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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
11.04.2019 Elezioni Israele 2019: ecco come è andata
Due servizi di Giordano Stabile, il commento poco equilibrato di Paola Peduzzi

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Giordano Stabile - Paola Peduzzi
Titolo: «Netanyahu supera anche Ben Gurion e affronta la sfida del suo quinto governo - Tra i giovani di Gantz delusi: 'Questo per noi è un incubo' - Appunti israeliani per i partiti europei»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 11/04/2019, a pag.9 con i titoli "Netanyahu supera anche Ben Gurion e affronta la sfida del suo quinto governo", "Tra i giovani di Gantz delusi: 'Questo per noi è un incubo' " due servizi di Giordano Stabile; dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Paola Peduzzi "Appunti israeliani per i partiti europei".

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Giordano Stabile: "Netanyahu supera anche Ben Gurion e affronta la sfida del suo quinto governo"

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Giordano Stabile

Benjamin Netanyahu entra nella storia, vola verso il quinto mandato da premier, persino meglio del padre della patria Ben Gurion. Il verdetto della notte elettorale lo ha premiato di nuovo. Come nel 1996, quando gli exit poll lo avevano dato per sconfitto la sera e lo spoglio delle schede vincitore al mattino. Martedì sera sembrava pareggio con il rivale Benny Gantz ma poi il conteggio reale, anche se ha certificato il testa a testa fra il Likud e il partito «Blu e bianco» del generale, 35 seggi ciascuno, ha dato la maggioranza al centrodestra, 65 sui 120 seggi della Knesset. Quanto è bastato a «Bibi» per rivendicare una «vittoria immensa». A questo punto il presidente Reuven Rivlin non può che riaffidare l’incarico a Netanyahu, pur con il rischio che vada a processo per accuse di corruzione. Gantz ha concesso la vittoria all’avversario: «Accettiamo la decisione del popolo e rispetteremo le scelte del presidente», ha spiegato, ma «renderemo amara la vita al Likud».
Netanyahu per ore si gode il successo e la sua luna di miele con Donald Trump. Il presidente Usa si è congratulato con una telefonata dall’Air Force One e ha sottolineato che i due «continueranno a lavorare assieme» e che «la pace è più vicina». Trump ha in Israele il più alto indice di gradimento al mondo, al 70 per cento. La decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale, e la sovranità israeliana sul Golan, hanno dato una spinta al premier, così come la promessa di annettere parti della Cisgiordania. Il quotidiano Haaretz ha rivelato il premier starebbe preparando uno scambio con i partiti religiosi. Nuove norme per rendere più difficile, se non impossibile, processare un primo ministro in carica, accompagnate da annessioni in Cisgiordania, come chiede l’ultradestra.
Sulla coalizione fra Likud e le destre religiose incombe però «l’accordo del secolo», il piano di pace americano, che potrebbe irrompere fra poche settimane, come ha annunciato ieri Mike Pompeo. Per quanto poco possa concedere ai palestinesi sarà sempre troppo per i religiosi. La spaccatura potrebbe spingere Netanyahu a cercare una sponda, in nome dell’unità nazionale, proprio con Gantz. Per approvare il piano e ricambiare Trump delle sua generosità. Anche perché gli equilibri nella nuova Knesset si sono spostati a destra. Accanto al Likud siederanno 8 rappresentanti ciascuno dei partiti religiosi Shas e Torah Unita; 5 di Ysrael Beiteinu, 5 di Hayemin Hehadash e 4 del partito centrista, ma vicino al Likud, Kulano. Mentre la Nuova destra guidata dall’ex ministro dell’Educazione Naftali Bennett e la ministra della Giustizia Avelet Shaked ieri era ancora in bilico sotto la soglia del 3,25 per cento.
Il premier è stato favorito anche dalla scarsa affluenza degli elettori arabi. Il partito Raam-Balad, ha ottenuto 4 seggi, Hadash Taal, 6, tre deputati in meno rispetto alla lista unica dell’ultima tornata. La spinta a boicottare il voto è arrivata anche da Ramallah, dove il presidente palestinese Abu Mazen ha tagliato ogni rapporto con Netanyahu e Trump. Il successo del premier è stato accolto molto male. In molti speravano che gli scandali e la frammentazione a destra potessero azzopparlo. Per Hanan Ashrawi, una dei leader dell’Olp, gli israeliani hanno scelto «un parlamento razzista e anti-palestinese».

