco Battistini

Testata:La Stampa - Informazione Corretta - Corriere della Sera
Autore: Elena Loewenthal - Giorgia Greco - Francesco Battistini
Titolo: «Addio a Shlomo Venezia, vittima due volte del nazismo - Quei nipoti e i tatuaggi con i numeri dei nonni»

Mentre la Germania assolve i criminali  nazisti, autori della strage di S. Anna di Stazzema, un'altra triste notizia, la morte di Shlomo Venezia.
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 02/10/2012, a pag. 17, l'articolo di Elena Loewenthal dal titolo " Addio a Shlomo Venezia, vittima due volte del nazismo ". Pubblichiamo l'articolo scritto da Giorgia Greco sul libro 'Sonderkommando Auschwitz' di Shlomo Venezia.
Dal CORRIERE della SERA, a pag. 21, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo "Quei nipoti e i tatuaggi con i numeri dei nonni ".
Ecco i pezzi:

La STAMPA - Elena Loewenthal : " Addio a Shlomo Venezia, vittima due volte del nazismo "


Shlomo Venezia,                    Elena Loewenthal

Shlomo Venezia se n’è andato a 88 anni. Era nato a Salonicco dove, fino all’arrivo della furia nazista, viveva una delle più grandi e antiche comunità ebraiche d’Europa, annientata nei campi di sterminio. «Tutto mi riporta al campo. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda. Non si esce mai per davvero dal Crematorio», ripeteva spesso. Se, come diceva Primo Levi, i sopravvissuti non hanno conosciuto la Shoah fino in fondo perché sono sfuggiti a quel destino di annientamento, Shlomo Venezia vi fu più vicino che mai: i tedeschi lo destinarono infatti al Sonderkommando, la squadra di prigionieri incaricata di condurre i convogli di ebrei alla distruzione. «A loro spettava mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri», scrive Levi ne I Sommersi e i Salvati. Nell’universo dello sterminio, non c’è stata forse un’esperienza più terribile, più «completa». Nessuno ha conosciuto la macchina di Auschwitz meglio di loro, più da vicino. In pochissimi sono sopravvissuti alle squadre del Sonderkommando che si avvicendavano nel campo perché venivano eliminate a ritmo regolare, e per molto tempo nessuno di loro se l’è sentita di parlare perché pareva impossibile riuscire a raccontare una realtà così follemente crudele: «Non dovete credere che noi siamo dei mostri: siamo come voi, solo molto più infelici», scrive ancora Primo Levi dialogando con uno di loro.

Per decenni il tormento ha costretto al silenzio anche Shlomo Venezia. Insieme alla moglie mandava avanti un negozietto di souvenir per turisti a Roma. All’inizio degli anni 90 ha cominciato a testimoniare e da allora l’ha fatto con tenacia e schiettezza, senza negare a chi lo ascoltava nulla dell’orrore che aveva vissuto. Raccontava l’inferno nel modo più diretto possibile e così aveva fatto anche per Roberto Benigni, che l’ha avuto come consulente preparando il suo film La vita è bella. Da allora Venezia era stato nelle scuole, aveva testimoniato in pubblico, alla televisione. Parlava con una forza sconcertante, con un’energia vitale che rendeva ancor più obbrobrioso il confronto con la morte di massa di cui raccontava. E’ stato un testimone unico non solo perché veniva da quel buco nero dell’inferno, non solo perché lui dentro le camere a gas e nel forno crematorio ci era entrato migliaia di volte: anche per il coraggio di una parola franca, vibrante, senza eufemismi. Nel 2007 ha messo per iscritto la sua testimonianza in un libro intitolato «Sonderkommando Auschwitz» e pubblicato da Rizzoli.

INFORMAZIONE CORRETTA - Giorgia Greco : " Sonderkommando Auschwitz "


Shlomo Venezia, Sonderkommando Auschwitz, Rizzoli (Euro 17,50)

