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La Repubblica - La Stampa Rassegna Stampa
27.06.2020 Il falso mito del 'fascismo buono' e le storie degli italiani che denunciarono gli ebrei
Recensioni di Elena Loewenthal, Susanna Nirenstein

Testata:La Repubblica - La Stampa
Autore: Elena Loewenthal - Susanna Nirenstein
Titolo: «La vulgata del fascismo innocuo. Perché l'Italia falsifica la sua storia - Gli italiani che tradirono i fratelli ebrei»

Riprendiamo da TUTTOLIBRI/LA STAMPA di oggi, 27/06/2020, a pag.14, con il titolo "La vulgata del fascismo innocuo. Perché l'Italia falsifica la sua storia" la recensione di Elena Loewenthal; dalla REPUBBLICA, a pag. 32, con il titolo "Gli italiani che tradirono i fratelli ebrei" la recensione di Susanna Nirenstein.

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Elena Loewenthal: "La vulgata del fascismo innocuo. Perché l'Italia falsifica la sua storia"

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Elena Loewenthal

Ma perché siamo ancora fascisti?: Un conto rimasto aperto eBook ...
La copertina (Bollati Boringhieri ed.)

In Italia non c'è stato nessun processo di Norimberga. Fra il novembre del 1945 e l'ottobre del 1946 i crimini di guerra tedeschi, sia quelli macroscopici sia quelli considerati «secondari», passarono al vaglio di un tribunale militare. Ma, come disse Churchill, «l'uccisione di Mussolini e il collasso del fascismo» risparmiarono tutto questo al nostro paese. Il mancato processo di Norimberga italiano è in parte la causa e in parte la conseguenza del Ventennio fascista e della guerra, come spiega Francesco Filippi nel suo nuovo libro Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto. Rispetto al suo precedente e fortunato Mussolini ha fatto anche cose buone (sempre per Bollati Boringhieri), questa è un'opera più analitica e storiografica in senso stretto. Il punto di partenza però è lo stesso: come mai in Italia si può ancora considerare acriticamente il fascismo? Come mai questo dramma collettivo può ancora diventare un paradigma pronto all'uso, banalizzato al punto da risultare l'oggetto di nostalgie neutre, dall'apparenza quasi innocua, totalmente scollate da quel che è stata la reale vicenda storica? In Italia il fascismo non è stato rimosso, come in una certa misura è accaduto in Germania con il nazismo si Persiste il mito del «buon italiano» opposto a quello del «perverso nazista» no a che non si è avviato un ripensamento collettivo. Anzi. Il problema italiano sta in un certo senso proprio nel contrario della rimozione: una continuità permeante, profonda. In parte inconscia ma soprattutto ben consapevole. Perché il grande «talento» politico del regime è stato proprio quello di costruire una classe dirigente a tutto tondo, in praticamente ogni ambito: «nei suoi vent'anni di regime il fascismo costruisce un'intera classe dirigente: non solo a livello eminentemente politico, ma anche nelle strutture dell'amministrazione, dell'economia e della cultura... sono sottoposti a una politica di fascistizzazione la funzione pubblica, la scuola, l'università, i rappresentanti delle parti sociali, ma anche le imprese private, i sindacati, l'associazionismo, lo sport». Come ricorda Filippi, al momento di giurare fedeltà al fascismo, richiesto ai docenti universitari nel 1931, solo dodici fra tutti decisero di astenersi (su questa triste vicenda resta fondamentale il saggio di Giorgio Boatti, Preferirei di no, pubblicato da Einaudi). Specularmente, c'è un altro fattore che concorre alla mancanza di una discontinuità storica capace di stabilire una distanza «reale» dal fascismo necessariamente coniugata con la consapevolezza di una pesante responsabilità storica. Un fattore di segno positivo, Si è così diffuso un sentimento quasi bonario, fatto di nostalgia e ignoranza certamente, ma che ha portato con sé una sorta di assoluzione retroattiva. Il fascismo, infatti, è caduto nel 1943, e l'Italia è bruscamente passata dal rango di alleata a quello di occupata dal nazismo, il regime totalitario gemello di quello che aveva con ampio consenso governato il paese per i vent'anni precedenti. Tutto questo - continuità delle classi dirigenti per un verso e riscatto attraverso il ruolo passivo di vittime del totalitarismo e attivo di resistenza - ha fatto sì che siano mancati nel nostro paese un ripensamento critico vero e proprio e soprattutto una presa di distanza incontrovertibile nei confronti del fascismo. Così, mentre si assiste a un endemico reintegro nelle posizioni dirigenziali di chi aveva ricoperto tali ruoli in piena complicità con il regime, si fa strada sin dall'immediato dopoguerra l'idea di un fascismo come «virus», «come malattia contagiosa e aliena... Il fascismo "malattia" diviene una parte essenziale della retorica che accelera l'uscita del paese dal cono d'ombra del passato mussoliniano», come ben spiega Filippi, anche sulla scorta di un saggio fondamentale di Pier Giorgio Zunino, La Repubblica e il suo passato. II fascismo dopo il fascismo, il comunismo, la democrazia: le origini dell'Italia contemporanea (il Mulino). Tutto ciò, insieme al mito del «buon italiano» opposto a quello del perverso nazista, ha posto le basi di una sorta di autoassoluzione collettiva nei confronti dei crimini fascisti, obnubilando in parte la nostra comune coscienza storica. Questo spiega la persistenza non tanto di frange estremiste pseudomilitanti e apertamente violente, quanto di un sentimento più diffuso, quasi bonario, fatto di condiscendenza, nostalgia ma soprattutto ignoranza nei confronti del Ventennio. Il libro di Filippi è una analisi lucida e dettagliata della «tenacia» del fascismo in Italia, della rimozione delle colpe italiane nelle vicende belliche e coloniali, di quella «continua messa in discussione della Resistenza come valore unificante dell'Italia» che «porta a un progressivo sfumare dell'intera questione attorno al rapporto stesso dell'Italia ai tempi della lotta partigiana con l'Italia odierna». Chissà se siamo ancora in tempo per una analisi lucida e responsabile di quei lunghi anni che hanno inequivocabilmente devastato il nostro paese.

