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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale - Libero - Informazione Corretta - Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
18.09.2009 Ritirarsi dall'Afghanistan sarebbe disastroso
Analisi di Fiamma Nirenstein, Carlo Panella, Piera Prister, André Glucksmann

Testata:Il Giornale - Libero - Informazione Corretta - Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Fiamma Nirenstein - Carlo Panella - Piera Prister - Stefano Montefiori
Titolo: «L’ennesima tessera di un mosaico disegnato a Teheran - Ecco da dove derivano ferocia e resistenza dei monaci guerrieri del jihad - No, lasciare Kabul sarebbe disastroso»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 18/09/2009, a pag. 7, l'analisi di Fiamma Nirenstein dal titolo " L’ennesima tessera di un mosaico disegnato a Teheran". Da LIBERO, a pag. 7, l'analisi di Carlo Panella dal titolo " No, lasciare Kabul sarebbe disastroso ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 17, l'intervista di Stefano Montefiori ad André Glucksmann dal titolo " André Glucksmann: «Non possiamo arretrare la loro libertà è la nostra» ". Dal FOGLIO, a pag. 4, l'analisi di Carlo Panella dal titolo " Ecco da dove derivano ferocia e resistenza dei monaci guerrieri del jihad ". Pubblichiamo, inoltre, l'analisi di Piera Prister dal titolo " Apprendo in questo momento che sei soldati italiani sono assassinati a Kabul ". Ecco gli articoli:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " L’ennesima tessera di un mosaico disegnato a Teheran "

