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Informazione Corretta - Il Giornale - L'Unità Rassegna Stampa
22.08.2010 Negoziati Israele-palestinesi: l'assenza di Hamas preoccupa come se fosse presente
Commenti di Angelo Pezzana, Fiamma Nirenstein. Cronaca di Umberto De Giovannangeli

Testata:Informazione Corretta - Il Giornale - L'Unità
Autore: Angelo Pezzana - Fiamma Nirenstein - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Israele farà accordi soltanto quando l’odio avrà un freno»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 22/08/2010, a pag. 14, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Israele farà accordi soltanto quando l’odio avrà un freno". Dall'UNITA', a pag. 26, l'articolo di Umberto De Giovannangeli dal titolo " Ramallah, la notte dei coltelli. Poi un sofferto sì al negoziato ". Pubblichiamo l'analisi di Angelo Pezzana dal titolo "  Washington, l'ospite assente ".
Ecco gli articoli:

INFORMAZIONE CORRETTA - Angelo Pezzana : " Washington, l'ospite assente"


Angelo Pezzana

Terminato il silenzio mediatico dello shabbat,  è l’ora dei commenti e delle analisi. Quel che valeva venerdì sera, nelle dichiarazioni soprattutto della parte palestinese, assume, a distanza di sole ventiquattr’ore, dei contorni differenti. Non è vero, per esempio, che sono rimaste sul tavolo le precondizioni ricordate da Abu Mazen, non si è più fatto cenno a congelamenti di sorta, ai confini del ’67, nè ai rifugiati. Neppure il Quartetto, nel comunicato che ha emesso ieri, ha ricordato i punti contenuti in quelli precedenti (Trieste, New York, Mosca), ma si è limitato a dare saggi consigli alle parti, invitandole a “ trovare una soluzione che porti alla fine dell’occupazione che dura dal ’67, che porti alla creazione di uno stato palestinese indipendente, democratico, praticabile (“viable”), accanto e in pace con Israele e gli altri vicini “, un augurio la cui sottoscrizione è certamente augurabile, e che ha spinto Bibi Netanyahu a dichiarare “ raggiungere un accordo è una sfida difficile ma possibile”.

Tutti i commenti oggi sottolineano che è proprio lui ad uscire con un’immagine largamente positiva, dato che l’asso sul quale puntavano i palestinesi, legato alle pre-condizioni senza le quali non si sarebbe iniziato nulla, non è stato calato sul tavolo. Che senso aveva infatti andare sino a Washington per discutere l’assetto finale di un accordo, quando quando i termini della risoluzione erano già contenuti nelle pre-condizioni ?  Ci è arrivato persino Obama, il che aiuta a capire perchè Abu Mazen, dopo aver cercato in ogni modo di coinvolgere il Quartetto, la Lega araba, richiamandosi alle precedenti dichiarazioni di entrambi, ha dovuto alla fine far buon viso a cattivo gioco, accettando la nuova linea dell’amministrazione americana.

Non è che adesso la situazione è più semplice, ma si è sbarazzato il tavolo da una narrativa tutta palestinese che chiamava in causa il solo Israele e imponeva le proprie condizioni come se fossero diktat. Bibi ha tenuto duro, e questo dimostra alle istituzioni occidentali quanto poco conoscono la mentalità orientale, araba in particolare. Intorno al tavolo delle trattative non ci sono la Svizzera, il Liechtenstein o il Belgio, ma paesi abituati a seguire metodi e tecniche del tutto dissimili da quelli abituali alle nostre diplomazie. L’apertura verso l’avversario, ma anche il nemico, non è vista come un buon inizio per superare posizioni lontane, viene invece considerata sintomo di debolezza, come ha ben dimostrato l’insuccesso continuo della politica estera di Obama, tanto da essere addirittura preso in giro da una canaglia come Ahmadinejad, un figuro al quale Obama si era rivolto con il cappello in mano, convinto che fosse la tecnica giusta. Adesso qualcuno deve avergli suggerito che i problemi con il mondo arabo si può tentare di affrontarli, e risolverli, mostrandosi deciso e non remissivo, con idee chiare e senza troppi sorrisi, le cose stanno così, prendere o lasciare. Per ora, i palestinesi hanno preso, anche se i problemi che stanno dietro le singole buone volontà di Bibi e Abu Mazen sono enormi. L’ospite muto a questi colloqui è infatti Hamas, che guida Gaza e si propone, appena ne avrà l’occasione, di farlo anche in Cisgiordania, che venga chiamata ancora così oppure Stato di Palestina. Ecco che la richiesta di Netanyahu di affrontate prima di tutto il fattore sicurezza assume in pieno la sua importanza. Se può essere ipotizzabile uno Stato smilitarizzato guidato dall’Anp,  lo stesso non vale per una seconda Gaza. Hamas sta fuori dall’uscio, ma la sua assenza preoccupa come se fosse presente.

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Israele farà accordi soltanto quando l’odio avrà un freno "


Fiamma Nirenstein

Ok, che inizino dunque il 2 settembre i negoziati fra israeliani e palestinesi che Obama e Hillary Clinton hanno annunciato: non si può che essere contenti di questa nuova speranza di accordo che secondo la Clinton dovrebbe essere raggiunto in un anno. Netanyahu e Abu Mazen non possono che preparare le valigie per Washington, verso questa nuovo photo-opportunity; il premier israeliano dovrà intanto accettare di bloccare di nuovo le costruzioni sia negli insediamenti sia a Gerusalemme; Abu Mazen dovrà accettare di pessimo umore un invito in cui non crede. Anche perché sa che un milione e mezzo di palestinesi non risponde al suo governo né al potere di Fatah. Pieni di paura o di fanatismo, sono i sudditi di Hamas a Gaza, e Hamas ha già dichiarato guerra ai nuovi colloqui. I palestinesi rispondono a due poteri, e fingere che Abu Mazen possa disporre di tutti quanti, ignora il nuovo ordine stabilito in medio oriente da una presenza iraniana che foraggia, esercita, arma l’organizzazione terroristica che domina Gaza.
L’inviato americano per il medio oriente George Mithcell, che pure sta trascinando Abu Mazen al tavolo (Netanyahu già da tempo aveva accettato) ha messo le mani avanti per spiegare che le prospettive sono incerte. I passi avanti c’erano stati, altroché, tanto è vero che Abu Mazen insiste che ricomincino da dove erano stati lasciati, e non da zero. Ma se questo ricominciare da dove si era lasciato fosse autentico e non relativo alla mappa delle concessioni, allora c’è di che riflettere. Mitchell non deve dimenticare che «ritiro» non vuole dire «pace»: quando con gli accordi di Oslo l’esercito israeliano uscì da Gerico, Jenin, Ramallah, Betlemme, da tutte le città palestinesi della Cisgiordania, quando dunque gli agglomerati di popolazione, furono lasciati, i territori liberati non divennero la base del prossimo Stato palestinese, ma basi da cui i terroristi suicidi intrapresero i loro viaggi di morte verso le città israeliane.
Gerusalemme: la divisione a sua volta non garantisce la pace, perché la convinzione del mondo palestinese è che essa debba appartenere completamente al mondo arabo e musulmano. Quando nell’ambito di Olso si arrivò a discutere a Camp David fra Ehud Barak, Bill Clinton e Arafat del destino del Monte del Tempio, Barak propose che Arafat se lo tenesse tutto fuorché la parte inferiore: Arafat negò allora ogni connessione storica, morale, culturale del popolo ebraico al Tempio distrutto dai Romani nel 70 d.C, e disse che non poteva fare accordi su Gerusalemme se non voleva essere immediatamente assassinato.
Gerusalemme è per il mondo islamico un punto su cui è quasi impossibile trovare un accordo di cui giordani, sauditi, egiziani e ormai anche iraniani possano ritenersi soddisfatti. Il punto, come per la terra di Israele, è che essi non riconoscono agli ebrei lo status di popolo, di nazione legata a quel luogo, ma solo quello di una religione che come tale deve vivere, identicamente alla religione cristiana, in condizione di sottomissione, e non certo in quella della sovranità, sotto il potere musulmano. Poi c’è il ritiro da Gaza nel 2005. Dopo lo sgombero, Israele si ritrovò vicino di un piccolo stato islamico estremista che risponde al potere iraniano e usa la terra liberata come rampa di lancio per i razzi. Lo stesso accadde nel 2000 con Hezbollah in Libano. Più recentemente, l’accordo dell’ex premier Ehud Olmert con Abu Mazen, benché ancora più largo di quello di Oslo, non fu accettato, benché riconoscesse ai palestinese anche il diritto alla riunificazione familiare sulla base del diritto al ritorno, la divisione di Gersualemme con la definizione di un bacino sacro a sovranità internazionale. Abu Mazen non spiegò mai il perché, ma le motivazioni sono di carattere ideologico.
Proprio in questi giorni è stato inaugurato un monumento nel nome di Abu Samed «eroico martire» che con una cintura suicida si fece saltare per aria in un ristorante uccidendo un ragazzino di 16 anni e ferendo decine di persone. In Cisgiordania, due piazze sono state intitolate a Dalal Mughrabi, che con un attentato a un autobus uccise 37 passeggeri. Le concessioni territoriali da Israele verranno, la storia lo dimostra, se cambierà l’atteggiamento ideologico, se l’odio avrà un freno. Se Israele si sentirà sicuro. Non è invece certo che i palestinesi siano d’accordo nel volere due Stati per due popoli, piuttosto che un popolo in armi contro un altro.

