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La Repubblica - Il Foglio Rassegna Stampa
27.10.2022 Iran, marcia per Mahsa: la polizia iraniana spara sulla folla
Cronaca di Gabriella Colarusso, analisi di Tatiana Boutourline

Testata:La Repubblica - Il Foglio
Autore: Gabriella Colarusso - Tatiana Boutourline
Titolo: «Marcia per Mahsa la polizia iraniana spara sulla folla - Il 40° giorno»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 27/10/2022, a pag.17, con il titolo "Marcia per Mahsa la polizia iraniana spara sulla folla", la cronaca di Gabriella Colarusso; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo "Il 40° giorno", il commento di Tatiana Boutourline.

A destra: una scena delle proteste in Iran

Gabriella Colarusso: "Marcia per Mahsa la polizia iraniana spara sulla folla"

Gabriella Colarusso (@gabriella_roux) | Twitter
Gabriella Colarusso

La grande marcia per Mahsa comincia alle prime ore del mattino, quando centinaia di persone si riversano a piedi sulla statale che da Saqqez porta al cimitero: c’è chi ci arriva guadando il fiume, chi attraverso i campi. Le autorità avevano chiesto alla famiglia Amini riserbo, e nessuna cerimonia, per evitare che si trasformasse in nuove proteste. Ma non è servito. Circa 10mila persone, secondo il resoconto dell’agenzia semi ufficiale iraniana Isna ,ieri hanno aggirato il blocco delle strade presidiate da uno schieramento imponente di forze di sicurezza e si sono radunate intorno alla sua tomba, a Saqqez, la città curda in cui era nata e cresciuta, nel 40esimo giorno dalla sua morte. “Libertà, libertà”, “Il Kurdistan è la tomba dei fascisti”, scandiva la folla in una giornata che ha visto nuove manifestazioni in tutto il Paese. Le forze di sicurezza hanno risposto «sparando gas lacrimogeni e aprendo il fuoco contro le persone in piazza Zindan a Saqqez», denuncia la Ong Hengaw, una organizzazione per i diritti dei curdi iraniani che ha sede in Norvegia. Diversi testimoni raccontano che anche al cimitero i basiji hanno attaccato la folla. I 40 giorni sono una data importante nella ritualità del lutto iraniana: nella cultura antica persiana servivano per dividere l’anno in cicli, per i musulmani sciiti è il periodo del lutto dopo l’Ashura, il martirio dell’Imam Hossein. Si commemorano i defunti ma spesso le cerimonie diventano occasione di proteste politiche che in Iran vanno avanti ormai ininterrottamente da 40 giorni. Ieri non era solo la memoria di Mahsa a muovere i cortei ma quella di tutte le vittime della repressione di queste settimane: almeno 244 persone uccise finora, 34 delle quali minorenni. Il movimento spontaneo animato dai giovani e dalle donne, che chiede libertà politiche e diritti civili e la fine della segregazione di genere, si è trasformato in una sfida aperta alla leadership clericale al potere dalla rivoluzione del 1979: “Morte aldittatore”, “Non vogliamo la Repubblica Islamica”, gridano nelle piazze. Le università sono l’epicentro delle proteste, da Teheran a Sanandaj, Shiraz, Ahvaz, Mashhad, Isfahan. Nella capitale ieri agli studenti si sono uniti anche alcune centinaia di medici e commercianti del gran bazaar di Teheran, ibazari , considerati il nocciolo duro della base conservatrice, che finora sono rimasti ai margini delle proteste: molti hanno abbassato le serrande aderendo agli scioperi. I funzionari governativi continuano a bollare i manifestanti come “teppisti e sedizionisti”, accusando gli Usa e altri Paesi occidentali di fomentare le “rivolte”.

Tatiana Boutourline: "Il 40° giorno"

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Tatiana Boutourline

Roma. Splendeva il sole sopra Saqqez ieri mattina, sole sopra le strade bloccate dalla polizia e presidiate dagli agenti antisommossa, sole sopra le scuole e le università, sigillate a causa di una fulminante “epidemia d’influenza”, sole sopra la marcia eroica di migliaia di persone che hanno costeggiato il guard rail e si sono incamminate su per la collina, oltre il torrente, fino al cimitero di Aichi. Perché Saqqez è la città nel Kurdistan iraniano in cui Mahsa Amini è nata e questo è il cimitero in cui è sepolta, il luogo in cui si è accesa la rivolta. Ed è in questo cimitero che la famiglia Amini avrebbe desiderato tenere la cerimonia rituale per commemorare Mahsa a quaranta giorni dalla sua morte, se le autorità non fossero intervenute costringendola a cancellarla, pena l’arresto del fratello della ragazza. Il Kurdistan però non si è lasciato intimidire: lo sciopero generale convocato a Saqqez si è esteso in tutta la regione da Marivan a Sanandaj, da Kamyaran a Mahabad, da Bukan a Javanrud. E al cimitero di Aichi sono arrivate donne velate e donne a capo scoperto, giovani, anziani e uomini che hanno fatto roteare i foulard delle mogli sopra la testa. “Libertà, libertà!”, hanno gridato. “Il Kurdistan sarà il cimitero dei fascisti”. “Erano ovunque”, ha detto una testimone citata dalla Bbc a proposito della presenza ingombrante dei bassiji, che, stando ai racconti, si sono scagliati sui manifestanti. Scene ancora più cruente sono state osservate nel centro di Saqqez. Ma ieri è stata una giornata particolare in tutto il paese. A Shiraz, Mashhad, Rasht, Arak e Bushehr molti mercanti hanno chiuso le serrande. E nel gran bazar di Teheran è andata in scena una protesta inusitata nella sua virulenza. “Gli adolescenti sono in prigione e gli adulti senza spina dorsale restano seduti a far niente”, scandivano i negozianti che per decenni sono stati considerati il polmone del regime. E così nei centri commerciali, sulle banchine delle metropolitane e dentro i treni, così davanti alla raffineria di petrolio di Teheran e nelle università della capitale. A Shiraz c’è stato un attentato in una moschea rivendicato dallo Stato islamico (almeno 13 morti e dieci feriti). A Mashad gli studenti hanno strappato l’effigie del padre della rivoluzione Ruhollah Khomeini e quella del suo successore Ali Khamenei. “Per ogni persona che assassinate, altre mille verranno avanti”, hanno cantato a Teheran i ragazzi dell’Università Amir Kabir. “Né Gaza, né Libano. Io sacrifico la mia vita per l’Iran”, era il grido che riempiva l’aria a Rasht. A Gorgan, nei pressi della moschea di Hazrat Ali, una colonna di fumo usciva da un ufficio in uso ai bassiji. Il regime lo presagiva, sapeva che il chehellom, il quarantesimo giorno, sarebbe stato intenso e ha scelto di mostrare i denti con uno schieramento imponente delle forze antisommossa. Spari, idranti, grida, cassonetti in fiamme e corse con il cuore in gola. Sono state ventiquattro ore di passione, di collera, di violenza e di coraggio quelle che hanno vissuto le piazze iraniane in rivolta, ma a sei settimane dall’inizio delle manifestazioni, la domanda sulla bocca di tutti è: dove sta andando la protesta? Si tratta di un’insurrezione o del principio di una rivoluzione? Gli attivisti non hanno dubbi. Quella che state osservando è una rivoluzione, assicurano e si indignano quando qualcuno, come Rob O’Malley, l’inviato speciale che si occupa del dossier iraniano per Joe Biden, sminuisce la portata rivoluzionaria di ciò che sta accadendo. Non si tratta soltanto di un capriccio semantico, di un hashtag da aggiungere in fondo a un tweet, le definizioni contano ed è un fatto che nelle piazze iraniane si invochi la caduta del regime e che nessuno si sogni di implorare il rispetto di “legittime richieste” da parte di Khamenei. Ciò detto, la domanda resta: come si passa dalla perdita di legittimità del regime all’effettiva perdita del suo potere? Perché è vero che una rivoluzione non è una rivoluzione fino a che non vince, ma è vero pure che restano molti ostacoli nella terra di mezzo tra la mobilitazione e la vittoria. Il leader. Non esiste una figura carismatica, qualcuno che guidi la rivolta. Il regime ha polverizzato l’opposizione, ma le prigioni iraniane sono piene di potenziali leader, come l’avvocato per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, altre personalità di valore stanno emergendo e seguiteranno a emergere, se la protesta non arretrerà. L’organizzazione è una questione più complessa, non solo per la difficoltà di comunicare, ma anche per l’assenza di strutture di coordinamento e di piattaforme d’intenti condivisi. Anche in questo caso si tratta di una difficoltà oggettiva, ma di settimana in settimana si stanno costruendo relazioni e solo il tempo potrà dire cosa emergerà da questo dialogo. Le milizie. E’ questo il grande moloch che pesa sui sonni dei manifestanti. Che ruolo giocheranno i pasdaran e i bassiji? E’ possibile che il vincolo che li lega alla Republica islamica si spezzi? Arash Azizi, osservatore acuto e autore di un libro illuminante su Qassem Suleimani, sostiene che è necessario offrire una sponda ai pretoriani di Khamenei, un salvacondotto che permetta loro di immaginarsi in un’altra realtà, perché i generali hanno tutto da perdere nel caso di un cambio di regime, ma non è detto che la stesso discorso valga per la manovalanza. Qualche giorno fa il quotidiano online Kayhan Life (anti regime, da non confondersi con il pro regime Kayhan) ha pubblicato un’intervista anonima di un pasdaran. L’uomo, figlio di un generale e fratello di un altro pasdaran, ha detto di odiare il sistema e di considerarsi un oppositore da molti anni. “Noi, come voi, siamo nemici del regime”, ha detto lamentandosi del salario insufficiente e della brutalità degli ordini che deve impartire. Ed è su queste fratture che devono lavorare i manifestanti, difendersi, turarsi il naso, e guadagnare proseliti alla causa. Chi l’avrebbe detto sei settimane fa che tutto il mondo avrebbe conosciuto il nome di Mahsa Amini, che il suo volto sarebbe stato proiettato sul fianco di un palazzo di Teheran, che la notte i muri si sarebbero riempiti di graffiti con su scritto: “Khamenei dittatore, ricordati che niente lava via il sangue”? A Teheran vanno avanti pensando a Martin Luther King, ha scritto l’analista del Carnagie Endowment, Karim Sadjadpour. “So che oggi vi chiedete: quanto tempo ci vorrà? Quanto tempo? Non troppo a lungo, perché nessuna bugia può vivere in eterno. Quanto a lungo? Non troppo a lungo, perché l’arco morale dell’universo è lungo, ma si piega verso la giustizia”.

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