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Informazione Corretta - Il Foglio - Il Riformista - Il Giornale - Il Messaggero -Il Manifesto Rassegna Stampa
04.10.2008 Dossier elezioni americane
le analisi di Emanuela e Piera Prister, Giuliano Ferrara, Daniele Raineri, Antonio Polito, Peppino Caldarola e R.A Segre. Inoltre, interviste e la solita disinformazione

Testata:Informazione Corretta - Il Foglio - Il Riformista - Il Giornale - Il Messaggero -Il Manifesto
Autore: Emanuela e Piera Prister - Giuliano Ferrara - Antonio Polito - Peppino Caldarola - R.A. Segre - Stefano Zurlo - Eric Salerno - Stefano Liberti
Titolo: «Elezioni americane - Festa malinconica per il caro amico Bush - Ma io sto col vecchio Mc Cain - Un riformista per Barack - Anche la Palestina urla: Obama Insh'Allah - Mc Cain a noi ebrei dà più garanzie -»

Gli arabi puntano sul senatore nero Israele schierato conil repubblicano - Barack cambierà l'America

Oggi, 4 novembre 2008, i quotidiani italiani dedicano ovviamente ampio spazio alle elezioni americane.
Di seguito, pubblichiamo una selezione di articoli in merito.
Iniziamo dall'analisi di Piera ed Emanuela Prister scritta per
INFORMAZIONE CORRETTA

Siamo ormai agli sgoccioli, in America si vota oggi, anche se gia'
milioni di cittadini americani aspettando pazientemente in fila hanno
gia' votato grazie all' "early voting". C'e gia' stato un grande
afflusso di elettori nella passata settimana, perche' queste elezioni
sono considerate come cruciali. Anche per un osservatore neutrale, la
battaglia fra i due contendenti Barack Obama e John McCain per la Casa
Bianca e' stata impari sin dall'inizio.

Barack Obama e' il candidato del partito democratico, amato dai media
e da tutte le celebrita', che si presenta come un messia infatuato di
se stesso, che ripete all'infinito alla folla che gli fa eco, gli
slogan: " We are the ones we have been waiting for"  e "Yes, we can",
preferito dalla quasi totalita' dei  media,  malgrado sia un candidato
il cui passato non sia affatto chiaro e la cui personalita' e' un
mistero anche per i giornalisti che lo hanno seguito adesso quasi da
due anni. Con tutte le sue illiberali amicizie - non ultima quella di
cui molto si discute in questi giorni con un professore palestinese,
Rashid Khalidi della Columbia University, che sostiene che Israele e'
una "Apartheid system  in creation", con cui Obama era molto amico e
compagno di merende sin dagli anni '90 a Chicago - ci si chiede chi
veramente sia questo Barack Obama, anche se incredibilmente potrebbe
divenire Presidente. Ci si chiede anche come mai quello che e' stato
definito il senatore piu' a sinistra (liberal) del Senato - quello che
nel 2001 ha rilasciato un intervista dove deprecava che la Warren
Court non fosse stata "progressista" abbastanza perche' non
interpreto' nella Costituzione Americana la "giustizia economica e
distribuitiva ("never ventured into the issues of redistribution of
wealth and sort of more basic issues of political and economic justice
in this society" Il Chicago Sun Times
http://www.suntimes.com/news/huntley/1252150,CST-EDT-hunt31.article,
parole in gergo della lotta di classe - possa poi nelle interviste al
pubblico sembrare cosi' pacato cosi' centrista cosi' rassicurante.
Salvo poi fare una gaffe enorme nel rispondere a "Joe the Plumber"
(l'idraulico) che il suo scopo e' appunto di ridistribuire le
ricchezze.

John McCain e' il candidato del partito repubblicano, un vecchio leone
e un eroe di guerra che si batte strenuamente per il suo paese,
avversato fino alla derisione da tutte le televisioni  cosiddette
liberali. In continuazione mettono in risalto, sbeffeggiandola, la
goffaggine fisica di McCain, che e' dovuta ad una minorazione delle
braccia, per le torture subite ad Hanoi, perche' rivelasse i segreti
militari che gli aguzzini non riuscirono ad estorcergli. I democratici
dimenticano che il grande presidente democratico americano Franklin
Delano Rooselvelt, si muoveva su una sedia a rotelle e che certo per
questo non fu meno grande. Non fatevi ingannare dall' aspetto di John
McCain "I-saw-Putin-in-the-eye-and-I-saw-three-letters-KGB!" Sara'
minato nel corpo ma non nello spirito.In tutte le battaglie che ha mai
fatto, lo davano per perdente, ma non per questo si e' arreso, anzi,
famosamente e gloriosamente disse "preferisco perdere un'elezione che
una guerra" riferendosi alla Guerra in Iraq, e se I nostri soldati
stanno vincendo oggi lo dobbiamo anche a lui, perche' ha rifiutato di
tirarsi indietro e ha mosso mari e monti perche' ai nostri soldati
fosse permesso di impugnare la strategia vincente.
 Amiamo la satira perche' e' sinonimo di democrazia, ma non ci piace
quando bersaglia unidirezionalmente e ripetitivamente  solo il
candidato repubblicano e la sua vice Sarah Palin di cui senza pieta'
gli avversari hanno detto peste e corna  persino nei salotti
televisivi, e questo si ripete disgustosamente ogni giorno. C'e' del
marcio sotto, come c'e' del marcio quando Barack Obama e' apparso come
se gia' fosse stato investito della presidenza, seduto dietro uno
scrittoio, il 31 ottobre in "prime time", nell'ora di maggior ascolto,
su sette maggiori stazioni televisive a reti unificate,  per chiedere
il voto agli elettori al suono del canto patriottico "America The
Beautiful". E costoro sarebbero i cosi' detti liberali, dov'e' andato
a finire il pluralismo dell'informazione  e dove e' andato a finire il
buon giornalismo, ce lo chiediamo!
Questa e' la piu' abietta propaganda indegna di una democrazia, che ci
ha nauseati e ci ha fatto rivoltare lo stomaco, infuriati e memori
della "par condicio" dei tempi d'oro di Marco Pannella ed Emma Bonino
quando apparivano alla televisione italiana con il bavaglio sulla
bocca, come dovrebbe apparire ora McCain che e' oscurato da tutti i
media che la fanno da padroni, questo e' il piu' becero tentativo di
lavaggio del cervello a cui speriamo che gli Americani si sottraggano
e ci auguriamo lo respingano con il voto.  Abbiamo fiducia nel popolo
americano che pratica la democrazia senza interruzione sin dalla
fondazione degli Stati Uniti, il 4 luglio 1776, una democrazia basata
sul principio del "Common Sense" di Thomas Paine,  quel senso comune
che e' ormai radicato nel pragmatismo americano, grazie a quel
filosofo e giornalista che scrisse, stampo' e diffuse tra i coloni, il
suo pamphlet di 47 pagine, venduto a centinaia di migliaia di copie e
scritto con un eloquio semplice e accessibile a tutti, per informarli
e prepararli alla rivoluzione contro la  tirannide inglese e guidarli
alla conquista dell'indipendenza e della democrazia, che avvenne senza
gli eccessi e senza tanto spargimento di sangue, come avvenne invece
in altre rivoluzioni. Ci si deve piuttosto chiedere invece da dove
Obama tiri fuori tutti quei milioni di dollari e chi lo finanzi per
potersi permettere anche di spendere quella cifra iperbolica di denaro
solo per quel suo messaggio a reti unificate della durata di mezz'ora.
Neanche il presidente Gorge Bush nel suo tradizionale " state of the
Union Address" parla da sette reti unificate.

