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Informazione Corretta - Corriere della Sera - Il Manifesto Rassegna Stampa
04.10.2007 Le brioches di Bar Rafaeli
rassegna di commenti alle dichiarazioni delle modella israeliana

Testata:Informazione Corretta - Corriere della Sera - Il Manifesto
Autore: Luciano Tas - Viviana Mazza - Michele Giorgio
Titolo: «Le brioches della modella - «È un esercito di poveri e immigrati Io ammiro il sacrificio dei più deboli» - «La leva? È tempo perso» La modella scuote Israele»

Il "Corriere della Sera" del 4 ottobre porta in prima pagina la fotografia della modella israeliana Bar Rafaeli. Sotto la foto (nel "tondo" l’immagine della modella con il fidanzato Leonardo Di Caprio) il titolo: "La modella israeliana: stupido morire per la patria".

In una intervista a "Yedioth Ahronot" Bar Rafaeli avrebbe dichiarato: "Non mi pento di avere evitato la leva" e di non averne provato il minimo senso di colpa (incluso un matrimonio- burla contratto proprio allo scopo di sottrarsi al sevizio militare).

"Perché mai morire per il proprio paese?" avrebbe detto secondo quello che si legge sul giornale israeliano, "Non è meglio vivere a New York? Perché dei diciottenni devono sacrificare le loro vite? E’ stupido che si debba morire per poter restare in Israele".

Si può capire perché il Corsera abbia dato la notizia e le foto in prima pagina, visto che, come recita un vecchio detto giornalistico, solo un uomo che morde una cane è "notizia", e non il viceversa.

Si può tuttavia citare un altro vecchio detto, secondo cui "la madre degli imbecilli è sempre incinta".

E’ certo infatti che la buona Rafaeli si trovi meglio a New York (quell’11 settembre appare ormai lontano) che, poniamo, a Sderot, dove forse gli abitanti della cittadina vorrebbero che la modella provasse a vivere insieme a loro tra un Qassam e l’altro.

Ed è anche certo che suoni beffardo il "chi per la patria muor vissuto è assai", ma chi, tra i cinque milioni di ebrei israeliani, non volesse lasciare la terra dove è nato o che ha raggiunto quando nel dopoguerra nessun paese accettò di accogliere gli ebrei sopravvissuti, che cosa dovrebbe fare? In mancanza di pane mangiare le brioches di Bar Rafaeli?

E non pare alla modella che essendosi fraudolentemente sottratta agli obblighi militari abbia maggiormente esposto (magari per un solo millesimo in più) al pericolo le sue compagne, i suoi compagni, i diciottenni e le diciottenni di cui piange il destino?

E se tutti in Israele si disponessero "senza se e senza ma" a buttar via il fucile al grido "morire per la patria è stupido", quanti minuti occorrerebbero ai nemici d’Israele per piantare le loro bandiere a Gerusalemme e a Tel Aviv, a Haifa e a Bersheba? E quanto agli israeliani resterebbe da vivere?

Spesso l’amor di patria è stato cinicamente usato per inutili massacri e stragi, la vera patria sono i tuoi amici, i tuoi cari, i libri che hai studiato e letto, i tuoi compagni dei banchi di scuola dall’asilo al liceo, quelli con cui hai giocato, la squadra della tua città, i tuoi primi baci, le poesie che hai letto e scritto, la gente che incontri sugli autobus, negli uffici, nei luoghi di lavoro, la tua casa e quella dei tuoi vicini con i quali ti scambi il buongiorno.

Purtroppo non tutti sono nati a New York, ma tutti hanno diritto di vivere e di difendere la loro vita. Probabilmente le parole "disertore" e "imboscato" non suonano così sinistre come in passato, ma per alcuni sono ancora parole antipatiche.

Sì, New York è probabilmente meglio, e credo che tutti noi l’amiamo (soprattutto e paradossalmente quelli che odiano gli USA), ma perché non concedere a ciascuno di noi il diritto di non fare il furbo perché abbiamo imparato sulla nostra pelle da un altro settembre più lontano che in fin dei conti fare il furbo non paga.

Non è stupido morire per la patria, è doloroso. Tutti sperano che si debba solo vivere per la patria. Se possibile, se ha ancora un senso, onorevolmente. Il Di Caprio del film Titanic lo aveva dimostrato.

Luciano Tas

Dal CORRIERE della SERA un'intervista allo scrittore Ron Leshem:

TEL AVIV — «Una volta eravamo un Paese dove l'esercito era l'esercito di tutti, tutti facevano la leva. Da dieci anni a questa parte però è diventato l'esercito dei poveri e dei più deboli. I soldati vengono dal nord e dal sud. Sono i nuovi immigrati che non hanno il coraggio di dire di no e i giovani religiosi che credono che valga la pena di lottare per la terra, educati sin da piccoli ad amarla e ad essere sionisti. I figli dell'élite invece fanno il servizio militare a Tel Aviv in un ufficio. Ciò che conta per loro sono i soldi e il successo».
Ron Leshem, 31 anni, fa anche lui parte dell'élite di Tel Aviv, uno che non ha mai combattuto. Però sui diciottenni che vanno in guerra ha scritto un romanzo (uscito ieri in Italia, con il titolo «Tredici soldati», Rizzoli), bestseller in Israele e vincitore del premio Sapir, dal quale è tratto il film Beaufort,
premiato a Berlino. Pubblicato in Israele 10 mesi prima della seconda guerra in Libano, ambientato durante gli ultimi mesi della prima, è la storia di diciottenni «mandati a morire per nulla», anche se dicono a se stessi di combattere per proteggere Israele. Ma per quei giovani Leshem non nasconde la sua ammirazione. «Rimpiango di non essere stato al fronte, non per il combattimento, ma per le emozioni forti, per l'amore che nasce tra le persone quando la tua vita dipende dall'altro. Non ho mai avuto un'amicizia così». Cresciuto in un mondo benestante e di sinistra, a 23 anni Leshem ha mollato gli studi di legge, diventando un giornalista contro il parere della mamma avvocato e del papà manager. Il giornale
Yedioth Ahronoth lo ha inviato a Gaza come corrispondente nel 2000 durante l'Intifada. Timido e secchione, incontra là per la prima volta un mondo diverso. I soldati israeliani gli sembrarono «forti, estroversi, così puri». E quei ragazzi hanno letto il suo libro e non si sono sentiti disprezzati, vi si sono riconosciuti. I genitori di un ragazzo morto la scorsa estate in Libano hanno trovato il romanzo di Leshem sul suo cuscino. I compagni ne hanno letto degli stralci al funerale.
«Tel Aviv è così lontana da tutto questo. È una bolla, chiusa, isolata — dice Leshem —. Le persone sono stanche della guerra e dei problemi sociali. Preferiscono vivere pensando di essere a New York. Non vedono ciò che sta loro attorno. Passano la giornata in spiaggia, la notte al cinema e nei night club. Alcuni non leggono nemmeno i giornali. E come biasimarli, ci vuole uno stomaco forte. Sono distaccati dalla sofferenza dei palestinesi e dalla sofferenza del loro stesso popolo, dalla perdita di vite, una continua perdita di vite senza alcuna ragione».
Ma questo isolamento dalla realtà ha conseguenze gravissime, dice Leshem. «Quando l'élite prende le decisioni nelle alte torri di Tel Aviv, sono spesso decisioni sbagliate, distaccate mentalmente e socialmente alla situazione reale. Due dei figli di Olmert non hanno fatto il servizio militare e l'altro ha smesso prima della fine. Ed è lui quello che ha firmato l'autorizzazione ad andare in guerra in Libano la scorsa estate. Forse se i suoi figli avessero prestato servizio, la sua decisione sarebbe stata diversa ».
David Grossman ha chiamato Leshem dopo l'uscita del libro per fargli i complimenti. «Lo ammiro veramente. Non sapevo cosa dire. Avevo paura di suonare stupido. Mi ha detto che non l'avrebbe fatto leggere alla moglie perché il figlio era in Libano. Lui andava alle manifestazioni per dire: guardate che li stiamo mandando a morire per nulla. Ma ha mandato Uri in guerra lo stesso. Quando Uri è morto non ho avuto il coraggio di chiamarlo ».
«Una volta c'era il senso che quando si mandavano i nostri ragazzi in guerra lo si faceva per una giusta causa — continua Leshem —. Ora chi stiamo mandando a morire? E ci stiamo ponendo tutte le domande prima di farlo? La risposta è no». Leshem ha incontrato tante famiglie di ragazzi morti, e dopo l'uscita del libro è stato chiamato a parlare di guerra tante volte. Ne è stato risucchiato, dice che vuole tirarsene fuori. Ha lasciato il lavoro di giornalista perché «non vivevo più, attaccato al beeper ». Oggi è il numero due al Canale 2 della tv israeliana. Un manager che si occupa di intrattenimento. Scende in strada, e si allontana, occhiali scuri, maglietta blu, jeans, passo atletico. Torna nella bolla.

L'articolo più divertente sulla vicenda di Bar Rafaeli è quello di Michele Giorgio sul MANIFESTO.
La fidanzata di Di Caprio che ama New York diviene sulle pagine del quotidiano comunista il simbolo della crisi del "nazionalismo israeliano" e una sorta di pacifista spontanea e non ideologica, una testimonial del "post-sionismo".
Ridicolo.
Ecco il testo:

«Israele o Uganda? Per me non fa differenza». Le parole pronunciate dalla famosissima top-model Bar Refaeli, hanno scatenato un putiferio in Israele e infuocato ulteriormente il dibattito sugli «imboscati» che aggirano il servizio di leva. Hanno però fatto emergere anche un fenomeno legato al «post-sionismo», che vede settori non marginali della società israeliana dichiararsi sempre meno legati all'ideologia fondatrice dello Stato ebraico e che manifestano insofferenza verso il militarismo.
A chi l'aveva accusata di aver fatto di tutto per evitare la leva - in Israele obbligatoria, tre anni per gli uomini e due per le donne - Bar Refaeli, in una intervista apparsa ieri su Yediot Ahronot, ha difeso accanitamente la sua scelta. «Non rimpiango di non essermi arruolata, perché così non ho sprecato tempo, le celebrità hanno altre necessità, spero che il mio caso abbia influenzato l'esercito», ha affermato Bar Refaeli, nota nel paese non solo per il suo lavoro e la sua bellezza, ma anche perché legata all'attore Leonardo Di Caprio. Poi, annunciando la sua decisione di lasciare Israele per stabilirsi negli Usa, la modella ha chiesto provocatoriamente: «Perché è giusto morire per il proprio paese? Non è meglio vivere a New York?...Israele o Uganda, che differenza fa? Nessuna per me». Bar Rafaeli sposò un anziano amico di famiglia prima di essere arruolata e dal quale divorziò appena ricevuta l'esenzione definitiva. «Ma non rimpiango di non aver fatto il servizio di leva - ha ammesso - perché così ho guadagnato un bel po' di soldi. Non c'è niente da fare, le persone importanti hanno altre esigenze».
La raffica di attacchi alla modella è stata incessante. «Refaeli ha versato benzina sulla maggior parte dei ponti che si era lasciata dietro in Israele e poi ha acceso un fiammifero. Essendo già riuscita a catturare Di Caprio, evidentemente le piace giocare col fuoco», ha scritto con sarcasmo un commentatore di Yediot Ahronot. Altri hanno parlato di «cattivo esempio» per i giovani. Eppure Bar Refaeli non è certo la sola a pensarla in questo modo. Sebbene non siano motivati da una ideologia pacifista o di sinistra e neppure mossi da un senso di giustizia verso palestinesi e arabi, tanti israeliani, non solo i più giovani, si dichiarano stanchi della retorica nazionalista, del dover affermare il loro attaccamento all'impresa sionista, del doversi sentire sempre in guerra e pronti ad imbracciare il fucile. «Queste persone non sono pacifiste, non rispettano i palestinesi, semplicemente li ignorano - spiega Jonatan Pollack, un giovane pacifista che, al contrario di Bar Refaeli, ha una solida ideologia di sinistra - tutto quello che vogliono è un'altra vita rispetto a ciò che la leadership politica propone ogni giorno con i suoi proclami bellicosi». Persone che, prosegue Pollack, «non esitano più a respingere la leva, che fino a vent'anni fa era considerata come il "dovere primario" verso il paese, al quale non si poteva sfuggire, pena essere messo alla gogna. Oggi è proprio la societò, o una parte di essa, ed esprimere insofferenza e in tanto si rispecchiano nelle parole di Bar Rafaeli».
Ma se il post-sionismo, nelle sue forme più politiche oppure in quelle spontanee, si diffonde nello Stato ebraico, al contrario in Europa, sotto la spinta del crescente sentimento anti-islamico e anti-arabo, il nazionalismo israeliano diventa popolare, un mito, un dogma da non mettere mai in discussione. Senza dimenticare le molte centinaia di giovani ebrei europei (specie britannici), americani e persino messicani che ogni estate vengono ad addestrarsi militarmente nel deserto del Neghev nel quadro dei programmi «Marva» e «Gadna» dell'esercito israeliano. Saranno loro i soldati del futuro che sostituiranno i sempre più numerosi Bar Refaeli?


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