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : "  Ramallah, la notte dei coltelli. Poi un sofferto sì al negoziato"


Abu Mazen

Una scelta sofferta, presa dopo una riunione infuocata. Sono volate parole grosse, solo in extremis si è evitata una spaccatura che avrebbe reso ancor più debole la rappresentanza palestinese ai negoziati «voluti» fortemente da Barack Obama. Fonti presenti alla riunione straordinaria del Comitato esecutivo dell’Olp chiamato a decidere sulla partecipazione ai negoziati diretti con Israele, danno conto a l’Unità di un clima incandescente che ha segnato una discussione vera, a tratti drammatica.
GIOVANI LEONI CONTRO
Tra i più scettici, i «giovani leoni» di Fatah - il movimento fondato da Yasser Arafat e guidato oggi da Mahmud Abbas (Abu Mazen) - che hanno come punto di riferimento Marwan Barghuti, segretario generale di Fatah in Cisgiordania, da anni in carcere in Israele dove sconta una condanna all’ergastolo. La conta finale viene evitata solo perché nel via libera dell’Olp, i critici riescono a far inserire un vincolo «non negoziabile ». Nasce da qui la dichiarazione notturna del capo dei negoziatori dell’Anp, Saeb Erekat. «Se il governo israeliano deciderà di annunciare nuovi appalti dopo il 26 settembre (data di scadenza dei10mesi della moratoria parziale dei progetti edilizi nelle colonie, ndr), noi non saremo in grado di proseguire i colloqui di pace», dichiara Erekat, rispondendo indirettamente anche a chi giudica il sì all'invito americano un cedimento. Un riferimento preciso alla moratoria parziale di 10 mesi che Netanyahu ha ordinato a fine 2009negli insediamenti della Cisgiordania, dopo aver rifiutato un congelamento totale esteso a Gerusalemmeest. Mache ora avrà i suoi problemi a rinnovare, di fronte a una coalizione e a un partito (il Likud) che in maggioranza tiene bordone al movimento dei coloni. E nulla fa per nasconderlo.
MEDIAZIONE INTERNA
Abile negoziatore, Erekat calibra le virgole. E in quel «non saremo in grado » è contenutoun messaggio indirizzato all’inquilino della Casa Bianca. Abu Mazen aveva messo nel conto il no secco di fazioni radicali come Hamas o la Jihad Islamica, che rifiutano di riconoscere a priori il risultato di qualunque trattativa con «il nemico sionista» e considerano l'iniziativa dell'amministrazione Obama alla stregua di «un nuovo inganno». Ma a scuotere «Mahmud il moderato» è la fronda interna, termometro diunmalessere trasversale alle varie anime palestinesi.Unmalessere a cui dà corpo l’ex ministro e deputato indipendente Mustafa Barghuti che nonesita a definire definire «vergognosa» la dichiarazione di Hillary Clinton, nella quale la segretaria Stato Usa ha parlato di negoziati «senza condizioni», ripetendo parola per parola la formulazione richiesta dal governo Netanyahu. Uno schiacciamento sulle posizioni israeliane che - unita all'incapacità d'imporre a Israele anche solo un impegno preliminare di proroga della moratoria parziale degli insediamenti - preannuncia, nel giudizio di Barghuti, la fine delle speranze suscitate qualche mese fa fra i palestinesi dal presidente Barack Obama. E prelude a «un fallimento dei negoziati peggiore di quello di Camp David» che dovrebbe indurre i palestinesi a prepararsisemmai a «iniziative unilaterali » verso la proclamazione e il consolidamento di fatto di un proprio Stato. Le parole di Hillary Clinton «troppo assonanti con quelle di Netanyahu »- confermano a l’Unità fonti presenti alla riunione di Ramallah - hanno creato ulteriori problemi ad Abu Mazen e ai suoi fedelissimi. Tanto che diversi dirigenti dell’Olp si sono affrettati a puntualizzare che l’ingresso palestinese nel negoziato si basa sul comunicato diffuso dal Quartetto (Usa, Russia, Onu e Ue) e non sull'annuncio degli Stati Uniti. Il comunicato del Quartetto non fa alcuna menzione della mancanza di precondizioni per la ripresa dei colloqui.
GERUSALEMME EST
Il Comitato esecutivo dell’Olp ha anche sottolineato che i negoziati dovranno riguardare tutte le questioni dello status finale, e che dovranno altresì basarsi sul mancato riconoscimento da parte del Quartetto dell’annessione di Gerusalemme Est da parte d’Israele. Per sottoscrivere l’invito giunto d’oltre Oceano, l’ala pragmatica che affianca Abu Mazen si è dovuta aggrappare agli impegni su confini e vecchie intese ribaditi implicitamente nel documento del Quartetto. Eforse - a dar retta a quanto scrive il giornale arabo di Londra Al Hayat - a qualche garanzia fatta balenare sottobanco dal presidente Usa. Ed è soprattutto a Obama che guardano, con speranza mista a inquietudine, i fedelissimi diAbuMazen: «Il fallimento dei negoziati sarebbe anche il suo fallimento - dice a l’Unità Sari Nusseibeh, tra i più autorevoli intellettuali palestinesi -. Il suo predecessore affrontò la questione palestinese alla fine del suo mandato. Obama ha ribaltato i tempi. Una scelta, almeno questa, che fa ben sperare».Mache da sola non può bastare.«Obama- aggiunge Nusseibeh - ha evocato un “nuovo inizio” nei rapporti tra l’America e l’Islam. Ha suscitato speranze e attese. Ora è venuto il momento di dar seguito a quelle parole. Di onorare gli impegni. Partendo dalla Palestina»

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