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Il Giornale - La Stampa Rassegna Stampa
11.05.2020 Il ritorno di Silvia Romano e le responsabilità delle Ong
Commenti di Gian Micalessin, Domenico Quirico

Testata:Il Giornale - La Stampa
Autore: Gian Micalessin - Domenico Quirico
Titolo: «Le colpe? Ong irresponsabile. L'ha mandata laggiù da sola - In ginocchio davanti al sultano. Ci costerà caro - La prigione in un abito verde islam»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 11/05/2020, a pag.3-4 con i titoli "Le colpe? Ong irresponsabile. L'ha mandata laggiù da sola", "In ginocchio davanti al sultano. Ci costerà caro", i commenti di Gian Micalessin; dalla STAMPA, a pag. 1, con il titolo "La prigione in un abito verde islam", l'analisi di Domenico Quirico.

L'analisi peggiore uscita stamattina è quella di Umberto Galimberti sulla Stampa.

Ecco gli articoli:

VIDEO Il ritorno in Italia di Silvia Romano - La Provincia
Show con il governo di Silvia Romano al rientro in Italia

IL GIORNALE - Gian Micalessin: "Le colpe? Ong irresponsabile. L'ha mandata laggiù da sola"

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Gian Micalessin

E ora chi ci restituirà la parte di Silvia rimasta con i suoi rapitori? L'immagine di Silvia Romano nascosta sotto le pieghe di un dirac, la veste tradizionale delle musulmane somale, grida vendetta al cielo. E non solo perché ci racconta che qualcosa dentro di lei si è rotto e ci metterà tempo a guarire, ma anche perché evidenzia le responsabilità di chi l'ha mandata allo sbaraglio creando le condizioni per il suo rapimento e le sue sofferenze. Intendiamoci Silvia Romano non ha colpe. E partita per il Kenya a 23 anni spinta dall'entusiasmo tipico di quell'età. Lo stesso che alla medesima età spinse il sottoscritto ad andare in Afghanistan per raccontare la guerra dei mujaheddin all'Armata Rossa. Ma Silvia Romano non intendeva rischiare. Voleva solo aiutare i bimbi del Kenya. Non pensava certo di finire nell'inferno degli Shabaab somali. Non è altrettanto innocente ed esente da colpe chi sfruttando quell'entusiasmo solidale l'ha abbandonata senza scorta in un villaggio isolato, privo di un posto di polizia. Le leggerezze di Africa Miele, la presunta Ong di Fano in cui la Silvia riponeva la propria fiducia, sono semplicemente criminali. A causa di quelle leggerezze Silvia ha subito uno sfiancante trasferimento nella boscaglia kenyota sotto la minaccia delle armi. Una prova durissima a cui s'è aggiunta la pressione psicologica di una prigionia nelle mani dei terroristi di Al Shabaab, organizzazione al qaidista pronta a uccidere o torturare i suoi ostaggi. Da questo punto di vista la scelta della conversione è stata probabilmente una forma inconsapevole di auto-difesa. Un modo per non essere considerata infedele e quindi degna di morire. Ma chi l'ha condannata a farsi rapire oltre a far del male a Silvia ha anche messo a rischio le vite degli uomini dell'intelligence mandati sulle sue tracce. Un valore non trascurabile come ci ricorda la morte di Nicola Calipari sacrificatosi per salvare la giornalista Giuliana Sgrena. Vi sono poi i costi di gestione complessivi di una vicenda prolungatasi per 18 mesi e il saldo finale di un riscatto quantificabile, in base ai precedenti, intorno ai cinque milioni di euro. Un conto monetario non proprio trascurabile che a conti fatti supera i sei o sette milioni. Al danno materiale va aggiunto quello collaterale rappresentato dal finanziamento a un organizzazione terroristica pronta a investire quel denaro in autobombe e kamikaze. Insomma mentre Silvia sognava di aiutare i bimbi kenyoti, la superficialità di chi l'ha sfruttata servirà ad alimentare le mani assassine di chi, ogni giorno, fa strage di bambini, donne e civili. L'ultimo danno non meno grave è quello arrecato all'Italia e alle sue relazioni internazionali. Per liberare Silvia abbiamo dovuto chiedere l'aiuto di una Turchia diventata grazie ad un'abile e spregiudicata politica di aiuti il vero «dominus» di quella che fu la «nostra» Somalia. E siamo stati costretti a prostrarci davanti a quel Recep Tayyp Erdogan che in Libia tenta di metterci da parte e nel Mediterraneo usa le navi da guerra per bloccare le prospezioni di una Eni simbolo degli interessi energetici italiani. Ma oltre a chiedersi chi pagherà il conto di tutto questo, bisogna domandarsi come sia potuto succedere? In un Paese civile un'oscura Ong priva di qualsiasi referenza non dovrebbe avere la possibilità di sfruttare l'entusiasmo di giovani inesperti mandandoli incontro a disavventure capaci di creare danni enormi agli interessi nazionali. La vicenda di Silvia Romano rende definitivamente intollerabile la mancanza di controlli sull'attività di queste organizzazioni. E ci fa capire una volta di più i rischi e le storture nascosti dietro la presunta generosità di chi, pur attribuendosi la presunzione di far del bene, finisce con il mettere a rischio non solo le vite di chi gli da credito, ma anche gli interessi di tutta la Nazione.