 Fiamma Nirenstein

Il devastante attacco suicida dei talebani a Kabul è l’ennesima tessera di un mosaico che disegna sull’intero orbe terracqueo il mostro del terrorismo. La dimensione strategica degli attacchi che punteggiano tutta la carta geografica risponde a svariati disegni, sia di origine sunnita sia sciita, e tutti mirano a stabilire un califfato mondiale.
Per tutti i combattenti dell’islam estremo, sia sunniti sia sciiti , il punto di riferimento, il modello ideale, l’incoraggiamento costante verso quella che considerano una sicura vittoria, è il regime degli ayatollah, l’Iran, la bandiera strategica, la fonte primaria della strategia mondiale e del finanziamento del terrorismo mondiale. Fra gli insurgent afghani e l’Iran c’è un rapporto strategico essenziale. Teheran è il modello e la fonte di approvvigionamento del terrorismo islamista di tutti i tipi, molte volte se ne è parlato addirittura come di uno dei rifugi di Bin Laden.
Proprio in questi giorni, scade per questo Paese un appuntamento che avrebbe dovuto essere cruciale, e non lo sarà. Mahmoud Ahmadinejad, che Barack Obama avrebbe voluto mettere alle strette con la sua politica della «mano tesa», ci prende in giro di nuovo, come fa dal 2005, sbeffeggiando il tentativo americano di bloccare il suo progetto nucleare. Sa che le incertezze strategiche di questa amministrazione americana gli consentono di guadagnare tempo per costruire la bomba atomica, e di proseguire con la strategia globalizzata di terrore inventata dai mullah.
A giugno l’Iran era stato sfidato da Obama ad accettare seri negoziati sul nucleare in costruzione, e il G8 aveva stabilito che l’Assemblea generale dell’Onu sarebbe stato l’appuntamento decisivo. Il 10 di luglio Obama disse: «Ho fornito all’Iran un sentiero per assumere il suo giusto ruolo nel mondo... Ne parleremo al G20, che si riunirà il 23 settembre». Ma nella prima settimana di settembre è giunta la risposta di Ahmadinejad, per nulla indebolita dopo gli assassinii e le violenze a catena seguite alle elezioni del 12 giugno. Il leader iraniano dedicava cinque pagine al «blasfemo modo di pensare che prevale nelle relazioni globali»e predicava su vari temi: «Democrazia, disarmo totale, rispetto per il diritto delle nazioni». Era pronto a un dibattito su tutto,ma, spiegava, «la questione nucleare è chiusa».
Il 10 settembre il portavoce di Obama, Philip J. Crowley, affermò che «gli Stati Uniti ritengono ancora di dover sfidare l’Iran»; il giorno dopo, lo stesso Crowley ha annunciato che Obama avrebbe accettato di parlare con gli ayatollah. Non c’è da stupirsi se il 14 settembre il giornale iraniano Javan ha titolato, trionfale: «L’inevitabile accettazione di un Iran nucleare». Si dice che il primo incontro fra l’Iran e lo schieramento occidentale avverrà il primo di ottobre con Javier Solana, che incontrerà Said Jalili, il capo dei negoziatori nucleari iraniani; proprio Solana pochi giorni fa ha negato che l’Iran sia sulla soglia della produzione della bomba. Cosa che invece è confermata da tutte le fonti, compreso l’ambasciatore americano all’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica) Glyn Davies, che ha lasciato capire che l’Iran sta per avviare l’ulteriore arricchimento di uranio già preparato; ha anche aggiunto che per una sola bomba atomica c’è già abbastanza materiale. Ma Ahamdinejad non intende parlarne nei colloqui prossimi venturi, mentre sta certo calcolando come sfruttare al meglio ogni attimo in cui riproporrà il tema dell’immorale conduzione occidentale dei rapporti internazionali per continuare nel suo programma di costruzione della bomba atomica e del suo esercito terrorista nel mondo. Sembra chiaro, dunque, che Obama non tratterà la questione iraniana quando presiederà l’incontro del Consiglio di Sicurezza, a meno di colpi di scena; la Russia, come ha ribadito molto decisa, non sosterrà comunque nessuna sanzione contro l’Iran, decisa com’è a giocare la forza iraniana, in definitiva come una sua pedina; non teme che questo le costi l’ostracismo occidentale, ed è certa della sua forza dato che ha sentito dalla Casa Bianca il lieto annuncio che il sistema missilistico di difesa per l’Europa dell’Est sarà abbandonato; il dipartimento della Difesa americano, secondo le dichiarazione del ministro Robert Gates, è decisamente contrario a affrontare militarmente il problema. Appare molto innervosito tutto il Medio Oriente moderato: dodici Paesi dell’area sono già impegnati nelle costruzione di strutture per l’energia atomica. Contenti invece, si può supporre, tutti i beneficiari della strategia iraniana, Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza, i loro emissari in Irak , Bahrain e altri stati produttori di petrolio. Come pure i loro amici in Sud America, nell’Africa orientale e, oggi ci pensiamo con particolare angoscia, in Afghanistan.
www.fiammanirenstein.com

LIBERO - Carlo Panella : " No, lasciare Kabul sarebbe disastroso "

 Carlo Panella

È giusto “morire per Kabul?” Sì, è giusto, e non solo per rispetto al sacrificio dei nostri soldati e di quelli della Nato. Comprenderlo è semplice, contrastarlo impossibile. A Kabul infatti, in Afghanistan, agisce il “motore immobile”, il centro di propulsione mondiale non tanto del terrorismo islamico, ma del fondamentalismo islamico. A Kabul, ai talebani guardano in cuor loro - senza dirlo ad alta voce - tutti quegli imam che predicano e seminano l’odio nelle moschee italiane. Nella vittoria dei talebani, nel ritiro nella vergogna della disfatta delle truppe “cristiane” sperano decine, centinaia di milioni - non tutti certo, ma buona parte - di musulmani fondamentalisti, ma anche moderati, in tutto il mondo. Non ha senso una strategia che pensi di poter depotenziare l’enorme capacità di propagazione dell’Islam intollerante su scala planetaria e contemporaneamente predichi la fuga, più o meno dissimulata, da Kabul. I talebani - questo è il punto - non sono dei terroristi, sono militanti di un partito che ha un programma radicato nei secoli, hanno un progetto di società orrendo, basato su veri e propri crimini contro l’umanità (ricordate gli orrori del loro governo ne “Il cacciatore di aquiloni”?), a cui guardano con simpatia musulmani fondamentalisti ma anche moderati nel mondo. Andarsene dall’Afghanistan senza averli sconfitti significa rompere una diga che farà dilagare il fondamentalismo più pericoloso ovunque, anche in Europa, anche in Italia. Detto questo, va anche detto che chi ha dubbi ha sue - parziali - ragioni, perché è innegabile che dal 2001 molti errori sono stati compiuti a Kabul. Il primo, il più grave, è di avere pensato di poter delegare la gestione politica della crisi, la gestione dello Stato, il raccordo tra le etnie e la ricerca del consenso tra i pashtun, a una élite locale capeggiata da Karzai che si è invece rivelata incapace, corrotta e miope. I talebani riscuotono più credito tra i pashtun di quanto non ne riscuota Karzai; lo dimostrano portando a termine un attentato nel pieno centro di Kabul che può essere realizzato solo se la popolazione è complice fosse solo per la quantità enorme di esplosivo necessaria a sventrare gli eccellenti blindati Lince. Gli intollerabili brogli elettorali di Karzai emersi in queste ore (un milione e mezzo di schede false, secondo l’Ue), erano già la prova di questo fallimento politico. La prova della perdita del controllo sulla capitale da parte di Karzai ne è il tragico sigillo. Ma questi errori tutti politici, prima che militari - è però grave la scarsità di truppe, che va subito aumentata come chiede il generale Crystol - vanno corretti, anche a costo di mettere sotto controllo il governo afgano, di violarne una sovranità che serve solo ad arricchire nuovi satrapi. Nessuna