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Riportiamo da LIBERO di oggi, 12/03/2011, a pag. 17, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Le rivolte nel mondo arabo fanno il gioco degli ayatollah ". Da IT.DANIELPIPES.ORG l'articolo di Daniel Pipes dal titolo " Siamo proprio sicuri che la guerra convenga? ". Dall'OPINIONE, a pag. 13, l'articolo di Dimitri Buffa dal titolo " Onu, consiglio dei dirtti umani: resta al suo posto la nipote di Gheddafi ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo dal titolo " L’Europa aspetta la Lega araba per decidere come liberarsi di Gheddafi ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 11, l'articolo di Khaled Fouad Allam dal titolo " Il rispetto della minoranza specchio della democrazia ". LIBERO - Carlo Panella : "Le rivolte nel mondo arabo fanno il gioco degli ayatollah "
Mohammed El Baradei, nel presentare al Cairo la sua candidatura alle prossime elezioni presidenziali ha voluto aprire una porta al regime di Teheran, impegnandosi addirittura a ristabilire le relazioni diplomatiche con la Repubblica islamica. Relazioni interrotte sin dal 1979, in un contesto che ha sempre visto l’Egitto capeggiare il fronte dei Paesi arabi (in primis Arabia Saudita, Emirati del Golfo e Giordania), impegnato a costruire una sorta di “muro sunnita” per contenere l’espansio - nismo aggressivo di Mohammed Ahamadinejad in Medio Oriente. Strategia che prevede anche la costruzionedella bomba atomica iraniana. La mossa non stupisce, perché El Baradei ha fatto carriera e si è addirittura aggiudicato un immeritatissimo premio Nobel per la Pace, proprio facendo “da palo” alla crescita del programma nucleare iraniano. Quale direttore dell’Aiea, l’agenzia dell’Onu preposta a controllare i programmi nucleari, El Baradei infatti ha fatto di tutto per sminuire, occultare, annacquare le prove evidenti che pure i suoi ispettori avevano rilevato del fatto che l’Iran stava e sta sviluppando un arricchimento dell’uranio finalizzato nongià a centrali nucleari per la produzione di energia elettrica, ma per la costruzione di una bomba atomica. Questo è un dato di fatto ormai acclarato dalla stessa Aiea e confermato dal fatto che l’Iran continua a boicottare tutte le offerte di mediazione che Obama ha avanzato e continua a negare all’Aiea i controlli dovuti, tant’è che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha stabilito mesi fa durissime sanzioni economiche. È questa l’ultima notizia positiva tra le tante che la rivoltaaraba porta agli ayatollah che ora possono contare su un interlocutore disposto a favorire i loro progetti espansionistici, invece di contrastarli. Per comprendere quanto sia importante questa novità, basti pensare che una delle ultime decisioni di Mubarak era stata quella di fare passare attraverso il Canale di Suez due sottomarini israeliani con armamento missilistico atomico, in vista proprio di una possibile azione militare contro i siti atomici iraniani (come già Israele fece nel 1981 contro Saddam). El Baradei, per fortuna, non ha grandi chances elettorali, perché è un personaggio gonfiato dai media politically correct dell’occidente, con ben scarso seguito in Egitto. Ma resta il fatto che l’Iran, che ha represso nel sangue la rivolta dell’Onda Verde, non solo non ha più un avversario forte come il regime di Mubarak in un Egitto che possiede l’unica aviazione araba efficiente, oltre a quella dell’Arabia Saudita, ma vede crescere al Cairo un dibattito su una immotivata apertura di credito e di accordo. È un classico esempio di eterogenesi dei fini. Le rivolte popolari arabe infatti hanno sgretolato due regimi autoritari come quello egiziano e tunisino - fatto positivissimo - ma, nel conseguire successo pieno e meritato, hanno anche indebolito al massimo la forte leadership anti iraniana del Cairo, immobilizzato il suo esercito e ora forse indeboliranno anche la stessa Arabia Saudita, dove cresce la prospettiva di una rivolta sciita e già fiaccata dalla crisi che la stessa rivolta araba sta procurando al regime alleato dello Yemen. Il regime iraniano che si è rafforzato sul sangue dei suoi oppositori, ora gode dei risultati della vittoria degli oppositori dei regimi arabi. Un paradosso. Pericolosissimo. IT.DANIELPIPES.ORG - Daniel Pipes : " Siamo proprio sicuri che la guerra convenga? "