Giorgia Greco

“Noi, nel Sonderkommando, abbiamo probabilmente avuto delle condizioni di sopravvivenza quotidiana migliori, abbiamo avuto meno freddo, più da mangiare, ma abbiamo visto il peggio. Ci eravamo dentro tutto il giorno….eravamo nel cuore dell’inferno”.
E’ l’inferno di Auschwitz-Birkenau, il campo di sterminio dove Shlomo Venezia ebreo italiano, arrestato ad Atene verso la fine di marzo del 1944 fu deportato e assegnato all’unità detta Sonderkommando.
Il Sonderkommando, la squadra speciale di detenuti ebrei obbligati a lavorare nelle camere a gas e nei crematori di Auschwitz, ha in questo ebreo nato a Salonicco nel 1923 uno fra i testimoni più incisivi.
Il libro che nasce da una lunga intervista di Béatrice Prasquier a Shlomo Venezia, pubblicata per la prima volta in Francia nel gennaio 2007, rappresenta un documento eccezionale che racconta il cuore della terribile esperienza dello sterminio degli ebrei all’interno dei lager nazisti, destinati a distruggere l’intero popolo ebraico dell’Europa.
Dopo quarantasette anni dalla liberazione, Shlomo diventa un testimone; nel 1992 si reca per la prima volta ad Auschwitz dalla fine della guerra, poi negli anni successivi vi ritornerà accompagnando le scuole. La sua è una testimonianza preziosa per le nuove generazioni, una denuncia degli orrori della guerra oltre che un grido di speranza affinchè una simile infamia non abbia più a ripetersi.
Ma scegliere di raccontare si rivela una prova dura, una sfida dolorosa “testimoniare rappresenta un enorme sacrificio, riporta in vita una sofferenza lancinante che non mi lascia mai….appena provo un po’ di gioia, qualche cosa mi si blocca dentro; la chiamano la malattia dei sopravvissuti”.
Sono pagine laceranti, dinanzi alle quale a volte è necessario interrompere la lettura, quelle che raccontano la ferocia dei nazisti che non si ferma neppure davanti ad una neonata di tre mesi trovata miracolosamente in vita nella camera a gas e uccisa subito dopo con un colpo di pistola, la sveglia dei detenuti la mattina presto con “urla e botte” per farli uscire più in fretta dalle baracche, gli appelli estenuanti al gelo e alla pioggia, la quotidiana lotta per la sopravvivenza dove anche i più elementari sentimenti di solidarietà sembrano banditi.
E’ con estrema precisione non disgiunta da un’intima compassione che Shlomo racconta lo “sporco lavoro” che i membri del Sonderkommando sono costretti a svolgere con la consapevolezza che, presto, anche loro sarebbero stati condotti a morire: accompagnare i deportati appena scesi dai treni alle camere a gas, aiutarli a svestirsi, tagliare i capelli ai cadaveri, estrarre i denti d’oro, occuparsi di trasportare nei forni i corpi delle vittime.
I disegni, contenuti nel libro, di David Olère, pittore nella Parigi degli anni Trenta e deportato da Drancy ad Auschwitz nel 1943, illustrano con intensità ed efficacia l’orrore indicibile vissuto quotidianamente dagli ebrei nei campi di sterminio.
L’obiettivo dei nazisti di distruggere i prigionieri sia nel corpo, sia nello spirito, di privarli della loro identità, di trasformarli in non-uomini non è riuscito con Shlomo Venezia.
Seppur segnato in modo indelebile da questa esperienza “Shlomo ha saputo uscire da questo incubo trasformando il suo dolore in una forza che ci trasmette affinchè noi possiamo difendere quell’innocenza e quella normalità che gli sono state strappate. La trasmette a noi ogni volta che, come con questo libro, ripercorre il suo cammino tra i campi di sangue” (W.V.)

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Quei nipoti e i tatuaggi con i numeri dei nonni "


Francesco Battistini

GERUSALEMME — Quindici minuti, 40 dollari. Un piccolo dolore sottopelle per tenere sotto gli occhi, tutta la vita, il male assoluto. Non è l'ultima moda trendy dei giovani israeliani: è il modo di non dimenticare gli ultimi sopravvissuti. Decine di ragazzi che entrano nei laboratori di tatuaggi, evitano rose o ideogrammi, e invece chiedono solo sei numeri sull'avambraccio: gli stessi che i nazisti incisero sui loro parenti deportati nei lager.
«Sono passati settant'anni e la nostra generazione non sa più nulla della Shoah — ha raccontato in un documentario Eli Sagir, che s'è fatta tatuare l'157622 di suo nonno Yosef, scampato ad Auschwitz, convincendo pure madre, zio e fratello a imitarla —. Molti pensano che sia ormai storia antica, tipo l'Esodo dall'Egitto. Ho deciso che questo è il modo più semplice di legarsi intimamente, eternamente ai sopravvissuti».
Il fenomeno si sta diffondendo e pone un problema anche religioso: il tatuaggio è formalmente vietato dal rabbinato (dice il Levitico: «... E non metterete nella vostra carne una grafia tatuata») e anche per questo ci furono sopravvissuti che, temendo di non poter più essere sepolti nei cimiteri ebraici, decisero di cancellare quei numeri. Oggi, però, i salvati stanno a poco a poco scomparendo: qualche mese fa, all'Opera di Tel Aviv, un'ebrea brasiliana ha casualmente riconosciuto dal numero tatuato un'anziana che era stata nello stesso lager della zia, ma quando l'ha richiamata, giorni dopo, ha scoperto che era morta. L'urgenza della memoria spinge così i giovani israeliani a dribblare tabù e proibizioni: «Sui nostri avambracci rivive quel che è successo», la testimonianza numerica di quella che Primo Levi definiva «la demolizione dell'uomo». Non manca chi dissente: la stampa israeliana cita la discussione d'una cassiera di supermarket di Gerusalemme con un cliente, che definiva «patetica» questa forma di ricordo. «Mi sono tatuato — ha risposto la giovane, pronipote d'un deportato — proprio perché in giro c'è gente come lei...».

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