Gian Micalessin: "In ginocchio davanti al sultano. Ci costerà caro"
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Il sultano Erdogan

In ginocchio davanti al Sultano. A questo il prezzo invisibile, ma anche più difficilmente quantificabile della liberazione di Silvia Romano. Un prezzo che a conti fatti potrebbe risultare assai più rilevante dei milioni versati in moneta sonante ai rapitori per riavere la cooperante italiana. Nel mondo dell'intelligence, della geopolitica e delle relazioni nulla è mai gratis. Soprattutto se il «dominus» con cui fare i conti è il presidente della Turchia Recep Tayyp Erdogan. Per diventare la potenza di riferimento in quella che fu la nostra colonia e restò, almeno fino alla caduta del dittatore Siad Barre nel 1991, una sorta di appezzamento italiano nel Corno d'Africa, la Turchia ha investito con tenacia, spregiudicatezza e lungimiranza. Non sarà un caso se uno dei due ospedali di Mogadiscio, costruiti e pagati dai turchi, porta il nome di Erdogan, se il porto e l'aeroporto sono gestiti e amministrati da compagnie con la propria sede ad Ankara e se il più grande campo d'addestramento del risorto esercito di Mogadiscio è gestito dalle forze armate del Sultano. Ma Erdogan non è soltanto molto generoso. È anche molto attento. E assai pericoloso. Per quanto riguarda l'attenzione non sarà un caso se il suo Paese è oggi il favorito per l'imminente assegnazione dei 15 lotti di prospezioni petrolifere lungo le coste somale. Negli anni di Barre sarebbero facilmente finiti nelle mani dell'Eni. Oggi contribuiranno all'espansione di una Turchia sempre più influente. Noi invece in Somalia non contiamo più nulla. Dopo il sacrificio di soldati e giornalisti caduti nella sfortunata missione Onu del 1993 abbiamo rinunciato a ogni ruolo. E così la nostra intelligence ha dovuto, come già capitò con gli ostaggi rapiti in Siria, mettersi nelle mani di quella turca. Dunque la liberazione di Silvia Romano si trasformerà per Erdogan in un credito presto esigibile. Mentre per noi diventerà un debito estremamente pesante e minaccioso. La Turchia pronta ad aiutarci in Somalia è la stessa che in Libia punta a metterci fuori dai giochi. Ed è la stessa che nel Mediterraneo manda le sue navi da guerra a bloccare le navi dell'Eni impegnate nelle prospezioni per la ricerca di nuovi pozzi di intorno a Cipro. Per capire la sproporzione tra aiuto e debito basterà dire che la trattativa con Al Shabaab è costata ad Ankara poco o nulla. Per realizzarla ha utilizzato i collaudati mediatori e informatori reclutati in quella zona grigia in cui si s'intrecciano i ricorrenti gatteggiamenti indispensabili a garantire una cornice di sicurezza alle migliaia di lavoratori turchi presenti in Somalia. Ma statene certi ci verrà regolarmente fatturate. Per ripagarle dovremo abbassare la testa quando in Libia si ridiscuterà il nostro ruolo. Magari rinunciando a discutere la legittimità del trattato con cui Erdogan ha deciso le zone del Mediterraneo in cui la Turchia e un governo di Tripoli ai suoi ordini, imporranno la propria egemonia.

La Stampa - Domenico Quirico: "La prigione in un abito verde islam"

