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Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 28/03/2019, a pag. 13, con il titolo "Nel fortino Isis tra macerie, mine inesplose e immondizia", la cronaca di Lorenzo Cremonesi; dal GIORNALE, a pag. 13, con il titolo "Austria, preso lupo solitario dell'Isis: tentò di fare deragliare due treni", il commento di Daniel Mosseri.
Ecco gli articoli:
Corriere della Sera - Lorenzo Cremonesi: "Nel fortino Isis tra macerie, mine inesplose e immondizia"
L’estrema roccaforte di questo infinito calvario che è l’agonia del Califfato in Siria non è altro che un gigantesco campo di bivacchi precari, puntellato di fornelli da campeggio, tappeti strappati, stuoie lacere, coperte infangate, alberi spezzati, canne fumarie per stufe artigianali, lattine di carne non finite, conserve di latte per bambini, vestiti da donna colorati mischiati a cinture imbottite di dinamite per kamikaze, bossoli, proiettili inesplosi e soprattutto sporcizia, tanta immondizia spersa tra i crateri delle bombe e macerie d’abitazioni sventrate. Non ci sono affatto i grandi e ben costruiti bunker di cui si parlava sino a sabato scorso, poche ore prima dell’irruzione delle forze curde tra le ultime trincee di Isis. Ma piuttosto buche primitive, nascondigli lerci, scavati evidentemente di fretta, profondi solo pochi metri nella terra marrone e ubertosa della vallata dell’Eufrate. Il contrasto tra la propaganda della guerra e la realtà sul campo ricorda un po’ ciò che si diceva di Tora Bora, l’ultimo nido di Al Qaeda sulle montagne afghano-pakistane nel dicembre 2001. Pensavamo di incontrare fortilizi e gallerie super-sofisticati, ci imbattemmo in cunicoli grezzi, simili ai resti delle ridotte minori sulle Alpi della Prima Guerra Mondiale. Baghouz è un piccolo villaggio agricolo tra campi coltivati e frutteti. Inoltre non c’è traccia degli ostaggi occidentali. Nessuno sa dove si trovino, mancano prove evidenti che siano vivi. Si era parlato di una trattativa segreta per liberare anche il gesuita Paolo Dall’Oglio. Ma ora i curdi negano. Come non c’è notizia del «Califfo» Abu Bakr al Baghdadi. I curdi hanno liberato solo una trentina dei loro combattenti, che erano stati catturati nella contro-offensiva di Isis a novembre. Le bombe americane Attorno a mezzogiorno i jet americani sganciano due potenti bombe sulle colline di fronte. Fumo nero, la terra trema: la caccia continua. E infatti occorre subito dire che, visto da vicino, questo nuovo capitolo del conflitto impone una considerazione: se nel contesto degli assedi nel 2017 di Mosul e Raqqa, le due «capitali» del Califfato rispettivamente in Iraq e Siria, era consueto parlare di «fine di Isis», oggi sembra giusto restare più cauti. Come ci spiega il 37enne Adnan (il cognome non lo rivela) originario di Afrin e comandante delle forze speciali curde che operano qui lungo l’Eufrate: «La guerra non è finita. Siamo di fronte a un nemico infido, che cambia forma al variare delle circostanze. Isis perde la sua dimensione statuale, ma resta presente, crea sacche di resistenza nel deserto, nelle città, non cessa di attirare proseliti all’estero e simpatie tra la popolazione locale». Non è strano che i curdi enfatizzino la precarietà della situazione e il loro ruolo fondamentale per contrastarla. Più saranno loro al cuore dello scontro con i jihadisti e più continueranno a godere degli aiuti militari Usa, oltreché del consenso europeo e delle simpatie occidentali. Sono puntelli vitali per il governo del Rojava (la regione autonoma curda in Siria) di fronte all’ostilità della Turchia di Erdogan e alla nuova aggressività di Bashar Assad, oggi più che mai deciso a restaurare la sovranità sull’intero Paese come prima dello scoppio delle rivolte anti-regime nella primavera del 2011. Da qui la proposta di creare un «tribunale internazionale» nel Rojava per giudicare i jihadisti loro prigionieri, che però per ora trova pochi consensi. Attorno a mezzogiorno i jet americani sganciano due potenti bombe sulle colline di fronte. Fumo nero, la terra trema: la caccia continua. E infatti occorre subito dire che, visto da vicino, questo nuovo capitolo del conflitto impone una considerazione: se nel contesto degli assedi nel 2017 di Mosul e Raqqa, le due «capitali» del Califfato rispettivamente in Iraq e Siria, era consueto parlare di «fine di Isis», oggi sembra giusto restare più cauti. Come ci spiega il 37enne Adnan (il cognome non lo rivela) originario di Afrin e comandante delle forze speciali curde che operano qui lungo l’Eufrate: «La guerra non è finita. Siamo di fronte a un nemico infido, che cambia forma al variare delle circostanze. Isis perde la sua dimensione statuale, ma resta presente, crea sacche di resistenza nel deserto, nelle città, non cessa di attirare proseliti all’estero e simpatie tra la popolazione locale». Non è strano che i curdi enfatizzino la precarietà della situazione e il loro ruolo fondamentale per contrastarla. Più saranno loro al cuore dello scontro con i jihadisti e più continueranno a godere degli aiuti militari Usa, oltreché del consenso europeo e delle simpatie occidentali. Sono puntelli vitali per il governo del Rojava (la regione autonoma curda in Siria) di fronte all’ostilità della Turchia di Erdogan e alla nuova aggressività di Bashar Assad, oggi più che mai deciso a restaurare la sovranità sull’intero Paese come prima dello scoppio delle rivolte anti-regime nella primavera del 2011. Da qui la proposta di creare un «tribunale internazionale» nel Rojava per giudicare i jihadisti loro prigionieri, che però per ora trova pochi consensi.Gli irriducibili del Califfato Eppure, stupisce la volontà di resistenza dei militanti di Isis e delle loro famiglie. Gli autisti curdi che ci hanno guidato a Baghouz continuano a parlare della loro paura di imboscate già 150 chilometri prima dell’Eufrate. «Qui città e villaggi sono tutti arabi sunniti. L’Isis resta più popolare che mai», spiegano a giustificare il loro desiderio di viaggiare in gruppo con scorte armate. «Circa due settimane fa abbiamo intercettato e catturato oltre 400 uomini nel deserto appena fuori Baghouz, per lo più volontari stranieri, tanti col passaporto francese assieme a ceceni e tunisini, ma anche siriani, turchi e iracheni, che cercavano di scappare dalla sacca con l’idea di costruire un altro Califfato fuori da qui. Anche quelli che negli ultimi giorni uscivano dalle loro tane per lanciarsi da kamikaze tra i nostri ranghi lo facevano gridando vendetta e inneggiando all’immortalità del Califfato. Fa paura la loro determinazione nella certezza che possono ancora rinascere più forti di prima. Le loro imboscate dagli ultimi tempi, compresa quella dove è morto il volontario italiano Lorenzo Orsetti, sono sempre state letali, non davano segni di cedimento, sebbene militarmente fossero chiaramente battuti», spiega Achmad Hassan, 21 anni, che incontriamo intento a cercare di bonificare il villaggio. Sembra un lavoro da Sisifo, visto l’enorme numero di mine, proiettili e bombe-trappola sparsi ovunque. Le truppe di Bashar Vi siamo arrivati dalla zona degli Omar Oil Fields, uno dei tanti campi petroliferi di cui è ricca tutta la regione. Non a caso Damasco fa carte false per riaverla. Circa un’ora e mezzo di piste polverose in un deserto assolutamente piatto e inverdito dalle copiose piogge dell’inverno. «Nella seconda metà dell’anno scorso la nostra intelligence segnalava una violenta guerra interna all’Isis tra volontari stranieri e militanti locali. Era sparito Al Baghdadi innescando la lotta per la successione. Speravamo ci facilitasse. Poi però due fattori hanno rallentato la nostra avanzata dal suo inizio l’11 settembre: il cattivo tempo e soprattutto la presenza di circa 100.000 civili, donne e bambini, spose e figli dei jihadisti. Ma pur sempre civili. Non potevamo massacrarli tutti. Così abbiamo dovuto procedere in modo chirurgico», spiega Adnan. Le truppe di Bashar assieme a unità iraniane sono appostate a poche decine di metri, sull’altra sponda del fiume, e controllano Al Bukamal, l’ultimo villaggio prima della frontiera con l’Iraq. «A loro non ci arrendiamo perché, a differenza dei curdi, ci ammazzano subito», ammettono gli stessi jihadisti. A Baghouz praticamente tutte le case sono distrutte o gravemente danneggiate, specie da proiettili di piccolo calibro. Non c’è la complessità di Raqqa e Mosul. È nella guerriglia urbana che Isis offre il meglio di sé e trova riparo contro il monopolio americano dei cieli. Qui le bombe Usa avrebbero potuto rapidamente aprire la strada alla fanteria curda. Lo testimoniano gli enormi crateri nei campi tutto attorno e gli edifici maggiori più isolati ridotti in briciole da missili ad alta precisione. Tutt’ora il ronzio dei droni americani resta costante. Ma si è preferito avanzare in modo graduale, anche a costo di mettere a repentaglio le fanterie curde. Il GIORNALE - Daniel Mosseri: "Austria, preso lupo solitario dell'Isis: tentò di fare deragliare due treni"
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