Pezzo in lingua originale inglese: http://www.danielpipes.org/9586/the-shores-of-tripoli L'inno ufficiale dei Marines americani inizia con le celebri parole «Dai saloni di Montezuma alle spiagge di Tripoli; combattiamo le patrie guerre, in terra, mare e ciel». Il riferimento a Tripoli allude alla battaglia di Derna del 1805, il primo combattimento oltreoceano delle truppe Usa e una decisiva vittoria americana. I recenti combattimenti in Libia inducono a una domanda: si dovrebbe di nuovo inviare i Marines sulle coste di Tripoli, questa volta non per proteggere le acque extraterritoriali, ma i rivoltosi libici insorti contro il loro governo e che chiedono aiuto visto che sono mitragliati a bassa quota dalle truppe fedeli a Muammar Gheddafi? Il mio primo istinto è quello di accettare di buon grado una no-fly zone, migliorando così i vantaggi per l'opposizione sul campo. Vari fattori incoraggiano questo istinto: la facile accessibilità della Libia dalle basi aeree americane e della Nato, la configurazione geografica pianeggiante e che presenta una rada vegetazione, la condanna semiuniversale delle azioni di Gheddafi, l'assoluta impellenza di rifornire di petrolio libico il mercato delle esportazioni e la probabilità che un simile intervento porrà fine al triste governo di un personaggio bizzarro e ripugnante che dura da 42 anni. Ma l'istinto non porta a una sana politica. Un atto di guerra richiede un contesto, delle linee guida e della coerenza. Per quanto facile l'operazione possa sembrare, Gheddafi potrebbe avere delle riserve di potere inaspettate che lo porterebbero a uno scontro lungo e complesso. Se il Colonnello sopravvivesse, per esempio, potrebbe diventare più virulento. Per quanto ripugnante egli possa essere, i suoi avversari (gli islamisti?) potrebbero essere ancor più pericolosi anche per gli interessi americani. Più in generale, se ci si intromette in un conflitto interno si potrebbe avere più nemici che amici e inoltre, così facendo si alimenterebbero le teorie del complotto anti-americano. Inoltre, la potenza aerea libica non si è ancora dimostrata decisiva (il suo impatto è stato soprattutto psicologico) e non potrebbe essere determinante nel far sì che Gheddafi rimanga al potere. Imporre una no-fly-zone in Libia costituisce un precedente rispetto a situazioni dove le circostanze sono meno favorevoli (ad esempio la Corea del Nord). E chi seguirà l'esempio di Gheddafi e rinuncerà a produrre armi nucleari, se ciò facilita la perdita del proprio potere? Dietro il dibattito sulla Libia incombe lo spettro dell'Iraq e della "Freedom Agenda" di George W. Bush. I partigiani di Bush vedono la situazione come il momento della rivincita, mentre gli scettici si preoccupano delle conseguenze non volute. Se Barack Obama utilizzasse la forza in Libia, equivarrebbe a un'ammissione di errore per aver criticato aspramente le politiche di Bush in fatto di Medio Oriente. Sarebbe anche come dar seguito all'Iraq e all'Afghanistan impegnare le truppe americane a combattere le forze di un altro Paese a maggioranza musulmana, un impegno che Obama con la sua enfasi sul "rispetto reciproco" con i musulmani, deve essere restio ad assumersi. Altrettanto fondamentale è l'imperativo di mettere le truppe americane in condizione di non subire danno né di combinare guai in nome di obiettivi umanitari per altri popoli: l'assistenza sociale non può essere lo scopo del governo Usa, piuttosto, le