exit strategy è ipotizzabile, perché questo elegante termine in realtà - nello specifico afgano - si traduce solo con la parola “sconfitta”. Sconfitta non solo nella lotta al terrorismo - che è già intollerabile - ma anche e soprattutto nel rapporto con tutto il mondo musulmano. Con quello che solo si augura questa vergognosa débacle dell’Occidente (non degli Usa, dell’Occidente tutto), ma anche con quella grande parte di musulmani che rigetta l’estremismo e che cerca di costruire un mondo di convivenza e di pace. Un mondo dell’Islam pacifico che dal ritiro occidentale da Kabul trarrebbe solo la lezione di una nostra totale ignavia e mancanza di strategie e valori, a fronte del trionfo di quell’estremismo che anche loro contrastano.

INFORMAZIONE CORRETTA - Piera Prister : " Apprendo in questo momento che sei soldati italiani sono assassinati a Kabul "

 Attentato a Kabul

Apprendo in questo momento che sei soldati italiani sono assassinati a Kabul.
Alla notizia mi si spezza il cuore che batte forte, forte. Il mio
primo pensiero va a loro che hanno perso la vita ad opera di quei
terroristi trafficanti d’oppio; e poi il mio pensiero va a quei
mascalzoni che hanno ordito l’eccidio e che cosi’ facendo hanno voluto
colpire alle spalle il governo Berlusconi orchestrandogli un piano
contro. Mi si affollano nella mente mille pensieri, ma uno e’ piu’
forte di tutti cioe’ che tra i carnefici di quel grande patriota ed
eroe di Maurizio Quattrocchi - che disse ai suoi carnefici che gli
stavano spiccando la testa: “Adesso vi faccio vedere come muore un
italiano!”- ci fossero terroristi Italiani!
Questa frase di Maurizio e’ stata come il desiderio dell’ultima
sigaretta di un condannato a morte, ossia la volonta’ di servire fino
all’ultimo il suo paese rivelando agli Italiani, in Italia, che li’
in mezzo tra i suoi aguzzini ci fossero terroristi Italiani,
traditori; non si sarebbe espresso in Italiano altrimenti nessuno lo
avrebbe capito! Gli altri miei pensieri sono legati alla liberazione
sanguinosa del giornalista di Repubblica Mastrogiacomo e delle due
Simone.  Che cosa aveva promesso il governo italiano di Prodi-D’Alema
in cambio?
Che la magistratura indaghi insieme a tutte le forze del Parlamento
Italiano, che si faccia piena luce, inclusi i servizi segreti
italiani, altro che stare dietro alle vicende private di Berlusconi
che sono state gonfiate ad arte dai media creando un clima da
congiura.
E’ chiaro che in entrambi i casi  c’e’ una volonta’ perversa ed
 occhiuta di colpire l’attuale governo,  discreditando doppiamente  la
sua immagine.
Mi ritornano in mente le parole di Francesco Cossiga al Corriere della
Sera dell’anno scorso, intervistato sulla strage di Bologna...che il
Lodo Moro sia tuttora in vigore.
Piera Prister Bracaglia Morante