Di Obama sappiamo poco, non sappiamo con sicurezza dove sia nato, dove
abbia frequentato le scuole inferiori e superiori, con quale
passaporto abbia viaggiato all'epoca e chi abbia pagato per le sue
ingentissime tasse  all' Universita'. Non sappiamo con chiarezza e
nonostante la legge McCain-Feingold, chi siano coloro che lo
sostengono con donazioni di denaro, ci si chiede se parte del denaro
e' di provenienza straniera. Non e' ben chiaro il suo legame con
ACORN, un organizzazione ormai investigata in parecchi stati per frode
elettorale, tranne che si sa che Obama fu un loro rappreseantante in
quanto avvocato, e contribui' al loro "operato" anche in qualifica di
"leadership trainer" e dono' $800,000 alle loro operazioni,
inizialmente mascherando il pagamento come un pagamento per "stage,
lighting or sound".  Il tutto e' tuttora un mistero!
Ma siamo tranquille che l' alba del 5 Novembre rinforzera' la nostra
fiducia nei nostri concittadini, questo non e' un paese da lotta di
classe, l' invidia delle ricchezze altrui non alberga qui. Gli Hugo
Chavez del mondo non ci affascinano. Questo e' il paese dei guadagni
col sudore della fronte, questo e' il paese dove tutti a prescindere
dai propri natali e anche a prescindere dall' erudizione, possono
divenire ricchi domani, se solo ci credono e lavorano duro per
perseguire quel fine. Questo e' il paese dove poliziotti e pompieri si
sono lanciati in palazzi in fiamme e pericolanti per salvare coloro
che lavoravano li'.

Ve l' immaginate un atto cosi' eroico in un paese di lotta di classe?
I poliziotti in tale paese chiederebbero cosa gli verrebbe in tasca a
loro. Direbbero "tengo famiglia"!

No. John McCain vincera' il 4 Novembre.
Non ci saranno sondaggi che tengano.
E quelli che preferiscono una presidenza debole, e un'America pervasa
dal malessere europeo della lotta di classe, del finto buonismo, delle
tasse alle stelle e dell'antisemitismo di governo, rimarranno delusi.

Piera ed Emanuela Prister

Dal FOGLIO, un articolo di Giuliano Ferrara, ; un bilancio dell'amministrazione Bush.

George W. Bush se ne andrà il 20 gennaio. Oggi di presidente ne eleggono uno nuovo. Bianco o nero alla fine importa e non importa. Non importa, fino a un certo punto, se collaudato o inesperto. Se giovane o vecchio. Se cool o impulsivo. Se democratico o repubblicano. Quel che conta è che il nuovo presidente degli Stati Uniti, chiunque egli sia, e sarà probabilmente Barack Obama, prende in mano un paese che dice di voler cambiare radicalmente o addirittura redimere dopo otto anni infausti di presidenza Bush.

Obama promette in realtà di mantenere al Pentagono Robert Gates, la scelta di Bush dopo le dimissioni di Donald Rumsfeld. Un suo candidato a ministro del Tesoro, il capo della Federal Reserve di New York Timothy Geithner, applicherà il piano finanziario bipartisan concordato con il ministro di questa amministrazione, Henry Paulson, e votato insieme, al Congresso, da democratici e repubblicani. McCain si fa un vanto di aver appoggiato energicamente il surge del generale Petreaus in Iraq, che Bush ha voluto quasi da solo e ha imposto contro l’opzione del ritiro sostenuta da tutto l’establishment politico-militare del paese, e vuole confermare il taglio delle tasse varato da Bush sette anni fa (contro la sua opinione dell’epoca). Sulla campagna elettorale non incombe più massiccio il problema del terrorismo e della guerra al terrore: da sette anni il territorio americano è protetto, e la controffensiva in atto su due fronti ha dalla sua due vittorie contro i Talebani e contro Saddam, e lo scompaginamento dell’organizzazione di Bin Laden, inseguita nelle grotte e nelle montagne del Waziristan.

Il passato dunque pesa, è significativo, è ineludibile, però entrambi i candidati cercano di definirsi il più possibile come alternative alla Washington di questi anni e al presidente che l’ha governata. D’altra parte il coro dei media vincenti e di quasi tutti gli establishment occidentali è praticamente unanime. Le eccezioni stimabili ma rarissime. Il più ovvio dei propagandisti ideologicamente corretti e purtroppo anche molta gente seria convergono in ogni parte del nostro mondo sul fatto che gli ultimi otto anni sono stati una sequela di errori, sconfitte, inganni e perfino tradimenti della Costituzione scritta più antica del mondo. Anni che hanno condotto l’America al declino economico, all’isolamento e alla debolezza sulla scena internazionale.
Siccome questo giudizio non regge alla prova dei fatti, e tantomeno reggerà il vaglio del tempo, è interessante che sia così diffuso. E che abbia dei precedenti illustri. In forza di disastrosi sondaggi Gallupp – alla Bush – che gli sconsigliarono la ricerca di un nuovo mandato, fu negata al presidente americano Harry Truman (1945-1953) una considerazione imparziale della sua eredità politica; molti anni dopo gli si riconobbe universalmente un ruolo di leader strategico del suo paese e dell’occidente nel fuoco vivo del secondo dopoguerra e all’altezza di quella grande storia.

