martedi` 23 aprile 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
15.01.2019 Verso la Giornata della Memoria: tre articoli per ricordare
Commenti di Giordano Stabile, Giuseppina Manin, Simonetta Fiori

Testata:La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Giordano Stabile - Giuseppina Manin - Simonetta Fiori
Titolo: «Israele cerca nel Danubio le vittime dell'Olocausto - La coppia degli orrori nazisti - Andra e Tati se queste sono bambine»

Riprendiamo oggi, 15/01/2019, dalla STAMPA a pag.14 con il titolo "Israele cerca nel Danubio le vittime dell'Olocausto", il commento di Giordano Stabile; dal CORRIERE della SERA, a pag. 40, con il titolo "La coppia degli orrori nazisti", il commento di Giuseppina Manin; dalla REPUBBLICA, a pag. 32, con il titolo "Andra e Tati se queste sono bambine", il commento di Simonetta Fiori.

LA STAMPA - Giordano Stabile: "Israele cerca nel Danubio le vittime dell'Olocausto"

Immagine correlata
Giordano Stabile

Sommozzatori israeliani setacceranno il fondo del Danubio a Budapest, alla ricerca dei resti di migliaia di ebrei uccisi alla fine del 1944. L’annuncio è stato dato ieri dal ministro dell’Interno dello Stato ebraico, Aryeh Deri, in visita in Ungheria. Il governo guidato dal nazionalista Viktor Orban ha così voluto dare un segnare di vicinanza a Israele. I resti recuperati verranno portati a Gerusalemme, dove riceveranno funerali ebraici, a quasi settantacinque anni dalla terribile fine. Migliaia di ebrei vennero uccisi negli ultimi mesi del 1944, quando l’Armata Rossa era alle porte della capitale ungherese. L’Ungheria era governata da un fantoccio di Hitler, Dome Sztojay, leader del movimento paramilitare delle Croci Frecciate. Fino al marzo di quell’anno la grande comunità ebraica era stata in qualche modo al riparo dalla Shoah ma i miliziani delle Croci Frecciate cominciano nell’autunno una caccia all’uomo spietata. Alla fine della guerra oltre 565 mila ebrei ungheresi risultarono uccisi.

Fino a 150 metri di profondità
A migliaia, per eliminarli più in fretta, prima che i russi liberassero la città, furono uccisi con un colpo di pistola e gettati nel Danubio. Ora però Israele vuole portali in terra ebraica. Il ministro Deri, che è anche un rabbino ultra-ortodosso, ha raggiunto perciò un accordo con il collega ungherese Sandor Pintet. Un gruppo specializzato nell’identificazione della vittime dell’Olocausto, Zaka, è arrivato con lui a Budapest, e comincerà le ricerche la settima prossima. I sommozzatori utilizzeranno una strumentazione sofisticata, con sonar che possono raggiungere una profondità di 150 metri e uno scanner in grado di identificare oggetti in un raggio di 130 metri.
Nel 2005 l’Ungheria ha inaugurato un monumento, chiamato Le Scarpe, lungo la passeggiata sulla riva del Danubio, accanto all’argine di Pest. È composto di sei paia di scarpe in ghisa, in ricordo degli ebrei uccisi. Le scarpe sono state scelte perché spesso le vittime, prima di essere trucidate, venivano legate con i lacci dello loro calzature. Così legati, gli ebrei di Budapest venivano poi gettati nel fiume, per farli scomparire senza lasciare tracce. La maggior parte degli ebrei ungheresi vennero però uccisi nei campi di sterminio della Germania nazista, a cominciare da Auschwitz. In soli due mesi, dal maggio al luglio del 1944, oltre 400 mila vennero deportati nel più terribile dei lager.