Il FOGLIO - Carlo Panella : " Ecco da dove derivano ferocia e resistenza dei monaci guerrieri del jihad "

 Talebani

Roma. I talebani si muovono come pesci nell’acqua a Kabul: questo è il minaccioso segnale che ci viene dall’attentato di ieri. Far saltare in piena capitale due autoblindo Lince, tra le migliori del mondo quanto a protezione, comporta un lavoro organizzativo che può essere portato a termine solo se il territorio lo permette, se è complice. La ferita politica – più che militare – inferta alla Nato e ad Ahmid Karzai è gravissima. L’attentato dimostra che Karzai non è neanche un efficiente “sindaco di Kabul”, assodata la sua poca o nulla presa sulle regioni abitate dai pashtun, in cui i talebani si muovono con agio. Ultima conseguenza dell’errore politico – assolutamente “multilaterale” e per nulla “unilaterale” – della conferenza di Bonn del 22 dicembre 2001, in cui Europa e Stati Uniti si accordarono per affidare a questo dirigente di seconda linea dei pashtun una leadership provvisoria, poi confermata nel giugno 2002 dalla Loja Jirga afghana. Passati nove anni, dopo il round elettorale in cui Karzai si è distinto solo per la capacità di barare e per lo scarso consenso riscosso tra i pashtun, la Nato deve prendere atto non solo dell’errore commesso con Karzai otto anni fa, ma anche di quello ancora più grave commesso nella definizione dell’avversario. Dal 2001 a oggi, infatti, le operazioni militari in Afghanistan non distinguono tra militanti di al Qaida e talebani e considerano gli uni e gli altri come dei “terroristi” da combattere attraverso una guerra simmetrica. Errore fondamentale: i Talebani non sono “arabi”, fanatici venuti da fuori, ma hanno uno spessore politico e una capacità di riscuotere consenso – anche imponendolo col terrore – che affondano le loro radici in otto secoli di storia. C’è una ragione profonda per cui Arabia Saudita, Pakistan ed Emirati Arabi Uniti nel 1966 – unici al mondo – riconobbero formalmente il governo talebano di Kabul, a conclusione dell’apporto determinante che i servizi segreti sauditi e pachistani diedero loro nella conquista del paese. Questi tre stati fondamentalisti riconoscevano infatti, e a ragione, nel mullah Omar e nei suoi progetti una linea di continuità con l’impero Moghul che con Babur, erede sia di Gengis Khan sia di Tamerlano, mosse nel 1526 dall’Uzbekistan e dopo dall’Afghanistan alla conquista dell’India e poi, dopo la parentesi dell’invasione iraniana, con l’impero fondato nel 1747 dallo scià pashtun Ahmad Shah Durrani in Afghanistan. La continuità non è soltanto etnica, non è soltanto legata alla piena accettazione da parte dei talebani del “pashtunwali”, il gretto codice d’onore pashtun, ma è soprattutto ideologica. Talebani, sauditi e pachistani si identificano nei principi del fondamentalismo islamico elaborati a partire dal 1866 dalla Darul Uloom, scuola coranica di Deoband. Scuola – questo pare secondario, ma è fondamentale – che nacque per combattere e contrastare la scuola islamica modernista e razionalista di Aligart, ispirata dall’averroista Sayyid Ahmed Khan. Tutta la storia dell’Afghanistan, del Pakistan e dell’India negli ultimi cent’anni, nel contesto islamico, è segnata dal contrasto feroce – anche militare – tra due concezioni dell’islam: quella fondamentalista, che ha imposto la nascita del Pakistan (con guerre tra Pakistan e India), con i talebani ha trionfato in Afghanistan e quella razionalista e averroista ha plasmato le élites islamiche che hanno partecipato alla formazione della democrazia indiana. La stessa strage di Mumbai si inserisce in pieno in questa guerra interna all’Islam. Il tutto, reso ancora più pericoloso dall’apporto dei predicatori wahabiti finanziati da Riad durante la guerra con l’Urss. I talebani non hanno partecipato in genere – escluso il mullah Omar e pochi altri – alla resistenza contro le truppe sovietiche: erano troppo giovani – ma, ma hanno elaborato un’ideologia di “pashtun pride” di “orgoglio nazionalista pashtun” che ha avuto molto seguito prima del 2001 anche tra intellettuali residenti in occidente. Oggi questa proposta politica dei talebani che amalgama un revanscismo etnico basato su antichi splendori imperiali dei pashtun, un codice d’onore tribale e barbaro e una dogmatica musulmana ben sistematizzata dai deobandi e dai wahabiti, trova ancora consenso, non solo nelle vallate, ma anche nel centro di Kabul. Consenso non plebiscitario, consenso spesso estorto con le armi, dentro una dinamica non dissimile da quella che riscosse il nazismo in Germania negli anni Trenta. Consenso rafforzato da una capacità di diffondere l’attesa per l’oggi dell’Apocalisse, grande segno distintivo negli ultimi anni di un fondamentalismo “dell’ultimo giorno” che lega i loro seguaci a quelli di Hamas, di Hezbollah e di Ahmadinejad. I talebani definiscono la loro terra “Khorassan”, là dove, per la tradizione islamica, lo sventolio di bandiere nere nel “Khorassan è il segno dello scatenamento dell’Apocalisse. Considerare i Talebani dei terroristi e non dei “monaci guerrieri” quali sono è stato il principale errore compiuto da una Nato che ha pensato che bastasse affiancare alle operazioni militari la costruzione di scuole, ospedali e acquedotti per riscuotere consenso. C’è tempo per rimediare. Come David Petraeus ha fatto, in extremis, in Iraq. A patto di non delegare più a Karzai, o Abdullah, la gestione del raccordo politico coi pashtun, di prendere atto del loro fallimento politico, di cessare di far finta che il nation building sia impiantato e di mettere il governo di Kabul sotto amministrazione controllata.

CORRIERE della SERA - Stefano Montefiori : " André Glucksmann: «Non possiamo arretrare la loro libertà è la nostra» "

 André Glucksmann

MILANO — «Prima di qualsiasi altra considerazione vorrei rendere omag­gio ai soldati italiani, inchinarmi di fronte al loro coraggio. Sono morti a Kabul per difendere la libertà della po­polazione afghana e la sicurezza di tut­ti noi, non certo per Karzai». Il filosofo francese André Glucksmann tiene a di­stinguere tra il «perché» della missio­ne afghana — che resta giusta senza esitazioni — e il «come», sul quale le democrazie devono continuare a discu­tere.
Il 2009 è stato l’anno più sanguino­so per le forze occidentali, la presen­za alleata era in difficoltà già prima di quest’ultimo attentato.
«Quando veniamo assaliti dai dubbi dobbiamo ricordarci delle donne marti­ri dei talebani e dell’11 settembre. È per queste ragioni che siamo in Af­ghanistan, e i soldati morti a Kabul lo sapevano bene. La missione è stata de­cisa dalla Nato per solidarietà con gli Usa all’indomani del massacro delle Torri gemelle. Venne stabilito che l’Oc­cidente avrebbe braccato gli assassini anche a casa loro, fino in Afghanistan. Quei motivi restano validi».
Dall’America all’Europa, però, è il momento dell’esitazione.
«L’omaggio che dobbiamo a questi soldati non prevede di rimettere in que­stione la ragione profonda del nostro intervento, che è resistere al fanatismo e agli assassini. È giusto invece pensa­re al modo migliore di restare in Afgha­nistan, magari senza essere costretti a sostenere a occhi chiusi un regime compromesso. Se un solo morto, sei morti, più morti sono sufficienti per convincerci al ritiro, allora era meglio non partire neppure. E se ritirarci è un bene, senza valutare quel che potrebbe accadere agli afghani e ai cittadini di New York, Madrid, Londra, Parigi o Ro­ma, questo è un pacifismo assoluto che non condivido».
Le ultime elezioni sono state un col­po irreparabile per la proposta occi­dentale?
«Non so se irreparabile, di sicuro bi­sogna criticare il marcio che esiste in Afghanistan, ora più che mai, anche per rispetto ai soldati caduti. In politi­ca, come nelle operazioni militari, non ci sono mai delle buone soluzioni ma delle soluzioni meno cattive di altre. Oggi la soluzione meno cattiva implica la critica a un’elezione falsa e a un regi­me corrotto».
L’amministrazione Obama sembra sempre più fredda con Karzai.
«Non siamo certo laggiù per sostene­re questo o quel governo, ma per pro­teggere la popolazione civile, e a Kabul c’è un governo che non pensa abba­stanza alla sua gente perché è troppo occupato a pensare a sé stesso. Non possiamo appoggiare incondizionata­mente chi ha come solo merito quello di non essere talebano. Un governo che trucca le urne e si prende gioco del po­polo è il migliore sostegno involonta­rio ai talebani».
Gli attacchi aerei riescono a elimi­nare il talebano Mehsud, che forse or­ganizzò l’assassinio di Benazir Bhut­to, ma allo stesso tempo fanno molte vittime civili, come è successo a Kun­duz all’inizio di settembre.
«
La strategia militare in Afghanistan è una materia molto complicata e non amo chi pretende di trattarla da troppo lontano, come un Napoleone da bi­strot. Mi permetto solo di dire che ope­rare militarmente contro dei fanatici si­gnifica mettere in conto che anche altri saranno colpiti, è così dalla preistoria. Esiste però l’obbligo morale di fare ogni sforzo per ridurre al massimo le le perdite tra i civili. Poi, ricordiamoci di tutte le vittime, anche quelle non ricon­ducibili alla nostra responsabilità. Mol­ti innocenti muoiono oggi ma ne mori­vano ancora di più ieri, quando in Af­ghanistan non c’eravamo. Infine, preoc­cupiamoci anche dei nostri caduti sul campo. Credo vada a merito dei nostri eserciti il fatto di non usare i soldati co­me semplice materiale bellico».
Come imprimere una svolta? In Iraq il «surge» del generale Petraeus è stato determinante.
«In Iraq la svolta c’è stata non solo con più truppe ma anche grazie a mi­gliori rapporti con la popolazione. Que­sto tema è centrale anche in Afghani­stan, dove la gente oggi è disillusa, si sente abbandonata a sè stessa ed è quindi facilmente preda dei talebani. La priorità oggi è lavorare per portare più fasce della popolazione dalla no­stra parte».
E trattare con i talebani?
«Se esistessero degli interlocutori pos­sibili, perché no. Per adesso non li ve­do; il mullah Omar ha respinto l’offerta di dialogo di Karzai. Comunque, in una guerra bisogna negoziare con tutti quelli che lo vogliono: in Iraq abbiamo trattato con i combattenti sunniti, e ab­biamo fatto bene. Se riusciremo a di­stanziarci dal dispotismo di Karzai e a convincere così più afghani a stare con noi, forse alcuni capi talebani potrebbe­ro trovare vantaggiosa la trattativa. A quel punto, negoziare converrebbe an­che a noi».

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