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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Avvenire - Corriere della Sera Rassegna Stampa
18.09.2020 Il successo di Trump e chi lo nega
Aldo Cazzullo sul Corriere riduce i meriti americani, Giorgio Ferrari contro Israele su Avvenire

Testata:Avvenire - Corriere della Sera
Autore: Aldo Cazzullo - Giorgio Ferrari
Titolo: «E' davvero la 'Pace di Abramo' o un'alleanza contro gli sciiti? - Questa 'pace' è un affare»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA a pag. 29, tre lettere e la risposta di Aldo Cazzullo dal titolo "E' davvero la 'Pace di Abramo' o un'alleanza contro gli sciiti?"; da AVVENIRE, a pag. 1, il commento di Giorgio Ferrari dal titolo "Questa 'pace' è un affare".

Siamo stupiti dal tono della risposta di Aldo Cazzullo, che accentua la retorica degli accordi di pace dimenticando che questa è un elemento sempre presente nella politica, ma che in questo caso c'è da prendere atto di una svolta epocale. Cazzullo inoltre confonde Hezbollah con Hamas: è questa seconda a governare armi in pugno la Striscia di Gaza.

Giorgio Ferrari scrive un pezzo connotato da un linguaggio ostile a Donald Trump. Ferrari sottolinea la presunta "grancassa mediatica" di cui il presidente americano si sarebbe avvalso mentre definisce l'avvenire degli arabi palestinesi una "scialuppa fragile e abbandonata", anche se non può fare a meno di prendere atto del successo della politica di Trump in Medio Oriente.

Ecco gli articoli:

Usa e Iran, furia Trump: «Vertici militari di Teheran? Terroristi» - Il  Mattino.it
Donald Trump, Hassan Rohani

Corriere della Sera - Aldo Cazzullo: "E' davvero la 'Pace di Abramo' o un'alleanza contro gli sciiti?"

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Aldo Cazzullo

Caro Aldo, accordi tra Israele, e Bahrein ed Emirati arabi, ricchi paesi con grossi capitali in Usa. Non con la Palestina. E la chiamano pace.

Giulio Bovi

***

Obama ha iniziato la guerra in Libia e bombardato Mali, Uganda, Yemen, Somalia, Siria, Afghanistan e Pakistan. Insignito del Premio Nobel «preventivo» per la Pace. Trump non ha iniziato nuove guerre e ha posto le basi perla pace in Medio Oriente, tra le Coree e in Kashmir. Recentemente candidato al Premio da un parlamentare norvegese, per i media resta un malvagio sanguinario. Come mai?

Fabrizio Soppelsa

***

Bravo Trump, qualcosa di buono doveva pur farla prima di sparire dalla scena.

Roberto Boson

Cari lettori,
Quando due o più Paesi firmano un trattato, è sempre una buona notizia, e un successo per il mediatore: in questo caso, Donald Trump. Tuttavia dietro la «pace di Abramo» c'è anche, fin dal nome, un po' di retorica. La pace si fa tra nemici. Ma nemici — in sostanza — Israele e gli Emirati arabi uniti (e il Bahrein) non sono stati mai. Sono Paesi separati da centinaia di miglia, mari, deserti. Non sto dicendo che l'accordo non sia importante; a maggior ragione se ne seguirà un altro tra Israele e l'Arabia saudita. Ma sinceramente mi pare più una mossa nel quadro della guerra civile araba tra sunniti e sciiti, che nel quadro della pace in Medio Oriente tra arabi e israeliani. Sancendo in modo ufficiale l'avvicinamento in corso da tempo con Israele — unica vera democrazia e unica potenza atomica della regione —, i sunniti si rafforzano, e gli sciiti subiscono un colpo. Ma se si è festeggiata tanto la «pace di Abramo», che cosa si potrebbe inventare un presidente americano che imponesse un trattato di pace tra Israele e l'Iran, o tra Israele e i palestinesi? L'idea iniziale di Trump era proprio l'accordo tra Netanyahu e i palestinesi. Sul piatto l'America ha gettato molti soldi. Ma non era pensabile che un popolo rinunciasse alla terra in cambio di dollari. I palestinesi hanno commesso molti errori — non ultima la drammatica divisione tra i Territori amministrati dal presidente Abu Mazen e Gaza controllata dagli estremisti filoiraniani di Hezbollah — e anche molti crimini. Ma sono stati abbandonati dalla comunità internazionale in modo abbastanza cinico. E i primi ad abbandonarli sono stati — e sono — i «fratelli arabi»; fin da quando nel 1948 si presero ognuno un pezzetto di quello che secondo l'Onu doveva essere lo Stato palestinese.

Avvenire - Giorgio Ferrari: "Questa 'pace' è un affare"

Quest'infinita triste commedia
Giorgio Ferrari

Gli "Accordi di Abramo" siglati il 15 settembre a Washington fra Israele, Emirati Arabi e Bahrein sono solo l'ultimissimo tassello della Pax Americana perseguita non senza intoppi e interruzioni da Donald Trump e al tempo stesso un caleidoscopio le cui tante facce assegnano al complicato risiko mediorientale una nuova fisionomia. Come è noto, l'intesa siglata alla Casa Bianca fra i ministri degli Esteri di Bahrein e Abu Dhabi e il premier israeliano Netanyahu certifica l'avvio di relazioni diplomatiche ufficiali fra Gerusalemme e queste nazioni, portando a quattro il novero degli Stati arabi che riconoscono Israele. II primo fu l'Egitto con la stretta di mano fra Anwar Sadat e Menachem Begin alla presenza di Jimmy Carter a Camp David nel 1978; poi venne la Giordania nel 1994, con l'accordo fra re Hussein e Yitzhak Rabin davanti a Bill Clinton. Al di là della comprensibile grancassa mediatica che ha accompagnato a Washington come a Gerusalemme lo «storico accordo del secolo» (inutile rammentare che si avvicinano per Trump le elezioni del 3 novembre e che per il premier Netanyahu fiaccato in patria dall'indagine per corruzione e dal ritorno obbligato del lockdown il successo della mediazione americana è certamente un toccasana) è lecito domandarsi: ma è davvero un progresso sulla via della pace? Senza nulla togliere al successo diplomatico, l'accordo appena stipulato non è che una normalizzazione delle relazioni esistenti, in quanto né gli Emirati né il Bahrein erano mai stati in guerra con Israele. In secondo luogo ci sono due elementi cruciali fonte di potenziale conflitto: la questione palestinese e il problema degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. I palestinesi, com'era prevedibile, non hanno accolto con entusiasmo lo spostamento di equilibri e il probabile definitivo naufragio della soluzione dei due Stati, per il quale accusano la Lega Araba di colpevole inerzia e soprattutto di aver tradito la causa dell'Olp, che fin dal 1974 la Lega stessa considerava - a parole per lo meno - la legittima rappresentante del popolo palestinese. Ora quel popolo, scialuppa fragile e abbandonata in questa tempesta che scuote il Medio Oriente e che spariglia e allontana l'uno dall'altro ben più dotati vascelli arabi, si sente isolato e pugnalato alle spalle nel nome di una Realpolitik ideata e dal genero di Trump, Jared Kushner, e somministrata - questo va detto - con un'accortezza e una pazienza che normalmente non sono le doti principali riconosciute all' inquilino della Casa Bianca. Come nel domino, all'apertura di credito degli Emirati si aggancia la sospensione del programma di annessione israeliana della Cisgiordania. Sospensione, si badi, non rinuncia: ma era questo il piccolo pegno da pagare perché gli accordi di Abramo potessero essere sottoscritti dai partner arabi. Ai quali, al netto di ritardi e tatticismi, dovrebbero prima o poi aggiungersi anche diversi altri, a cominciare dall'Arabia Saudita e dall'Oman, seguiti dal Sudan e dal Marocco. Sullo sfondo però si staglia il vero motivo di questa ricomposizione di alleanze. Ed è l'urgente opera di contenimento dell'espansionismo iraniano. Da anni la mezzaluna sciita si era andata estendendo da Teheran al Mediterraneo passando per Baghdad, Deir Ezzor, Palmira, Damasco, Latalda in modo da assicurare all'Iran una fascia di controllo che tagliava in due la vecchia carta geografica del Medio Oriente. Un cuneo nel cuore del mondo sunnita dove si dislocavano ben tre eserciti a disposizione delle ambizioni iraniane: 100mila miliziani in Iraq, 10 mila hezbollah e 50mila fra iracheni e afghani in Siria e altre migliaia con Hamas a Gaza, cui si aggiungevano gli Houti dello Yemen. Da tempo sia Gerusalemme sia Riad hanno individuato nell'Iran un pericolo mortale e un nemico comune. E un capovolgimento copernicano rispetto all’appeasement dell'amministrazione Obama l'avvicinamento di Israele alle monarchie del Golfo dà ulteriore impulso al lavorio per creare una rete sunnita che contenga le ambizioni di Teheran e anche per concludere vanta K osi affari: l'America ha già promesso una partita di F-35, i caccia invisibili, agli Emirati. E in questo scenario in continuo movimento può perfino accadere- lo diciamo con scaramanzia dopo tante e ripetute delusioni -che ci sia davvero un'occasione concreta e vera di pace. Anche con i palestinesi. Anche con l'Iran. Una pace che realisticamente poggi - come si raccomanda dall'epoca di Talleyrand - sui rapporti di forza. Politici o economici che siano. Ed è su questa strada, vien da dire, che già si cammina.

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