Truman fu infatti il presidente democratico che annunciò la resa della Germania, bombardò Hiroshima e Nagasaki piegando il Giappone, si oppose alla invasione cinese della Corea con una guerra durissima e costosissima in eroismi e vite umane, costruì la Nato, decise il ponte aereo in difesa di Berlino, varò la strategia del containment e impose il piano Marshall per l’Europa e la dottina Truman ovvero il primato americano nella lotta al comunismo in regime di guerra fredda e di condivisione del potere atomico con l’Unione Sovietica….

Più in generale, come nei casi di Winston Churchill e Charles de Gaulle (ma anche, se volete, un Tony Blair), è difficile raccogliere eredità di guerra e reinvestirle in politica, almeno a botta calda. All’indomani di grandi stagioni di combattività politica e militare può succedere si preferisca scegliere un Clement Attlee, vincitore sbiadito delle elezioni inglesi contro il condottiero della Seconda Guerra mondiale, o una qualche rachitica quarta Repubblica, come nel caso del provvisorio ritiro postbellico del generale di brigata che si era messo a capo della Francia Libera. Oppure può succedere che si fissi la data di una ordinaria staffetta di partito, come accaduto a Westminster con la successione di Gordon Brown al premier che aveva combattuto Milosevic, Saddam e i Talebani. Analizziamo a parte in queste pagine il caso Truman e divaghiamo in altri articoli sui grandi caratteri guerrieri della storia ripudiati nell’immediatezza della successione, per essere ampiamente riabilitati nel tempo dal giudizio obiettivo.

Intanto, valutando la presidenza Bush e salutandola con un poster conservative-kitsch che trovate nel paginone centrale, bisogna dire poche cose semplici a lettori da tempo abituati a posizioni non troppo facili se non addirittura anticonformiste. Errori ne hanno fatti, quei due. La crisi di leadership e di consenso non può non essere anche responsabilità del presidente e del suo vice Dick Cheney con i loro staff. Errori nel management della ricostruzione irachena, una fatale lentezza nel trovare il generale giusto, errori domestici nel rapporto con il Congresso, nel governo della coalizione repubblicana della Right Nation in campi decisivi come la sicurezza sociale e l’immigrazione, nell’affrontare le conseguenze dell’uragano di New Orleans, nel controllo della prassi degenerativa di un certo lobbismo vicino ai vertici parlamentari del GOP (come nel caso Abramoff) o nella pratica dello scambio localistico e clientelare (il diffuso fenomeno degli earmarks o del pork barrel).

A tutto questo grandissimo casino non è estranea la responsabilità politica dell’amministrazione che vinse un secondo mandato appena quattro anni fa. Allora titolammo con oltraggiosa sicurezza, mentre i sondaggi rovinavano addosso a molti altri giornali persi dietro a John Kerry: PERCHE’ HA VINTO GEORGE W. BUSH – il presidente che taglia le tasse e fa la guerra. Domani o dopodomani a seconda del flusso dei dati, salvo sorprese nella lotteria dei numeri, oggi imprevedibili, registreremo la vittoria di un nemico della guerra e dei limiti dello stato fiscale, con un rovesciamento di prospettiva politica e culturale molto ma molto pronunciato. Il paradosso dell’abile e tenace Obama è che vincerà un mezzo protezionista sponsorizzato anche dal giornale, l’Economist di Londra, fondato un secolo e mezzo fa per affermare il libero scambio. E il paradosso dell’inquieto e onesto McCain è che una sua probabile sconfitta sarebbe addossata al suo predecessore, alla debolezza strutturale del consenso repubblicano dopo otto anni di presidenza repubblicana, ma anche una sua improbabile vittoria sarebbe celebrata come una svolta rispetto ai due mandati di Bush anziché come il risultato della sua legacy, il frutto dell’azione storica del presidente dell’11 settembre.

A proposito dell’11 settembre c’è da notare che nei tre dibattiti nazionali e nella comune oratoria politica della campagna, come anche nelle primarie, la data è praticamente scomparsa. L’impressione è che gli americani abbiano privatizzato il ricordo del dolore e siano ferocemente determinati a cancellare il capitolo aperto sulla scena della decisione pubblica dal volo dei diciannove shahid islamici sulle due torri del WTC e sul Pentagono. Circola nelle librerie americane un libro di Douglas Feith, “War and Decision”, che racconta con abbondanza di documenti archivistici e vivi particolari drammatici la storia che va dall’11 settembre alla guerra in Iraq. Feith era un alto funzionario del Pentagono, le sue sono informazioni leali fornite da un insider. Si capisce dal suo racconto che Bush e Cheney e Rumsfeld, spesso in condizione di relativo isolamento e di strenua rersistenza da parte di pezzi consistenti dell’amministrazione, in sostanza remando sempre contro la Cia e il Dipartimento di stato, e spesso contro le alte gerarchie dell’esercito, hanno compiuto un miracolo politico, diplomatico e militare. Un altro libro (“Angler”), questa volta di un eccellente giornalista liberal del Washington Post, Barton Gellman, è dedicato al capolavoro politico di Cheney: la spericolata riforma del potere esecutivo, ricondotto a unità efficente a viva forza, e con le risorse dell’astuzia e le durezze del più spietato machiavellismo, dopo la lunga fase di indebolimento della funzione presidenziale seguita al Watergate.

L’autore del libro è contrario a quella riforma, che giudica ai limiti della Costituzione, ma nel suo racconto obiettivo trova posto la decisa convinzione che Bush e Cheney, nonostante dissensi e spettacolari drammi interni al circuito del loro potere, abbiano agito in base a una visione politica e legale inattaccabile sul piano della buona fede, materia civile cruda, tragica e nutrita di analisi realistiche commisurate ai rischi effettivi dell’offensiva terroristica internazionale dopo l’11 settembre. E che la loro manovra sia stata coronata, con qualche eccezione, da un sostanziale successo.

Ma non basta la questione delle due guerre vinte. C’è un altro mistero politologico straordinario da segnalare. Bush, e con lui McCain, paga la crisi finanziaria. Ma tutti sanno che Bush non è e non è mai stato un uomo di Wall Street. Che il circuito dei grandi investitori e banchieri d’affari, delle istituzioni finanziarie e dell’establishment politico che è in connessione con loro è piuttosto liberal, o comunque democratico. Tutti sanno che il fenomeno dell’easy money, con la diffusione universale del rischio immobiliare giocato nel mercato finanziario a costo zero, nasce negli anni del boom della new economy con Clinton e i consiglieri attuali di Obama, i Robert Rubin e i Lawrence Summers, segretari al Tesoro dei democratici e controparte politica di Alan Greenspan quando furono messe le basi della grande crisi dei mercati in settembre e in ottobre. Si sa che il mondo repubblicano, semmai, è quello del big business, dell’economia reale. E si sa, infine, che Bush l’economia reale l’ha premiata con otto milioni di posti di lavoro e una incredibile successione di tassi di crescita competitivi con il passo lungo dell’Asia. Si sa che il mondo della mutualità immobiliare è una tradizionale eredità del New Deal, e che le sue colossali agenzie all’origine della crisi, Fanny Mae e Freddie Mac, furono a lungo le vacche sacre della Great Society di Lyndon Johnson, l’avversario del padrino della destra liberista americana, quel Barry Goldwater, uomo del west, che perse le elezioni del 1964 contro Johnson ma nella sconfitta seminò le idee del manifesto della Right Nation per molti decenni a venire.

Il paradosso dei paradossi è che Bush ha vinto le sfide politiche che ha impostato e quelle ricevute dalla storia, non solo nella risposta all’11 settembre. Bush non si è limitato a vincere due guerre, a proteggere l’America, a mandare in pensione gli europei che l’avevano braccato a braccetto delle masse pacifiste, come Chirac e Schroeder, ristabilendo relazioni politiche solide con gli alleati e lasciando al suo isolamento la diserzione di Zapatero. Non ha soltanto bloccato la nuova Monaco occidentale, realizzando il disarmo di Gheddafi e di Kim Jong Il e le condizioni di un intervento drastico per impedire la nascita di un Iran nucleare. Fronteggiando e mettendo nell’angolo, fino a che è stato possibile con un linguaggio di amicizia, la nervosa e autoritaria Russia di Putin. Consolidando il rapporto con una Cina sfuggente, e avviando uno storico nuovo incontro con l’India.

Bush ha dato una risposta ai tremendi problemi dell’educazione in America, con il programma bipartisan “No Child Left Behind”, controfirmato da Ted Kennedy; ha realizzato un conservatorismo compassionevole con i sostanziosi programmi di lotta all’Aids e alla povertà, con una ragionevole estensione del welfare dove era necessario, con la tutela della vita nascente nel campo della legislazione e della ricerca biotecnica, varando leggi e nominando giudici che leggono la Costituzione secondo le intenzioni dei suoi autori, cioè un disegno di giustizia, invece di esprimere la loro personale “empatia” verso i deboli (come impone l’ideologia attivista e giustizialista di Obama). Malgrado questo la nazione oggi si libera di lui in modo brusco, votando due candidati che in modo diverso, e con conseguenze politiche diverse, prendono tuttavia entrambi le loro distanze da lui e dai sondaggi che limitano l’approvazione della sua politica a un misero 25 per cento. Come è possibile?

Nel mondo occidentale, piano piano, fin dai tempi di Truman e dei primi Gallupp, si è introdotto e insediato stabilmente un nuovo potere sottilmente manipolativo di tipo democratico e statistico (tra i due concetti c’è parentela). Parliamo del circuito dei sondaggi e del cosiddetto sistema del mainstream media ovvero il dominio delle comunicazioni di massa, e della tv e del Web in particolare. L’opinione pubblica sondata, presuntiva, è un’altra cosa rispetto al vecchio “plebiscito di ogni giorno”, che era l’opinione nazionale e nazionalista ai tempi della Prima guerra mondiale. Questa opinione non regge un presidente o un premier di guerra, sceglie per indole l’isolazionismo o l’appeasement, dimentica oggi il significato delle guerre che ha voluto appena ieri. Bush di questa opinione presuntiva dei sondaggi è la vittima sacrificale, e solo così – dicono alcuni – si spiega il rovesciamento logico di un presidente che vince tanto e perde altrettanto.

Un confronto tra Bush e Truman:

Io sono Truman e tu sei Ike Eisenhower: ora mi critichi, ma finirai per portare avanti le mie idee”. Così diceva, poco più di un anno fa, George W. Bush a Hillary Clinton. La previsione non s’è avverata, perché alla fine la nomination democratica l’ha ottenuta Barack Obama e non l’ex first lady, ma su una cosa il presidente americano continua ad aver ragione: in tanto, se non in tutto, la sua parabola politica assomiglia maledettamente a quella di Harry Truman. Come Truman, Bush ha vinto un’elezione contro tutti i sondaggi. Nel ’48 era talmente certa la vittoria del repubblicano Thomas Dewey che il Chicago Tribune ci fece uno storico titolo di prima pagina, sbagliando previsione. Nel 2004 è stato Bush a battere John Kerry contro (quasi) tutti i pronostici. Come Truman, Bush ha registrato – negli ultimi tre anni – un vertiginoso calo di popolarità dovuto all’opposizione al proseguimento della missione in Iraq, nonostante i successi del generale Petraeus, e all’esplosione della crisi economica, oltre al caso Katrina. Più o meno gli stessi motivi che indussero Truman, nel 1952, a non ricandidarsi alla presidenza, dopo il primo mandato pieno (nel ’45, morto Roosevelt, gli era subentrato in quanto suo vice) perché il suo piano per l’economia (il Fair Deal) e la guerra di Corea gli avevano alienato le simpatie dell’elettorato, come dicevano i sondaggi Gallup, appena nati. Come Truman, Bush è stato molto amato, tanto da ottenere un consenso del 92 per cento dopo l’11 settembre; il presidente democratico, finita la Seconda guerra mondiale, era ben visto da 87 americani su cento. Le analogie tra i due non si esauriscono con i numeri dei sondaggi e nemmeno nella scelta – determinante per il giudizio dei contemporanei – di intraprendere guerre impopolari. Il fatto stesso che Bush ami richiamarsi a Truman, che pure era un democratico, è indicativo. Nel suo predecessore, il presidente repubblicano vede innanzitutto un precursore della sua dottrina fondata sulla “libertà dei popoli”. Con la differenza che a minacciarla, allora, era il comunismo, mentre adesso il pericolo è rappresentato dal terrorismo islamista che nell’ultimo decennio ha colpito duramente l’occidente a casa sua, da New York a Londra. In questo senso, richiamarsi a un presidente capace – in poco più di un mandato – di vincere una guerra mondiale, fondare l’Onu e pure la Nato, varare il piano Marshall e iniziare il percorso politico che pose fine alla segregazione degli afroamericani è sintomo della volontà di essere ricordato più come statista scomodo che come un politicante inconcludente e amato dalla folla. Resta da capire se – come accaduto con Truman, da tempo considerato tra i migliori dieci presidenti nella storia degli Stati Uniti – i posteri tenderanno a rivalutare anche l’operato di Bush. Gianni Riotta, direttore del Tg1, esperto di cose americane, dice al Foglio che “il paragone è difficile, anche se suggestivo. Forse, come diceva poco tempo fa in copertina Foreign Policy, ‘il cowboy ci mancherà’, dubito però che i posteri possano rivalutare Bush così tanto. Che sia stato il presidente più impegnato per l’Africa probabilmente non basterà a rovesciare il giudizio dei contemporanei, soprattutto in Europa. Ma è pur vero che gli europei odiavano persino Reagan”. Per Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano, “la differenza tra i due è nelle rispettive dottrine. Quella di Truman si rivelò subito efficace. Quella di Bush no. E poi Truman pagò in termini di popolarità la soluzione di grandi problemi. Il presidente uscente, al contrario, lascia più questioni irrisolte che altro”. Chi invece è convinto che un “effetto Truman” ci sarà è Nile Gardiner, dell’Heritage Foundation: “Gli storici e le generazioni future – spiega al Foglio – riconosceranno a Bush il successo strategico nella lotta all’islamismo in nome della libertà e della democrazia. Quello che oggi lo rende impopolare sarà il suo lascito di statista”.

Un'analisi di Daniele Raineri:

Idemocratici rimproverano all’Amministrazione Bush di aver interrotto i rapporti diplomatici con i nemici dell’America. Facciamo i cowboy, sfoggiamo unilateralismo muscolare – accusano – invece che trattare, ci isoliamo quando invece dovremmo ricorrere a negoziati: i risultati sono disastrosi. In realtà è l’opposto. Per quanto possa sembrare controintuitivo, negli ultimi due anni e anche prima Washington ha compiuto balzi inauditi nelle relazioni con i paesi ostili. L’Amministrazione Bush è stata la prima dalla rivoluzione islamica del 1979 in Iran a riaprire le relazioni diplomatiche ufficiali con Teheran. Ventotto maggio 2007, a Baghdad, attorno al tavolo lungo in legno nell’ufficio del presidente iracheno Nouri al Maliki (non presente). L’ambasciatore americano Ryan Crocker ha stretto la mano, ha bevuto thè e ha negoziato faccia a faccia con la controparte iraniana Hassan Kazemi Qomi. L’americano è uscito dicendo che l’incontro è stato “molto simile a una riunione d’affari. La posizione dell’Iran sull’Iraq, come mi è stata spiegata dal suo ambasciatore, è molto simile alla nostra”. Sono seguiti altri incontri (prima dell’arrivo al potere di Mahmoud Ahmadinejad, si è a lungo parlato anche di contatti riservati in Afghanistan). Kazemi Qomi, l’inviato di Teheran, è un ex comandante di quelle Guardie rivoluzionarie dell’Iran che il dipartimento di stato ha inserito l’anno scorso nella lista delle organizzazioni terroristiche assieme ad al Qaida e Hezbollah. E’ il primo reparto di forze armate regolari al mondo a subire questa sorte. Ma la diplomazia che non ti aspetti dell’Amministrazione americana è così: si può stringere la mano a un ex Guardiano della Rivoluzione quando si negozia sulla situazione in Iraq e allo stesso tempo dichiarare terroristi i suoi. Si decide volta per volta, si distingue su ogni singola questione e si lavora su tavoli separati. Intanto, tra due settimane, a Teheran apre la prima sezione d’interessi americana. Non è ancora una vera ambasciata – gli americani usano quella svizzera a Teheran e gli iraniani quella pachistana a Washington per i loro contatti – ma, di nuovo, il primo passo arriva dall’Amministrazione dei falchi e dei neocon isolazionisti (ora il regime vuole in cambio voli diretti Iran-Stati Uniti). Tanto che Arabia Saudita, Giordania ed Egitto hanno protestato, perché sono tre paesi arabi e sunniti che temono un grande accordo tra l’America e il loro antagonista persiano e sciita. Corea del nord e Libia La nuova sezione d’interessi lavorerà soprattutto sulle relazioni tra i due popoli, americano e iraniano, e sulla concessione di visti (la più grande comunità iraniana al mondo? E’ in California). Sono relazioni che mostrano affinità travolgenti. Al netto della retorica apocalittica del regime, che anche ieri ha mandato i figuranti in piazza a cantare “Morte all’America” per l’anniversario della presa dell’ambasciata americana, l’importazione di merce dagli Stati Uniti – beni non sottoposti a sanzioni, vestiti, frigoriferi, lingerie, sigarette, strumenti musicali, sperma di toro e altro – nei due mandati di George W. Bush è aumentata del mille per cento. Un episodio spettacolare di questa diplomazia discreta, concreta e attenta ai rapporti di forza è appena accaduto in Siria. Le squadre speciali americane per la “caccia ed eliminazione” sono arrivate in elicottero su Sukkariyah domenica 26 ottobre, ad appena otto chilometri dall’Iraq, e dopo una sparatoria furiosa hanno portato via due comandanti di al Qaida. Secondo il Sunday Times, e prima ancora secondo il quotidiano israeliano Yedioth Ahronot, il governo di Damasco ha cooperato con gli americani. Ha indicato loro il covo terrorista. Durante il raid le batterie antiaeree hanno chiesto di poter sparare agli elicotteri, ma hanno ricevuto dall’alto l’ordine inaudito: “No, non sparate”. Ora il regime fa scena, convoca manifestazioni di piazza, annuncia vendette “dolorose”. Ma è arrivata persino sui giornali la notizia fantastica che ci sono contatti fra i servizi segreti militari dell’aviazione siriana – Idarat al Mukhabarat al Jawiya – e gli americani. A dieci giorni dalle elezioni, mentre il mondo guarda a Barack Obama con la speranza convenzionale che sieda a parlare con i paesi nemici dell’America, si scopre – con enorme imbarazzo siriano – che Damasco invita soldati americani sul proprio suolo. La diplomazia a denti stretti dei cowboy in otto anni ha raggiunto obiettivi centrali. La Libia del colonnello Gheddafi ha dismesso, dopo accordi segreti fra le intelligence, il proprio programma di armamento nucleare e chimico. La Corea del nord ha fatto lo stesso, dopo negoziati complessi, prima interrotti e poi ripresi. Il lavoro dei successori si dovrà regolare su standard alti


Il RIFORMISTA si schiera decisamente a favore di Barack Obama. Ne spiega le motivazioni in un editoriale il direttore Antonio Polito per il quale " se vincerà Obama, la ventata americana nel mondo sarà formidabile. Ci sarà più America, non meno America. Costringerà noi europei a più impegno, non a meno fatica".
Di seguito, l'articolo:

Che cosa c'è di riformista in Obama? Me lo chiedono tanti lettori e amici (Alberto Mingardi a pagina 8, per esempio). Essi dicono: a parte il fatto che è bello, giovane, moderatamente nero, figo senza essere fighetta, a parte il fatto che si muove come uno street dancer e parla come un rapper, che interpreta alla perfezione lo spirito del tempo e vola spinto dal vento del secolo, che altro ci vedi in Obama?
Questi ragionamenti mi ricordano un vecchio film dei Monty Python, «Brian di Nazareth», in cui un leader rivoluzionario della Palestina ai tempi di Cristo incitava il suo popolo alla ribellione contro l'oppressore romano: «Perché a parte la moneta, gli acquedotti, i tribunali, le strade, la medicina, il commercio, il circo ecc. ecc., che altro hanno fatto i Romani per noi?». Voglio dire: tutti i doni che il Cielo ha dato a Obama, e che anche i critici gli riconoscono, potrebbero già bastare, no?

Ma accetto la sfida e spiego che cos'ha di tanto riformista Obama, per me. Io tifo Obama per la ragione opposta a quella che spesso viene agitata dalla vulgata di sinistra. Quella dice: Obama può salvare l'America da se stessa. Gestire il suo inevitabile declino economico e politico, emendarsi dagli otto anni sciagurati di Bush, rinunciando all'ambizione imperiale di mettere il naso nelle vicende del mondo. C'è chi tifa Obama perché spera che lui possa ridimensionare l'America. Noi invece tifiamo Obama per salvare il mondo dall'assenza dell'America, dalla illusione che se ne possa fare a meno, che la si possa mettere in castigo per gli otto anni di Bush, e che ne si possa sostituire la leadership con un fantomatico congresso multipolare delle nuove grandi potenze, la Cina e la Russia, l'Europa e il Brasile, sai che spettacolo.

Il riformista parte da un assunto: la leadership del mondo libero resterà ancora a lungo, ancora in questo secolo, nelle mani degli Stati Uniti d'America. La retorica del declino e del crollo americano l'abbiamo già vista troppe volte in azione per crederci davvero. L'articolo di Robert Kagan pubblicato dal New York Times confuta in maniera inesorabile questa illusiione. Ma se l'America deve essere ancora alla guida del mondo libero, allora è necessario che abbia fiducia in se stessa, che si senta «born again», che sia animata dall'eccitazione e dalla allegria di un nuovo inizio, che non cada nella depressione da isolazionismo, solo perché le opinioni pubbliche del mondo dicono nei sondaggi di non amarla più come un tempo.

Barack Obama assicura tutto questo. Apre un'epoca. E non tanto perché è nero, e dunque ascendendo alla Casa Bianca metterebbe fine alla questione razziale. Così non è. Obama non discende dagli schiavi delle piantagioni, deportati dall'Africa. Non è un nipote dell'Ottocento, ma un figlio del Duemila. Figlio della globalizzazione, di un padre kenyota andato negli Usa per studiare, non per raccogliere il cotone; figlio di una madre del Kansas, nipote di una nonna nera in Africa e di una nonna bianca alle Hawaii. Più che chiudere l'era della questione razziale, apre l'era della questione multirazziale. Nessuno più di lui può dunque incarnare, innanzitutto nella sua persona prima ancora che nella sua politica, questa proiezione dell'America nel mondo nuovo che essa stessa ha costruito, con la sua industria, la sua finanzia, la sua cultura e la sua politica: il mondo dei commerci aperti e della libertà economica, che ha cambiato la faccia del pianeta nell'ultimo quarto di secolo, e per il meglio, sollevando miliardi di uomini dalla povertà e dall'arretratezza, e che non deve essere buttato nel cestino della storia solo perché si è esagerato coi derivati e la finanza ha fatto crac.

Questo, per un riformista, è Obama. E il programma, scusate, conta poco: chi se ne frega del programma quando il candidato è tutto un programma? E non c'entra niente che McCain sia ben più che un decent man, è uno splendido candidato, capace e serio, patriota e onesto, un uomo che ha tutti i numeri per vincere le elezioni e chissà, magari le vincerà pure, distruggendo ancora una volta la credibilità dei sondaggi e dell'establishment che parla parla - compreso noi - e non sa quello che il popolo davvero pensa. Se così sarà, non ci sarà nulla da temere: gli Stati Uniti, per fortuna, non sono un paese dove si cambia regime quando si cambia presidente.

Ma se vincerà Obama, la ventata americana nel mondo sarà formidabile. Ci sarà più America, non meno America. Costringerà noi europei a più impegno, non a meno fatica. Ci chiamerà a nuove Bretton Woods e a nuove responsabilità, anche militari, magari a partire dal Congo, per salvare un milione e mezzo di profughi dalla fame e dalla morte. È questo che vogliamo. È così che deve andare. Il mondo sarà più sicuro e più prospero se l'America ne sarà alla guida, e se sarà così autorevole e affascinante da tirarsi dietro il resto del mondo libero.
Per questo, «the answer, my friend, is blowing in the wind», come cantava Bob Dylan. La risposta è Obama. Speriamo che sia Obama.

Il quotidiano arancione ospita due opinioni pro-McCain, di Alberto Mingardi, che preferisce il candidato repubblicano per le sue idee in materia di politica economica e per la sua maggiore competenza in politica estera, e di Peppino Caldarola. Riportiamo quest'ultima:

Stanotte sapremo. Le elezioni americane sono diventate più intriganti del Festival di Sanremo. L'America di cui tutti parlano male, a sinistra e a destra, diventa ogni quattro anni la terra di Bengodi con i tifosi dell'una e dell'altra parte. Ora sono quasi tutti per Obama, a destra come a sinistra. Obama è bello, è leggermente nero, parla bene, è ricco ma ha parenti poveri. Non gli manca niente per essere molto radical chic. La politica se ne è innamorata. Sono tutti Obama, sia il leader settanduenne della destra sia l'ultracinquantenne che guida la sinistra. Ognuno pensa che la vittoria di Obama favorirà la propria parte. Poi c'è il precedente di Hamilton, nero anche lui (ma verrà il tempo anche di noi meridionali?) che all'ultima curva è diventato il primo uomo di colore a vincere la Formula Uno. A me Obama pare finto. Non gli manca niente. È perfettino anche se non si sa che cosa pensi sui dossier principali che angustiano il mondo. Il suo requisito maggiore sembra essere un aspetto fisico che fa invidia a tutti quelli che lottano con la pancetta. Piace alle donne. I libri dedicati a magnificare la sua biografia sono lunghi centinaia di pagine in cui si racconta il nulla. Ma va bene così. Il nuovo deve essere incognito. Se piace a voi, niente da dire. La colpa di McCain è di essere vecchio, un pò goffo per quei movimenti a metà delle braccia spezzate, è stato un eroe, un bastian contrario che ha saputo essere infedele con i suoi senza tradirli mai. Provaci ancora, John.

Sul GIORNALE R.A Segre scrive della popolarità di Barack Obama nel mondo arabo:

Nel giorno delle elezioni americane, nel Medio Oriente islamico cresce il tifo per Obama. Se non fosse per lui, dice Aala al Bayoumi su Al Jazeera, gli arabi, come in passato, non se ne interesserebbero. Il cambiamento deriva - spiega Marwan Bishara - dalla convinzione che la sua elezione rappresenterà la rottura con la politica non solo di Bush ma del sostegno americano per Israele. Ma non sono ragionamenti del genere che fanno scrivere sui muri del Cairo, di Damasco, di Amman, di Gaza e di Beirut «Obama Insh’Allah» (Obama, se Dio lo vorrà). È l’attrazione magica del suo nome, della sua famiglia e naturalmente delle sue origini afro-islamiche. Barak significa fortuna; Hussein bellezza. Il nome della sorella è Umma (Comunità dei credenti) della sua prima figlia, Malia, la figlia del santo califfo Otman, che per primo ordinò la compilazione scritta del Corano.
Le speranze politiche sono contraddittorie. Damasco è per Obama perché Bush ha obbligato i siriani a ritirarsi dal Libano, ingiuria non dimenticabile. Il numero due degli Hezbollah, Naim al Kssim, chiede agli elettori americani di votare per Obama perché capace di ristabilire la pace con l’Islam. Per i sopravvissuti del pan-arabismo, Obama deve vincere per riaprire la via all’unità araba che la distruzione del regime di Saddan Hussein ha chiuso. In Egitto, in Arabia Saudita l’impegno di Obama Barack Hussein di ritirare le truppe dall’Irak mette fine al pericolo di un sistema democratico, che per quanto debole e tribalizzato, potrebbe diventare contagioso.
C’è anche chi mette in guardia contro una «Obamamania» che potrebbe trasformarsi all’indomani delle elezioni in «Obamadelusione». Abdul Rahman al Rashid, noto commentatore politico saudita, consiglia perciò agli arabi di non porre in Obama speranze esagerate ma anche a non disperarsi quando odono le sue dichiarazioni pro israeliane. Si tratta - dice - di tattica elettorale. Il direttore del quotidiano Asharq Alawsat, Tariq al Humayed, è convinto che alla fine «ogni presidente americano sarà governato dagli interessi americani». Tuttavia c’è in questo fenomeno arabo - e non solo arabo - di «Obamamania» qualcosa di più profondo e pericoloso su cui il libanese shiita Fouad Ajami, uno dei più famosi analisti della società islamica, invita a riflettere dalle pagine del Wall Street Journal del 30 ottobre. È quella «illusione dell’eguaglianza» che fa muovere le folle come scrisse il Nobel Elias Canetti (Folle e potere, 1960). Fenomeno che mai prima si era verificato in America ma che Obama ha creato e sfruttato con straordinaria abilità, unendo gli afroamericani con i Liberals bianchi. Non hanno «coerenza economica» ma comune ricerca del «santo momento in cui le distinzioni sono buttate alle ortiche e si diventa uguali con nessuno più grande o migliore dell’altro». È il momento in cui la gente si trasforma in folla. La folla è un’arma potente nelle mani di un candidato abile. Ma è anche il luogo dell’ambiguità nella misura in cui il leader - con l’imprecisione e la superficialità delle sue dichiarazioni - diventa un simbolo di identificazione per mille differenti illusioni, mille scontenti e speranze. La tragedia della cultura politica araba risiede - conclude Ajami ricordando le sue esperienze giovanili col nasserismo degli anni ’50 e ’60 - è stata l’eterna attesa delle folle di un salvatore capace mettere fine al declino e ristabilire la grandezza e il passato splendore nazionale. Le folle in America che acclamano Obama gli ricordano «la politica del carisma che ha distrutto le società Arabe e islamiche». Per cui all’indomani delle elezioni «la disillusione scenderà sulle folle di Obama... e presenterà il sobrio verdetto che i guai non sono risolvibili dalla magia di un leader».

Stefano Zurlo , sempre sul GIORNALE, intervista Moishe Smith del B'nai B'Rith, che dichiara

"Obama va bene, ma la storia di Mc Cain è esemplare dal punto di vista del rispetto dei diritti umani"

Sul MESSAGGERO Eric Salerno attribuisce le simpatie della maggioranza degli israeliani per Mc Cain al fatto che

Obama sarà meno tollerante nei confronti dei coloni e degli estremisti

La stessa maggioranza degli israeliani, però, è di fatto contraria ai coloni estremisti.

Tra i numerosi articoli pro-Obama pubblicati dal MANIFESTO, segnaliamo l'intervista al poeta afroamericano convertito all'islam Amiri Baraka, che sposa le tesi complottiste che attribuiscono l'11 settembre a Bush e a Israele.
La scelta del quotidiano comunista è indicativa del grado di fanatismo ideologico raggiunto da questo quotidiano: per qualsiasi persona ragionevole pubblicizzare l'appoggio di Baraka sarebbe propaganda anti-Obama.

Attivista comunista, saggista, scrittore di teatro, editore, poeta radicale tanto da attirarsi critiche e strali per i suoi versi anti-patriottici «qualcuno ha fatto esplodere l'America» in cui accusava Bush e gli israeliani di essere dietro gli eventi dell'11 settembre, nazionalista nero convertito all'islam con il nome di Amiri Baraka, Everett LeRoi Jones è oggi un convinto sostenitore della candidatura di Barack Obama alla Casa bianca. Lo incontriamo a Roma a margine di un incontro alla Casa delle letterature, dove ha tenuto un reading nell'ambito del festival della parola «Romapoesia».

Signor Baraka, come mai ha deciso di intervenire pubblicamente per sostenere Obama?
Sono intervenuto perché diverse persone di estrema sinistra, vicine a me politicamente, sostengono oggi la politica del tanto peggio tanto meglio. Dicono che il partito democratico e il repubblicano sono la stessa cosa ed esortano quindi a votare per altri candidati, come Cynthia McKinney dei verdi. Io dico loro: negli Usa, sono solo due le persone che possono accedere alla presidenza, il candidato democratico o quello repubblicano. Ogni altro voto è un buttato. Ritengo che coloro che sostengono di voler votare secondo i propri principi e appoggiano candidati senza speranza siano solo degli egoisti che vogliono sentirsi in pace con se stessi. Con questo non voglio certo dire che il mio è un sostegno incondizionato.
Il giorno dopo le elezioni, quando Barack Obama sarà stato eletto, comincerò a criticarlo se non farà quello che ha promesso di fare. A questo proposito voglio ricordare una cosa: io sono stato fra i più strenui sostenitori dell'elezione dei primi due sindaci neri di Newark, la città dove vivo. Quando i due sono stati infine eletti, sono anche stato tra i loro critici più violenti, proprio perché mi sentivo responsabile nei confronti della mia comunità. Lo stesso farò con Obama.

Crede che l'America sia pronta per un presidente nero?
In America, in realtà è molto radicato il concetto di «supremazia bianca». L'eredità della schiavitù è tutt'altro che cancellata nella mentalità collettiva. Fino ad ora, gli americani potevano eleggere anche un assassino alla presidenza, ma mai un nero. Se Gesù Cristo fosse stato nero, sicuramente non sarebbe potuto essere eletto alla Casa bianca. Per questo ritengo che la candidatura di Obama - e il grande sostegno popolare che ha ottenuto - siano importantissime. Credo che questo voto cambierà profondamente l'America. Sono le terze elezioni più importanti della storia degli Stati uniti, insieme a quella vinte da Abraham Lincoln nel 1860 e da Franklin Delano Roosevelt nel 1932.

Durante la campagna elettorale, Obama si è progressivamente spostato verso il centro. La cosa non ha scosso il suo entusiasmo?
Io credo che se ti candidi alla presidenza degli Stati uniti, non hai altra alternativa: tutti vanno verso il centro. In un certo senso, anche la destra si muove verso il centro in occasione delle elezioni. A me certo non è piaciuto che Obama abbia approvato il piano di salvataggio delle banche da 700 miliardi di dollari. Ma sono anche convinto che, se non avesse votato quel piano, si sarebbe messo in una situazione difficile, sarebbe stato accusato di essere un traditore della patria. Il punto è un altro: come ho detto prima, sta alle persone che lo hanno sostenuto fare le adeguate pressioni affinché mantenga le promesse elettorali e riesca davvero a cambiare l'America.

Anche il discorso fatto alla Aipac, l'istituto espressione della lobby filo-israealiana a Washington, è frutto di opportunismo politico?
In America non è possibile vincere le elezioni senza interagire con la lobby israeliana, così come non è possibile essere eletto senza l'appoggio degli anti-castristi di Miami. La differenza è che Obama è andato all'Aipac e ha parlato con i cubani di Miami, ma allo steso tempo ha detto che lui è pronto a negoziare con gli iraniani ed è pronto a parlare con Fidel Castro. Io penso che anche sulla politica estera, riuscirà a voltare la triste pagina dell'unilateralismo di Bush.

Quali sono le cose che si aspetta da un'eventuale presidenza Obama, le cose su cui non è disposto a transigere?
Tre cose: servizio sanitario nazionale per tutti, fine della guerra, sostegno a una riforma dell'educazione pubblica. Io credo che su questi punti non sia possibile negoziare. Su questi tre aspetti dovremo insistere, perché sono cruciali per il futuro dell'America.

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