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Domenico Quirico 


Dio, come pesa quel barracano verde, come ci annaspiamo dentro. È come se lo gonfiasse tutto quello che in questi mesi interminabili Silvia Romano ha attraversato, come se avesse voluto portarli con sé, la prigionia, la violenza del sequestro, i segni dei nuovi indemoniati che ritengono che tutto sia permesso non più perché dio non esiste ma anzi proprio perché, per loro, il suo esistere li rende fanatici. In un vestito che non ha voluto lasciare dietro, che ha voluto esplicitamente come simbolo, c'è il mondo dell'islamismo radicale con i suoi codici le sue parole d'ordine i territori segreti l'incubo dei predicatori che sanno ispirare l'animo alla follia, (ah poveretti, voi non sapete quanto sono abili in questo), la sua manovalanza e suoi gerarchi. Gli uomini di Al Shabaab, le loro opere criminali lo impregnano, ne fanno sentire la esplicita presenza in ogni piega. La seguono, non l'hanno liberata. Distanza e vicinanza. L'immagine di Silvia ritornata, della sua giovinezza raggiante e minacciata, i suoi occhi sfavillanti, la sua bocca che corre dietro alle parole, agli abbracci, l'abito verde, come un illusionista, la moltiplica senza fine: la figura smarrita in una camera di fata morgana. Naturalmente si potrebbe tacere. Non parlarne, non scriverne per discrezione o per pudore. Il linguaggio è sacro non si devono mai pronunciare parole alla leggera. Le parole fanno paura, talvolta: che cosa sono? Opera divina o diabolica? La conversione, il matrimonio con uno dei carcerieri: portarsi dentro le rivelazioni, le conferme come un veleno. Accanto a una parola, una sola, vera, nuda, fremente di fraternità, una parola con la circolazione del sangue dentro, bisogna dire l'essenziale, allora, niente di superfluo. C'è quell'abito che pesa. Lei ha voluto indossarlo, ci condanna e ci coinvolge. Non possiamo voltargli le spalle. Si offre allo sguardo di ognuno. Inganna o conferma? Ci costringe a ricordare che chi ha subito un sequestro nel tempo purtroppo senza via di uscita della jihad vive inevitabilmente in più di un mondo, non può ordinare al passato di spegnersi, invocare l'avvenire per illuminarlo. Significa far rivivere dentro di sé, non nei verbali delle procure, frammenti di esistenza, illuminare volti e avvenimenti, scelte fatte durante la prigionia, con una luce che non può purtroppo come per noi essere bianca o nera. Non può far scendere la sabbia che ricopre il volto delle cose, combattere l'oblio, scacciare la Morte. E poi il nome. Conosco il rito dell'offerta della conversione: per averlo vissuto. Comincia con una proposta, gentile: quella di cambiare identità, di assumere un nome musulmano. Allucinante complessità del fanatico. Sconcertante impenetrabilità di personaggi a doppio, triplo fondo. Non gli basta tenerti in pugno, barattarti per denaro. Vogliono la tua resa, la tua anima. Non è un rito formale, piccole mercanzie da sacrestia islamica, è un obbligo, a cui credono sinceramente: salvare un miscredente dal peccato, portarlo alla vera fede, accrescere di una unità il paradiso dei puri, dei giusti. Che doppia vittoria! Poi lo si potrà vendere, sfruttare, possedere. Senza rimorso. Nessuno ti dice che così la tua condizione di vittima, di prigioniero cambierà, che in quanto musulmano non subirai più violenze. Che sopravviverai. Forse ti libereranno…e allora…fuggire…forse, chissà. Ma ti accorgi immediatamente che l'abbandonare il nome, anzi gettarlo via come una cosa sporca, è l'equivalente, oh quanto più forte, del restare nudo, del lasciare i vestiti che ti hanno tolto subito dopo il sequestro. Sei debole, senti mancarti il terreno sotto i piedi, precipiti verso il fondo del trabocchetto, non sai neppure tu come ti devi chiamare. Sai che se dici sì, scivoli via da te stesso: obbligatoriamente. Adesso non hai più nome che non sia quello che loro ti hanno imposto, ogni volta che ti chiamano devi percorrere nella tua mente uno spazio, per capire che quel nome sei tu. Poi viene la proposta di pronunciare la preghiera, la dichiarazione di fede. Ma l'idea di mentire, del prendersi gioco dei tuoi carcerieri, salvarsi con la riserva mentale, ingannarli? Sarebbe lecito, in fondo. Pensieri che partorisce la notte. Che non potrai disinvoltamente gettare via. Ma con dio non si scherza, soprattutto quando hai vicino di cella il dolore. Cerchi la via di scampo. E se fosse proprio in questo dio in cui credono di credere i carcerieri? Un dio senza angoscia nella mente, senza incertezza, senza dubbio, senza un elemento di disperazione. Non si parli di sindrome di Stoccolma, del legame capovolto che si crea con chi ti fa del male. Semplicemente non esiste. Quello che cerchi, che sogni è avere un po' di quella stanchezza felice che provano i convalescenti. Anche un dio implacabile e senza indulgenza può andare bene, ti può scorrere addosso come un balsamo. Il tuo, se lo avevi, sembra aver scelto il silenzio, ha perso la partita. E poi: donna prigioniera della jihad. Si fa quasi fatica a parlarne, dà sofferenza: le terribili vedove del Califfato, Antigoni cieche dell'odio, che impugnano i figli come manodopera della rivincita. L'adultera lapidata. O le jazide vendute come schiave al mercato, innocenti prostitute della guerra santa. Nella retorica della jihad non c'è posto per le donne, è un mondo di giovani guerrieri che costruiscono il loro paradiso insanguinato. Ma nella ipocrisia dei mercanti sanguinari di dio quante donne: kamikaze, produttrici di martiri, riposo del guerriero. Sequestrate. Chi esce da un rapimento ha soltanto la sua memoria, l'esser rimasto vivo, i gesti che ha compiuto o non ha compiuto in una dimensione che, non bisogna dimenticare mai, è quella della violenza, del ricatto. Se gliela rifiutiamo questa memoria, qualunque sia, ditemi: che cosa gli resta?

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