LA STAMPA - Giordano Stabile: "Tra i giovani di Gantz delusi: 'Questo per noi è un incubo' "

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Benjamin Netanyahu

La sfida «è appena cominciata». Il popolo di Benny Gantz si consola così, dopo una notte con il sapore della vittoria durata poche ore, dalle 10 dei primi exit poll alle 2, quando le prime proiezioni hanno gelato le speranze di staccare il Likud e rivendicare la premiership. Lungo Giaffa Street il passaggio del tram solleva i dépliant con il ritratto del generale, gli occhi azzurri che gli sono valsi certo qualche voto. Gerusalemme è stata un po’ trascurata dalla campagna di Blu e Bianco. Un fortino conservatore difficile da espugnare. Quasi un quarto degli elettori qui ha scelto il Likud, il partito religioso degli askenaziti, Torah Unita, è arrivato al 23. Shas, quello dei sefarditi, quasi al 14 e solo quarto Blue e Bianco, con il 12.
Un disastro che si aspettavano anche Giora e Osnot Silvester, sostenitori di Gantz dalla prima ora. Appena usciti dal Beer Bazaar, aspettano con ansia il discorso del loro leader. «Non si deve arrendere – insiste Giora, 36 anni, una buona posizione in una azienda di telecomunicazione -. Bibi l’ha battuto a forza di trucchi e bugie, ma cammina su un filo sottile, con tutte quelle inchieste sulla testa. Bisogna restare pronti. Tutti i suoi azzardi, anche in politica estera ed economia prima o poi lo faranno cadere».
Giora e Osnot speravano in un risultato migliore nel Sud, per esempio a Sderot, e in ancora più voti a Tel Aviv, dove pure Gantz ha preso oltre il 40 per cento. «Certo non poteva puntare sul Modiin», un insediamento nei sobborghi della città dove i religiosi sono arrivati al 97 per cento. «A Sderot però pare che sia andata malissimo, eppure con tutti quei razzi che gli cadono in testa potevano puntare su Benny, che sulla sicurezza non è secondo a nessuno».
A Gerusalemme, per trovare qualche supporter del generale bisogna andare paradossalmente vicino alla tana del lupo, nei quartieri residenziali di Rechavia e Nachlaot, non distante dalla residenza del premier. È una zona residenziale a due passi da King David, dove vivono anche molti americani di recente immigrazione, e di tendenze liberal.
Molti sono passati dal Labour al partito di Gantz, convinti che la combinazione questa volta «fosse quella giusta». I più delusi sono Noa e Gari, una coppia di americani sulla quarantina, arrivati a Gerusalemme dieci anni fa. Lui, ingegnere elettronico, con una camicia a quadri, gli occhi azzurri e i capelli brizzolati, assomiglia persino un po’ al generale.
«L’altra volta avevamo votato per Lapid - racconta -. Ieri abbiamo davvero creduto di avercela fatta. Gantz era l’ideale per arrivare a un accordo di pace con i palestinesi, ma sicuro per Israele, non come quello di Gaza. Ora ce lo scordiamo per altri cinque anni». Netanyahu però, ammette, ha gestito l’economia alla grande: «Siamo una piccola potenza tecnologica. Qui ci sono opportunità come in America ma con uno welfare molto più generoso anche se non come quello europeo. È stata quella la sua forza, oltre che l’appoggio di Trump». E ora, che fare? «Speriamo che Gantz e Lapid non si separino. È un classico della politica israeliana. Invece possono costruire una bella alternativa al Likud, specie con tutti i guai giudiziari di Netanyahu, sembra il vostro Berlusconi».
L’idea che alla fine gli scandali costringeranno il premier a dimettersi è coltivata soprattutto dai giovani. «Ero a Tel Aviv ieri sera - racconta Yiska Harav, studentessa in Arte e spettacoli di 23 anni, gli occhi ancora gonfi di sonno -. Voglio sperare che in realtà non mi sono ancora svegliata e sono solo passata dal più bello dei sogni all’incubo peggiore. Ci ho creduto per ore. Benny ci scaldava, ci diceva, “siamo oltre un milione di voti, mi prendo questa responsabilità, voglio unire tutti quanti. Credo che ci riuscirà lo stesso. Non è la fine, è solo l’inizio di una lunga strada». Poi si affretta verso casa. Vuole seguire il discorso di Gantz, questa volta alla tv. «Resta il nostro comandante, non ci deluderà», e accenna a un saluto militare fra l’ironico e il patriottico.

IL FOGLIO - Paola Peduzzi: "Appunti israeliani per i partiti europei"

Paola Peduzzi definisce Benjamin Netanyahu "re" di Israele, mettendo in secondo piano le sue dichiarazioni, secondo cui "sarà il premier e il governo di tutti gli israeliani", non solo di quella parte che lo ha scelto, che Peduzzi definisce "l'emisfero destro" di Israele. Anche la comparazione tra Likud e i partiti europei definiti populisti non tiene, perché non considera le specificità storiche e sociali dello Stato ebraico.

Ecco l'articolo:

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Paola Peduzzi

Milano. Lo chiamano “King Bibi”, spesso senza sorridere, e Benjamin Netanyahu questo è oggi per Israele: il leader pronto per il suo quinto mandato, re se non di tutto il paese di certo del suo emisfero destro. Mentre in tutto il mondo le destre cercano di maneggiare le derive interne, di solito verso gli estremi, e si tormentano di domande su quel che sono e su quel che saranno – in Europa la dinamica è piuttosto chiara, basta vedere la sospensione di Viktor Orbán nel Ppe; in Italia l’abbiamo fatta più semplice: la Lega si è mangiata tutto – in Israele Netanyahu è riuscito a compattare sul suo Likud l’elettorato di destra, lasciando sempre meno spazio a quel che stava fuori, più a destra di lui. Un grande ombrello, che necessariamente ha spostato il proprio baricentro via dal centro, complice anche quell’alleanza internazionale che, partendo da Donald Trump in America e passando per Jair Bolsonaro in Brasile, sta trasformando le destre di buona parte del mondo. Identità e nazionalismo, “first”in una sola parola: la ricetta di Netanyahu è questa, assieme alla sicurezza ovviamente, che in Israele non si presta a complottismi e fake news che vanno forte tra i suoi alleati populisti. Gli altri partiti di destra più piccoli (25 seggi in tutto) sono sempre cruciali per fornire la maggioranza parlamentare al Likud, ma sono molto più remissivi e concilianti rispetto al passato: si attende ancora che Avigdor Lieberman sciolga la sua riserva di alleanza (ha cinque seggi da mettere in palio), ma il “fenomeno” libertario Feiglin, che era considerato l’ago della bilancia di questa tornata elettorale, non ha nemmeno superato la soglia di sbarramento.

A sinistra si è invece consumata una tragedia, un’altra. Dei 19 seggi con cui partiva il già scalcagnato Partito laburista israeliano ne sono rimasti un terzo: 6. Persino la lista araba di estrazione comunista è andata leggermente meglio: 4,63 per cento contro il 4,46 del Labor (il numero dei seggi è uguale). Il declino non è certo una novità – anche se il leader del partito, Avy Gabbay nelle ultime settimane alimentava la speranza millantando “sorprese” che evidentemente non c’erano – e dopo il 1977 il Labor ha governato soltanto quando ha candidato dei generali. Sulla sicurezza l’offerta di sinistra non si è mai rivelata efficace, ma il problema sta anche e soprattutto sulle altre questioni, quella economica e quella sociale. Senza visione e con parecchie liti interne – è sempre così, quando ci si deve spartire una coperta corta – il Labor non ha avuto e non ha una prospettiva: come sarà Israele domani? La risposta non c’è stata, e per il partito che ha fondato lo stato ebraico e che l’ha governato ininterrottamente per i suoi primi trent’anni di vita questa mancata risposta è ancora più grave: è come un padre che nel momento di difficoltà non sa indicare una via al figlio, siamo quasi in zona imperdonabilità. In questo il Labor israeliano assomiglia alle sinistre europee che stanno vivendo una delle fasi più deprimenti del millennio, rosicchiate via da partiti più radicali (è accaduto al Pasok greco ma anche al Partito socialista francese), da lotte interne o da offerte sostitutive. In Germania l’Spd, quartier generale della socialdemocrazia occidentale, ha perso elettori a destra – la working class scivolata verso la destra estremista dell’AfD – ma subisce anche una pressione considerata “sostitutiva”dai Verdi che si sono messi ad attrarre il voto giovane e urbano, cioè progressista. Non ci fosse il Psoe spagnolo a tenere alto l’entusiasmo dovremmo perdere le notti a studiare come fanno i socialisti romeni a resistere, o quelli finlandesi o quelli albanesi (anche il Labour britannico è messo bene, ma tifare per il corbynismo è comunque una scelta che non fa dormire bene). Anche in Israele di fatto c’è stata una sostituzione: il cosiddetto partito dei generali, Kahol Lavan, guidato da Benny Gantz è stato l’unico contrappeso a re Bibi. Non a caso, Netanyahu durante la campagna elettorale e pure quando le urne erano aperte ha detto: non votate Gantz, è di sinistra, sventolando lo spauracchio che va molto forte presso i suoi amici all’estero (vedi Trump e il “socialismo”). Annunciando un governo stabile, rapido e di destra, Netanyahu ha detto che sarà il premier di tutti. Ecco, questo forse è l’eccesso di questa quinta riconferma: una coalizione con Gantz consegnerebbe sì a Israele un governo per tutti, potrebbe colmare la frattura partigiana e polarizzante che c’è nel paese, e costruirebbe anche l’interlocutore giusto (la destra non lo è di certo) in caso di un piano di pace con i palestinesi, se mai ce ne sarà uno patrocinato dal genero di Trump. Ma i numeri sono a destra e bastano, il re decide e questo non è un paese per il dialogo.

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