truppe devono sempre promuovere gli specifici interessi nazionali americani. Il fatto che l'esercito Usa, nella persona del Segretario alla Difesa Robert Gates, eviti di assumersi questo compito, sottolineando i suoi costi e i pericoli ("una grande operazione in un grande Paese"), è una proficua precauzione, soprattutto in considerazione degli errori dell'intelligence americana. Ma il fatto che i libici comincino a rivolgere l'attenzione agli islamisti per la leadership potrebbe trasformare la Libia in un'altra Somalia. L'arsenale americano permette a un presidente di ignorare gli altri Paesi e di sfruttarlo in modo unilaterale: ma è saggio farlo? I precedenti iracheni (1991, 2003) stanno a indicare che politicamente vale la pena incomodarsi ad ottenere l'appoggio di organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, la Nato, la Lega araba, l'Unione africana o perfino l'Organizzazione della Conferenza islamica. Come osserva Jeffrey White del Washington Institute for Near East Policy, anche se una no-fly-zone è ciò che vuole l'opposizione, questa è solo una delle tante opzioni di cui Washington dispone. Tra le altre possibilità – dalla meno ambiziosa alla più pretenziosa – spiccano: fornire alle forze di opposizione appoggi logistici, aiuti di intelligence, hardware di comunicazione, addestramento e inviare loro armi; aiutarle a difendere le zone liberate; rendere inutilizzabili i campi d'aviazione libici; oppure combattere attivamente le forze del regime. Tenendo conto di queste riflessioni, che consiglio dare all'amministrazione Obama? Soccorrere l'opposizione libica offrendogli aiuto e, se necessario, intensificare questi aiuti. In Libia i motivi umanitari, politici ed economici convergono superando delle legittime esitazioni. Lavorando con l'avallo internazionale, il governo Usa dovrebbe svolgere il suo consueto ruolo di leadership e aiutare l'opposizione libica. Per quanto possa essere rischiosa questa linea di condotta, non fare nulla è ancor più pericoloso. L'OPINIONE - Dimitri Buffa : " Onu, consiglio dei dirtti umani: resta al suo posto la nipote di Gheddafi "
Resterà al proprio posto nel seggio della Libia per il Consiglio dei diritti umani la signora Najat Al-Hajjaji, un avvocatessa e nipote di secondo grado Muhammar Al Khatafi, in arte Gheddafi, donna che negli anni passati si è battuta come una tigre per fare riconoscere alla Libia lo status di stato “non più canaglia”, troppo in fretta acordatogli dalle Nazioni Unite nel 2005. Il FOGLIO - " L’Europa aspetta la Lega araba per decidere come liberarsi di Gheddafi"
Il SOLE 24 ORE - Khaled Fouad Allam : " Il rispetto della minoranza specchio della democrazia "
La questione delle minoranze cristiane, dal Vietnam al Darfur, dal Pakistan all'Iraq all'Egitto sta assumendo contorni drammatici. Alcuni osservatori non esitano a parlare di un tentativo di "pulizia etnica". Nonostante qualche raro segnale di speranza, come quello giunto dal Cairo ieri, dove a piazza Tahrir si sono ritrovati centinaia di copti e musulmani con in mano croci e copie del Corano in segno di solidarietà interconfessionale dopo gli scontri degli ultimi giorni, qualunque pretesto sembra sufficiente a creare tensione. E a scatenare l'ira di coloro che pensano che il dar-al-islam, cioè la terra d'islam, debba essere completamente islamizzata, anche nei confronti di minoranze che sono fra le più antiche del Medio Oriente, addirittura preesistenti alla nascita dell'islam stesso; anche perché il cristianesimo è nato proprio in Medio Oriente, e gran parte delle sue popolazioni sono arabe. Per inviare il proprio parere a Libero, It.danielpipes.org, Opinione, Foglio, Sole 24 Ore, cliccare sulle e-mail sottostanti lettere@libero-news.eu meqmef@aol.com diaconale@opinione.it lettere@ilfoglio.it letterealsole@ilsole24ore.com |
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