LA REPUBBLICA - Susanna Nirenstein: "Gli italiani che tradirono i fratelli ebrei"

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Susanna Nirenstein

Presentazione del Portale

C’è un capitolo della propria storia che gli italiani non vogliono vedere: la collaborazione con i nazisti nella cattura e nello sterminio degli ebrei. Si considerano "brava gente", ma la verità è un'altra: ora un'iniziativa della Fondazione Museo della Shoah di C 9 Roma ha aperto una finestra nel proprio portale online che inizia a far luce su quanto avvenuto. Il progetto infatti, intitolato "I percorsi della Shoah" e curato da Amedeo Osti Guerrazzi, raccoglie in maniera del tutto inedita le sentenze emanate tra il 1945 e il 1947 contro i nostri connazionali che hanno collaborato alla persecuzione antisemita. Scavando negli Archivi di Stato di tutto il Paese, la ricerca ha raccolto fino ad ora circa 150 verdetti, ma si presume che si arriverà sicuramente a 200. Pochi? Questo è quanto si può trovare nelle carte, la punta di un iceberg, ma la percentuale delle catture degli ebrei dovute alle delazioni è altissima: secondo Osti Guerrazzi, per farcene un'idea conviene prendere i numeri di Roma: se la razzia dei tedeschi del 16 ottobre 1943 fermò e deportò verso i campi di sterminio 1022 ebrei, ci sono poi stati altri 750 rastrellati, e di questi almeno 450 additati, traditi, fatti arrestare da italiani. Dunque più della metà di quelli non presi nell'Aktion nazista. E questa è una media che possiamo riferire a tutta la nazione. Una pagina scura, un abisso. Ma vediamo meglio di che sentenze si tratta. Partiamo dal fatto che dopo l'8 settembre 1943 la Repubblica Sociale Italiana dichiarava gli «appartenenti alla razza ebraica» stranieri e nemici. I130 novembre il ministero degli Interni dispose il sequestro dei beni di proprietà degli ebrei e anche il loro arresto e internamento. Già prima i nazisti avevano iniziato a rastrellare e deportare, ricordate il Portico d'Ottavia, poi Genova, la Toscana, Milano. Ma quell'atto ufficiale fascista voleva dire aprire la caccia. I catturati sarebbero stati uccisi (almeno 75 a Roma finirono alle Fosse Ardeatine) o destinati al campo di Fossoli, in Emilia, e di lì a Auschwitz. La collaborazione tra nazisti e fascisti a partire dal gennaio '44 si rafforzò su due fronti: i repubblichini arrestavano gli ebrei in maniera autonoma e li consegnavano ai nazisti, oppure gli italiani si mettevano volontariamente a disposizione dei tedeschi spinti fondamentalmente dalla taglia messa sulla testa delle vittime (in media — dice Osti Guerrazzi — 5000 lire per un maschio adulto). Tra loro alcuni militanti repubblichini, ma soprattutto criminali, collaboratori della polizia fascista, e anche una buona dose di cittadini comuni che approfittavano della situazione per mettere dei soldi in tasca senza farsi problemi di sorta, magari rispolverando una certa dose di spirito antisemita che non guasta mai. Ma dopo vedremo meglio. Fu a partire dal 1945 che lo Stato italiano giudicherà i collaborazionisti creando le Corti Straordinarie di Assise (Cas) per i reati di collaborazione con i tedeschi, una creazione il cui scopo era non lasciare ai tribunali ordinari, pieni di magistrati che avevano loro stessi aderito al regime, il compito di giudicare i fascisti. Un'istituzione necessaria anche per evitare vendette politiche e private che si temevano all'indomani della guerra civile. I processi furono molti, e, se non si hanno dettagli, prendiamo però la cifra fornita da Osti Guerrazzi per il Piemonte: undici Cas svolsero 2.400 procedimenti contro 3.600 persone, di cui 203 condannate a morte, 23 all'ergastolo, 319 a più di 20 anni di carcere, 853 tra i 5 e i 20 anni di prigione. In Italia complessivamente i rinviati a giudizio furono 21.454, e il 27,6% subì una condanna di qualche ordine. Una resa dei conti presto stoppata dall'amnistia Togliatti del 22 giugno 1946 che cancellava nei fatti tutti i reati politici compiuti durante la guerra, e naturalmente anche quelli dei collaborazionisti. Unico modo per continuare a giudicare i reati dei delatori fu processarli per colpe non previste dall'amnistia, e dunque reati comuni, furti, saccheggi, sequestri di persone, estorsione, percosse..., omicidi no, i tribunali italiani non vollero mai processare i delatori per concorso in omicidio, anche se quasi sempre gli ebrei consegnati ai nazisti finirono uccisi. Muoversi tra le settanta sentenze pubblicate non è facile, il linguaggio come potete immaginare è ostico. I criminali giudicati sono i più diversi. Ad esempio c'è un certo Paolo F., una guida italiana di origine svizzera: fu grazie a questo suo lavoro che conobbe e volle tradire decine di "ricordari", i venditori ambulanti di ricordini per turisti, ebrei romani che continuavano a lavorare nonostante la guerra. Ne fece prendere ben 24. Un'altra figura è quella di Nella G., una ragazza fiorentina che lavorava come dattilografa in un ospedale dove gli ebrei erano nascosti sotto falso nome: lei ne scoprì l'identità e li denunciò in cambio di denaro. Oppure Leonardo L., fingendo di voler comprare alcuni gioielli, individuò l'abitazione della famiglia Di Consiglio e vi portò i tedeschi: i maschi finirono alle Fosse Ardeatine, le donne nei campi di sterminio. G.G. a Varese costruì una mini organizzazione che fingeva di aiutare gli ebrei a scappare in Svizzera e poi invece li bloccava a metà strada facendoli arrestare dalla polizia nazifascista. Peggio ancora Giuseppe Mittermair, guardia al campo di concentramento di Bolzano: si distinse per le sevizie che infliggeva ai detenuti ebrei «con una completa adesione ai più spietati metodi della Germania nazista». C'erano anche gruppi specializzati nella persecuzione antiebraica tra i soggetti processati. Più noto di tutti forse Giovanni Cialli Mezzaroma, ex spia della polizia politica fascista, sottolinea Osti Guerrazzi: lui organizzò una banda agli ordini di Herbert Kappler, coadiuvata anche dalla giovane ebrea Celeste Di Porto. Tra i tanti misfatti che fecero, nella notte tra il 23 e il 24 marzo 1944, dopo via Rasella, il gruppo fermò una dozzina di ebrei consegnati poi a Kappler e uccisi alle Fosse Ardeatine. Molti di questi crimini vennero considerati delitti politici e dunque amnistiati, considera tristemente Osti Guerrazzi. E la persecuzione razziale non fu giudicata un delitto.

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