CORRIERE della SERA - Giuseppina Manin: "La coppia degli orrori nazisti"

Immagine correlata
Giuseppina Manin

Di appellativi Reinhard Heydrich ne aveva molti. Nessuno affettuoso. A turno poteva scegliere tra «il macellaio», «la belva bionda», il «boia di Praga». Ma il suo preferito era certo quello coniato per lui da Hitler stesso: «cuore di ferro». Che detto dal Führer... Del resto, come meglio definire il più spietato dei gerarchi, il più stretto collaboratore di Himmler nelle SS, il principale artefice di quella «soluzione finale» che prevedeva lo sterminio di milioni di persone? E con lo stesso titolo, L’uomo dal cuore di ferro, esce giovedì 24 gennaio, giusto preludio alla Giornata della Memoria, il film di Cédric Jimenez (French Connection), ispirato al romanzo HHhH (Einaudi) di Laurent Binet, su una delle figure più oscure e spaventose del regime nazista. «Via via che lo leggevo — racconta Jimenez —, mi chiedevo: ma come può un uomo arrivare a quei punti? Da dove nasce quella crudeltà, quella voglia di uccidere senza mai un’esitazione, un rimorso?». Una discesa negli abissi del male che il film prova a esplorare grazie anche a un cast di attori magnifici, in testa Jason Clarke, Heydrich, e Rosamund Pike, sua moglie Lina. «Lina von Osten — precisa il regista —. Un’aristocratica decaduta in cerca di riscatto. Affascinante e determinata è lei che inizia Reinhard all’ideologia nazista e lo spinge fino ai vertici del sistema». Quando i due si incontrano, lui è un uomo finito, disonorato, ufficiale per nulla gentiluomo, condannato per indegnità nei confronti di una ragazza. Eppure Lina in lui vede delle possibilità inattese, quella violenza e spregiudicatezza necessarie per una fulminea ascesa al potere. «Credo ne fosse innamorata davvero, anche perché Reinhard era alto, biondo, occhi glaciali, un vero manifesto della razza ariana — considera Rosamund Pike, versatile attrice inglese, da Bond Girl ne La morte può attendere a candidata all’Oscar per L’amore bugiardo —. Ho letto il libro scritto da lei ormai anziana, dove parla con franchezza dei suoi sentimenti e della sua vergogna. Che l’abbia amato è indubbio, ma indubbio è anche che le sia sfuggito di mano. Ha costruito pezzo dopo pezzo il mostro che finirà per distruggere anche lei». «Lina è l’immagine del popolo tedesco — aggiunge Jimenez —. Prima la fede incondizionata nell’uomo forte, che cambierà in meglio il Paese, poi la delusione per quello che diventerà davvero». Le folle che in strada salutano le parate, le svastiche che piovono dal cielo come coriandoli, i bambini a cui si indica con entusiasmo l’immagine di un uomo dallo sguardo allucinato e dagli strani baffetti, lasciano intendere un consenso stordito. «Purtroppo un meccanismo ancora attuale — considera il regista francese —. Il risorgere di tanti populismi, di tanti movimenti di destra estrema, di razzismi e xenofobie, dimostra che la lezione della storia non è bastata. È come se Hitler fosse diventato un’immagine virtuale. Il rischio è di trasformare lui e i suoi seguaci in mostri da videogiochi, mentre invece sono uomini reali, con le loro follie, le loro contraddizioni e debolezze». E così, tra i momenti più spiazzanti del film, troviamo quelli che mostrano Heydrich nella sua intimità domestica, intento a giocare con i figli, a issarli a cavalluccio sulle spalle, a suonare il violino commovendosi fino alla lacrime. E un attimo dopo lo stesso uomo in divisa spara a una madre ebrea che gli porge il bimbo sperando nella sua misericordia. O stila nel progetto di sterminio della conferenza di Wannsee l’elenco meticoloso di come eliminare milioni di ebrei in appositi campi e come sbarazzarsi dell’ingombro dei cadaveri. «La prima ragione per cui ho fatto questo film è che si può e si deve dire no a tutto questo. Nonostante tutto, Heydrich è stato fermato. A organizzare l’attentato fatale sono stati dei giovani della Resistenza ceca in esilio addestrati dagli inglesi. Ragazzi pronti a sacrificarsi. E con loro tanti altri, pronti a rischiare la vita per aiutarli. Come la giovane militante che dà loro rifugio, interpretata da Mia Wasikowska». Colpito da una granata tiratagli mentre passava in auto a Livice, vicino Praga, il 4 giugno 1942, Heyrich muore per le ferite riportate. La rappresaglia sarà terribile. Tutti gli uomini maggiori di 16 anni verranno passati per le armi, il villaggio dato alle fiamme. Persino i cani non saranno risparmiati vista l’impossibilità di essere «germanizzati».

LA REPUBBLICA - Simonetta Fiori: "Andra e Tati se queste sono bambine"

Immagine correlata
Simonetta Fiori

La deportazione ad Auschwitz, la morte del cugino, la liberazione, la rinascita nel collegio di Anna Freud, la testimonianza. In un libro la storia delle sorelle Bucci attraverso parole, sogni e incubi che ancora le perseguitano Parlano al plurale, sempre con il "noi", ma sono molto diverse. Andra pensa spesso ad Auschwitz, la notte ha gli incubi anche se poi dimentica. Tati non sogna mai il lager, però è stata a lungo tormentata dall’immagine notturna di un rullo compressore. Che cosa c’è di più emblematico per un campo di sterminio? Anche quando evoca la tragedia, nella voce di Tati corre un filo di gioiosa vitalità. Forse perché nella casa di Bruxelles dove vive da cinquant’anni l’ha appena raggiunta Andra, che trascorre gran parte dell’anno in California dalla figlia. Tatiana e Andra Bucci sono le sorelline di Auschwitz, due dei pochissimi bambini sopravvissuti alla deportazione. Insieme hanno vissuto l’arresto e la detenzione nel Kinderblock stemperando l’orrore in normalità. Insieme hanno visto la nonna Rosa Perlow buttarsi in ginocchio davanti a un omone impassibile, la mamma che ischeletriva nel campo, il dondolio dei cadaveri prima di essere scagliati dentro il carro. Insieme hanno affrontato quel lungo viaggio che è "la liberazione nella liberazione", prima l’orfanotrofio a Praga e poi la rinascita nel collegio inglese diretto da Anna Freud. «Siamo come un francobollo appiccicato su una cartolina», dicono così per restituire una vita in simbiosi. Dopo aver ispirato libri, cartoni animati e fumetti, la loro storia è diventata un bellissimo racconto autobiografico che Mondadori pubblica per la Giornata della memoria ( Noi, bambine ad Auschwitz, a cura di Umberto Gentiloni e Marcello Pezzetti, in collaborazione con Stefano Palermo). A renderlo speciale è la qualità della testimonianza, due voci che diventano una ma senza annullarsi vicendevolmente, piuttosto disegnando un mondo di sfumature emotive diverse, perché ai lutti della Storia si può reagire in tanti modi. Tati si è dimenticata subito il numero tatuato sul braccio, Andra è come se l’avesse inciso nell’anima. Quando vanno a Birkenau con le scuole, a Tati viene un groppo alla gola non appena scorge la torretta della guardia ma all’uscita si libera rapidamente della bambina perseguitata, mentre Andra per togliersi quei panni ha bisogno di più tempo. Per lei testimoniare insieme significa condividere un peso. Invece Tati confessa di sentirsi talvolta più libera da sola: perché reimmergersi nell’inferno può far male, molto male, e lei continua a proteggere la "sorellina". «È stato così per i dieci mesi della detenzione», racconta Tati. «Andra aveva 4 anni, due meno di me: la vedevo fragile, smarrita, più bisognosa di attenzione». Oggi sono due adorabili signore con i capelli bianchi – 81 anni Tati e 79 Andra – ma nella tenerezza con cui si guardano e sorridono complici si intravvedono le bambine prelevate a Fiume da una pattuglia tedesca la sera del 28 marzo del 1944. Ancora ricordano la tavola apparecchiata, in attesa di una cena mai consumata. Le foto dell’epoca le ritraggono elegantissime, il vestitino cucito a punto smock dalla madre sarta. Sembrano gemelle, e forse è stata la somiglianza a salvarle dalle camere a gas, formidabile cavia per la follia dei medici nazisti. Furono arrestate nella loro casa insieme alla mamma Mira, alla nonna Rosa, alla zia Sonia e allo zio Jossi, alla zia Gisella e al cuginetto Sergio che non sarebbe più tornato: l’avrebbero ritrovato appeso a un gancio, le ascelle tagliate per una sperimentazione sui linfonodi. Se oggi si domanda alle sorelle Bucci quale sia il dolore più grande, parlano di Sergio: ma non della sua morte, piuttosto della paura di dimenticarlo. «Quando ci rendiamo conto alla fine di una testimonianza di non averlo nominato, ci assale un senso di colpa terribile». Ricordare è ridare vita a chi non c’è più. Loro si sono salvate grazie a una blockova, la sorvegliante del reparto. Era stata la donna a metterle in guardia. Un medico con il camice bianco si sarebbe avvicinato domandando: «Chi vuole rivedere la mamma?». Tati e Andra sapevano di dover stare immobili, mute come statue di gesso. Avevano avvertito anche Sergio: non ti muovere, altrimenti finisci male. Ma Sergio aveva troppa voglia di riabbracciare sua madre. Zia Gisella non avrebbe mai creduto alla morte orribile del figlio. E fino alla fine dei suoi giorni l’ha immaginato vivo e bellissimo in qualche angolo di mondo. La loro è la storia di una famiglia ebrea-russa che ha attraversato tre imperi – quello zarista, l’asburgico e il regime mussoliniano conservando la ricchezza della Mitteleuropa e un senso inestinguibile di tolleranza. Una storia al femminile dove le protagoniste sono la nonna materna Rosa – una guerriera sopravvissuta ai pogrom dell’Europa Orientale – e la mamma Mira che ha allevato le figlie sostanzialmente da sola mentre il marito navigava per lunghi periodi in qualità di cuoco. Per il padre Nino Bucich italianizzato Bucci – figlio di famiglia cattolica rimasto prigioniero in Sudafrica fino alla fine della guerra – le due sorelle hanno parole di amorosa gratitudine. Ma la figura con cui non smettono di fare i conti è Mira, la madre che ad Auschwitz rischiava la vita per andare a vedere le sue bambine. «Ci abbracciava e ci baciava e la prima cosa che faceva era ripeterci i nostri nomi: voleva tenerci ancorate alla vita, quella fuori dal campo». E Tati e Andra non si perdonano ancora di aver provato ribrezzo per il suo corpo scarnificato. E di aver convissuto serenamente con l’idea della sua morte. Quando nel dicembre del 1946 la ritrovano sulla banchina del treno che da dall’Inghilterra le riportava a Roma restano impietrite dall’emozione. «C’era una folla intorno a noi, uomini e donne accorsi con in mano la foto dei loro bambini scomparsi ad Auschwitz: li conoscete? Sapete dove sono?». Mira non dice nulla e capisce tutto. Di Auschwitz con le figlie non avrebbe parlato più. Era il suo modo per proteggerle: un lungo e impenetrabile silenzio. «Una sera eravamo a casa a vedere in televisione un servizio sui campi di sterminio. Noi due e la mamma scoppiammo a piangere. Allora papà spense la tv. Andammo tutti a letto e non ne avremmo più fatto cenno». Si apriva una crepa, meglio chiuderla subito. E guardare avanti. Tati e Andra si sono sposate, hanno avuto buone vite ricche di affetto e amicizia. Da poco è rimasta vedova anche Tati ed è una festa quando si ritrovano. Tra loro parlano di tutto ma non di Auschwitz, non ne sentono il bisogno. Da vent’anni, dall’uscita del libro rivelatore di Titti Marrone, fanno testimonianza nelle scuole d’Europa. Restano colpite ogni volta che in Germania i ragazzi abbassano lo sguardo, come imbarazzati. «In quel paese il processo di elaborazione sullo sterminio è stato profondo, mentre in Italia sembra tuttora incompiuto, anche per la difficoltà degli italiani ad ammettere le loro responsabilità». Negli ultimi tempi testimoniare ha acquistato un nuovo significato civile, la volontà di contrastare i rigurgiti neofascisti e il clima di odio contro i migranti. «Non si possono paragonare i campi di sterminio ai centri di detenzione per i nordafricani, ma quelle immagini di sofferenza sono un’offesa anche alla nostra storia: prima il nemico eravamo noi ebrei, oggi i neri». Il loro desiderio più grande è andare a ballare davanti al cancello di Auschwitz insieme a tutti i nipoti. «La colonna sonora? I Will Survive di Gloria Gaynor». Anche Andra sorride. Tati la guarda e sembra felice.

Per inviare la propria opinione, telefonare a:
La Stampa: 011/65681
Corriere della Sera 02/62821
La Repubblica 06/49821
oppure cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@lastampa.it
https://www.corriere.it/scrivi/
rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT