mercoledi` 24 aprile 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
18.08.2021 Afghanistan 3: doppiezza talebana
Commenti di Gian Micalessin, Micol Flammini, Marta Serafini

Testata:Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Gian Micalessin - Micol Flammini - Marta Serafini
Titolo: «La 'legge di Dio' nel mondo, le esecuzioni e le violenze: ecco perché non ci si può fidare - Talebani da social - La sindaca e la governatrice: 'Adesso aspettiamo che ci vengano a uccidere'»
Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 18/08/2021, a pag. 7, con il titolo "La 'legge di Dio' nel mondo, le esecuzioni e le violenze: ecco perché non ci si può fidare", il commento di Gian Micalessin; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo "Talebani da social", il commento di Micol Flammini; dal CORRIERE della SERA, a pag. 7, con il titolo "La sindaca e la governatrice: 'Adesso aspettiamo che ci vengano a uccidere' ", il commento di Marta Serafini.

Ecco gli articoli:

https://www.ft.com/__origami/service/image/v2/images/raw/https%3A%2F%2Fd1e00ek4ebabms.cloudfront.net%2Fproduction%2F59ee2303-20bc-436e-af84-5c0b95f486a1.jpg?fit=scale-down&source=next&width=700

IL GIORNALE -
Gian Micalessin: "La 'legge di Dio' nel mondo, le esecuzioni e le violenze: ecco perché non ci si può fidare"

«Onestamente mi sento sicuro. Forse non durerà, ma per ora è così. Se escludi l'aeroporto la situazione qui a Kabul è tranquilla. Le perquisizioni casa per casa di lunedì mattina si sono concentrate in tre quartieri e sono state subito bloccate dai capi talebani. Oggi sono persino ricomparse le donne in Tv. Ripeto non so quanto durerà, ma per ora non ho paura». Così scriveva ieri da Kabul l'amico Tareq, confermando la sensazione di apparente sicurezza che molti nella capitale afghana ammettono di condividere. Una sensazione rafforzata dalla conferenza stampa in cui il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid ha escluso vendette su «chi ha lavorato con gli stranieri». Aggiungendo l'impegno a garantire la «sicurezza di ambasciate e ong» e riservare alle donne «un ruolo nell'istruzione e nella sanità» seppur «nel quadro della sharia». Ma in Afghanistan le sensazioni fanno presto a dissolversi. Lo ricorda bene chi nel 1996, salutò con entusiasmo l'arrivo dei talebani a Kabul. Allora gli studenti islamici -arruolati nelle scuole islamiche pakistane e armati dai servizi segreti di Islamabad- imposero ordine e stabilità in un paese vessato dalla miriade di gruppi armati e signori della guerra che -ritiratisi i sovietici- si contendevano il potere a colpi di minacce ed estorsioni. In pochi mesi, però, gli orrori delle mutilazioni rituali e delle esecuzioni sommarie -accompagnate da lapidazioni e pubbliche flagellazioni- finirono con il cancellare l'illusione di stabilità rimpiazzandola con il terrore. Oggi la storia sembra ripetersi. Il primo indicatore è la rapidità con cui i talebani hanno ripristinato l'Emirato Islamico, la stessa forma statuale inaugurata venti anni fa. Una restaurazione non soltanto simbolica. Dietro quel nome si cela il sogno di un sistema ispirato ai concetti della «sharia». Il tutto senza che uno solo dei leader talebani -dall'invisibile capo supremo Haibatullah Akhundzada fino al mullah Baradar- abbia fin qui proposto un'interpretazione della legge coranica diversa da quella usata per giustificare l'emarginazione delle donne, la lapidazione delle adultere e l'utilizzo degli attentatori suicidi. E infatti, mentre Kabul si consola con l'apparente moderazione dei talebani 2.0, dalle province più remote arrivano i resoconti dei rapimenti di decine di ragazzine appena dodicenni strappate alle famiglie vicine all'ex-governo. Mentre su internet circolano i video dello sgozzamento di 22 soldati arresisi, a giugno, agli islamisti nella città di Dawlat Abad. E non rassicura neppure la svolta di un movimento che nel 1995 distruggeva radio e tv, mettendo al bando canti e balli, mentre oggi utilizza con maestria social e telefonini. Per capirlo basta ricordare quanto già visto in Siria e Iraq dove lo Stato Islamico abbinava l'intransigenza delle decapitazioni seriali ad una raffinata comunicazione per immagini ispirata al linguaggio delle serie tv. Del resto gli stessi talebani che oggi promettono di escludere dal proprio territorio i gruppi pronti a «minacciare altri paesi» non hanno esitato sabato a rimettere in libertà migliaia di militanti di Al Qaida e dello Stato Islamico detenuti delle carceri di Bagram e Pul-I- Charky. Terroristi pronti fin da ora a usare l'Afghanistan come loro base. Per capire come nulla sia cambiato bastano le dichiarazioni di quel capo talibano che, intervistato dalla Cnn, auspica di continuare ad impugnare il kalashnikov «fino a quando la legge del Corano dominerà il resto del mondo».

IL FOGLIO - Micol Flammini: "Talebani da social"

Roma. I talebani hanno tenuto una conferenza stampa, la prima della loro storia. Hanno invitato giornalisti e giornaliste, afghani e stranieri. Il messaggio era: fidatevi di noi, ora che abbiamo un Afghanistan libero e indipendente, lo renderemo anche accogliente. A parlare davanti ai giornalisti è stato il portavoce del gruppo, la voce della propaganda che su Twitter si fa chiamare Zabihullah Mujahid (Zabihullah il combattente), affiancato da un traduttore, perché il messaggio era sì per i cittadini del paese, ma anche per la comunità internazionale. Mujahid ha parlato a nome di tutti, di talebani e no. Il portavoce ha detto che tutti sono "orgogliosi di aver cacciato gli stranieri" e questo sentimento di orgoglio appartiene a tutta la nazione. Ha detto che è importante che tutti capiscano che l'Afghanistan non è più un campo di battaglia e che i talebani "hanno perdonato tutti coloro che hanno combattuto contro" di loro. Sono finite le animosità, i conflitti, le violenze e Mujahid sembra aver detto che sono finiti anche i talebani. Il gruppo che ha annunciato la nascita dell'Emirato islamico dell'Afghanistan è in cerca di un riconoscimento internazionale, dice che se è intervenuto nel paese lo ha fatto perché "ha dovuto". "Nessuno deve aver paura delle nostre regole e princìpi", tutti sono invitati a restare, loro, i talebani, gli afghani, proteggeranno le ambasciate "ventiquattr'ore su ventiquattro". Mentre i talebani chiedono agli afghani di non avere paura e alla comunità internazionale di fidarsi sperano di allontanare il più possibile in fretta gli occhi di tutti. Le promesse sono estese, impensabili, irreali: "I media saranno indipendenti, potranno criticarci, noi miglioreremo". Mujahid ha promesso che tutti stanno per assistere alla creazione del governo più forte e inclusivo, mai visto prima in Afghanistan. Ma a questo cambiamento repentino è difficile credere. Per quanto sia ben allestito. Anche la conferenza stampa di ieri lo era: il portavoce è arrivato puntuale, ha risposto per più di un'ora alle domande di tutti, donne incluse. Nessuno dovrà aver paura, dice Mujahid, ma tutti ne hanno a cominciare proprio dalle donne, per le quali il portavoce ha promesso libertà, nella cornice dei loro valori: "Le donne afghane sono musulmane". In questi giorni i talebani hanno visitato un ospedale di Kabul e hanno assicurato alle dottoresse, "le nostre sorelle", che non c'è motivo perché debbano lasciare il lavoro, "abbiamo bisogno di voi". Di questa visita hanno fatto un video e messo sui social: una pubblicità perfetta. Beheshta Arghand è una giornalista dell'emittente afghana Tolo News che nel suo studio televisivo si è ritrovata a fare un'intervista inaspettata. Seduto a qualche metro da lei martedì, ore prima della conferenza stampa, c'era Mawlawi Abdulhaq Hemad, membro del team di comunicazione dei talebani, pronto a rispondere a tutte le sue domande, proprio come Mujahid. Beheshta Arghand gli ha domandato della situazione a Kabul, delle perquisizioni per le case, di come cambierà la vita delle donne. Hemad, con calma, attenzione, soppesando ogni parola, ha risposto a tutto e si è meravigliato che la gente abbia paura dei talebani, che non capisca che tutto è cambiato. Dopo tutto anche l'intervista avrebbe dovuto dimostrarlo: vent'anni fa forse i talebani avrebbero rilasciato un'intervista a una donna? 0 più semplicemente: avrebbero forse permesso che una donna facesse la giornalista? Il gruppo estremista sta cercando di mostrare che ha cambiato codice, regole, pelle, che la barbarie commessa non esiste più, o non è mai esistita. Che è una forza tollerante e pacifista, che vuole che le donne lavorino "spalla a spalla con gli uomini". Anche nel governo. "L'Emirato islamico - ha detto Enamullah Samangani, membro della commissione Cultura degli estremisti - non vuole che le donne siano vittime. Secondo la legge della Sharia dovrebbero essere nella struttura del governo". Ma si fa fatica a credere a questo nuovo volto che i talebani hanno ostentato entrando a Kabul, le storie che uscivano dalle altre città conquistate erano ben diverse, ma uguali a quelle del passato: bambine costrette a matrimoni forzati, ragazze che hanno dovuto abbandonare le università, lavoratrici che hanno lasciato l'impiego e ovviamente il ritorno del burqa. E' forse cambiato tutto ora che sono arrivati nella capitale? Il bluff sta nei dettagli: nessuno ha spiegato come sarà questo governo, qual è la cornice entro cui le donne potranno essere libere. Il primo dato da registrare non è che i talebani sono cambiati, ma che adesso ci tengono a farsi accettare, hanno imparato a parlare, a curare l'immagine, a intrattenere e a usare i media e l social, per evitare sanzioni, mentre attendono che l'attenzione si sposti altrove. Non è un caso che si siano fatti ospitare subito da Tolo News, una televisione molto popolare, che ha assorbito format occidentali, come i reality e le serie tv.

CORRIERE della SERA - Marta Serafini: "La sindaca e la governatrice: 'Adesso aspettiamo che ci vengano a uccidere' "

“Sono qui seduta in attesa che arrivino». Diceva così domenica al New York Times Zarifa Ghafari, 27 anni, la sindaca più giovane dell'Afghanistan, nella provincia di Maidan Wardak, da sempre in prima linea per i diritti delle donne. Nominata nell'estate del 2018 dall'allora presidente Ashraf Ghani, Ghafari è una delle poche donne ad aver mai ricoperto un incarico governativo nella città conservatrice di Maidan Shar. «Sono distrutta. Non so su chi fare affidamento. Ma non mi fermerò ora, anche se verranno di nuovo a cercarmi. Non ho più paura di morire». Suo padre, il generale Abdul Wasi Ghafari, è stato ucciso il 1,5 novembre dello scorso anno, appena 20 giorni dopo il fallimento del terzo attentato alla sua vita. Nonostante le minacce, durante il suo mandato ha introdotto una campagna contro l'abbandono dei rifiuti nella sua città ed è diventata un modello per le altre donne. Poi, con il ritorno dei talebani, a Ghafari è stato offerto un impiego al ministero della Difesa a Kabul, con la responsabilità del benessere dei soldati e dei civili feriti in attacchi terroristici. Tre settimane fa diceva: «i giovani sono consapevoli di ciò che sta accadendo. Hanno i social. Comunicano. Penso che continueranno a lottare per il progresso e per i nostri diritti. Penso che ci sia un futuro per questo Paese». Ora, mentre i talebani tornano al potere e promettono di rispettare i diritti femminili, Ghafari, come molte altre donne, è scettica e rimane nascosta. Da giorni non si hanno più notizie — si vocifera che sia stata catturata — di Salima Mazari, 41 anni. Nata in Iran, dopo che la sua famiglia è fuggita dall'invasione sovietica in Afghanistan, è di etnia hazara, gruppo inviso sia ai talebani che all'Isis. Dopo essersi laureata a Teheran, ha lavorato per l'Organizzazione internazionale per le migrazioni. Poi, la decisione di tornare in Afghanistan. «La cosa più dolorosa dell'essere un rifugiato è la mancanza di una patria», raccontava al Guardian nelle scorse settimane. Salima Mazari era una delle tre governatrici distrettuali ed era al comando del distretto di Charkint, nella provincia settentrionale di Balkh. Sotto di lei, 30 mila persone. A contraddistinguerla, il suo stile di leadership. «A volte sono in ufficio, altre volte devo prendere una pistola e unirmi alla battaglia», diceva. D suo lavoro non significava solo gestire la burocrazia quotidiana, ma anche organizzare le operazioni militari. E da luglio incontrava ogni giorno i comandanti delle sue forze di sicurezza. Così era riuscita a tenere lontani i talebani da Charkint. L'anno scorso, Mazari aveva negoziato con successo la resa di oltre cento combattenti nella sua regione. La sua reputazione di donna forte, che si opponeva alla brutalità dei talebani, ha messo (e mette tuttora) a rischio la sua vita. «Non ci sarà posto per le donne», ha dichiarato all'Ap mentre i talebani entravano a Kabul. Poi il silenzio. «Io non ho paura», diceva. «Credo nello stato di diritto in Afghanistan».

Per inviare la propria opinione, telefonare:
Il Giornale 02/85661
Il Foglio 06/589090
Corriere della Sera 02/62821
oppure cliccare sulle e-mail sottostanti

segreteria@ilgiornale.it
lettere@ilfoglio.it
lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT